martedì 27 febbraio 2018

Caffettiere


Fuori ci saranno, credo, quattro o cinque gradi sotto zero. Esattamente non lo so quanti, però prima è successa una cosa piuttosto curiosa, e indicativa: avevo messo fuori dalla porta il sacchetto della spazzatura, come fo sempre, per andare più tardi a portarlo al cassonetto (il cosiddetto oblomovismo ecosostenibile). Ebbene, al momento fatidico di portarlo su (dico “su” perché sto in un sottosuolo), la spazzatura si era congelata. Una specie di guazzabuglio inteccherito dei normali troiai della vita quotidiana; così l'ho portato su. Appena tornato in casa, mi son detto: per tutti i diavoli, qui ci vuole un caffè, anzi, un bel caffè. Mica un caffeino: un caffeone, fatto come iddìo comanda, senza pressare la polvere, e pure bello zuccherato perché bere il caffè amaro sarà anche da intenditori, ma -come si dice a Oxford all'angolo con Cambridge, gli intenditori possono anche andare a farselo troncare nel culo.

In casa ho tre caffettiere: una da due, una da tre e una da sei. Ne avevo anche una “monodose”, ma qualche tempo fa ha fatto una fine abbastanza consueta per quel che mi riguarda: l'ho messa sul fuoco dimenticandomi di riempirla d'acqua. E così è fusa la guarnizione, spedendo la povera caffettierina nel mio personale paradiso caffettieresco, assieme alla vecchia e gloriosa Bialetti. Faceva parte, la defunta caffettiera monodose, di una “fornitura” del tutto particolare, della quale avrò a parlare un po' in questo post scritto in una gelida nottata di fine febbraio, per riscaldarsi nel modo migliore, ovvero perdendo tempo a ruota libera.

Di tutte le caffettiere che ho, non ne ho acquistate nemmeno una. Quella da tre, di marca “Pedrini” mi è stata regalata in circostanze abbastanza curiose. Alcuni anni fa, quando lavoravo ancora sulle ambulanze e nei servizi di trasporto sociale, mi era capitato di dover portare un'anziana signora a fare un ciclo di cure settimanali in un presidio sanitario. Tre giorni alla settimana, a una data ora, andavo a prenderla con un pulmino o una macchina, la aspettavo e poi la riportavo a casa. Al termine del ciclo di cure, la signora si sentì in dovere di farmi un regalo: la caffettiera, appunto. Che accettai di buon grado e con tanti ringraziamenti espressi mediante grugniti o roba del genere. La cosa assolutamente mirabile è che tale caffettiera donatami in ambito sanitario ha casualmente lo stesso nome, Pedrini, del mio medico di base (che è una donna). Vorrà dire qualcosa?

Le altre caffettiere -compresa, come detto, la scomparsa “mono”- erano invece tutte della zia Clara, dell'isola d'Elba, morta il 13 luglio 2014. La zia Clara, alla quale cantavo quasi ogni volta che la vedevo “Aqui se queda la Clara...”, è morta che non c'era ormai più con la testa; l'ultima volta che l'ho vista da viva mi aveva riconosciuto, mi aveva chiesto come stavo, e poi mi aveva chiesto come andava con una fidanzata che non avevo più da vent'anni e rotti. “Va benone, zia, eh, benissimo...!”, le rispondevo quasi ghignando e facendo ghirigori nell'aria con una mano. Ci aveva la zia Clara, negli ultimi mesi della sua vita, una badante rumena che sembrava un rinoceronte, e che era stata sistemata nella camera dove dormivo da giovane e dove, tra le altre cose, ero stato più volte proprio con la famosa fidanzata in questione; la aveva riempita, la badante o badonte che dir si voglia, di immagini sacre, di santi ortodossi, di icone ritagliate dai giornali, di cose che per un momento mi avevano fatto venire l'insopprimibile desiderio di rivalutare Nicolae Ceauşescu, Ana Pauker e Gheorghiu Dej. Nel delirio di vedere la mia stanza trasformata in un reliquiario rumeno, e confondendo oramai Ana Pauker con Ana Aslan (quella del Gerovital), avevo avuto una specie di flash: mi ero rivisto per un attimo, ragazzino quindicenne, varcare la soglia di un'anziana signora rumena, quando avevo da poco cominciato a imparare il rumeno. Non mi ricordo come, ero stato messo in contatto con questa persona che abitava a Firenze, quando di rumeni in giro in Italia ce ne saranno stati una ventina o poco più. Elena Margheri Albescu si chiamava la signora, aveva sposato un italiano chissà quando e viveva da sola perché era rimasta vedova. Al momento di suonare il campanello di casa sua, tutto emozionato perché non avevo mai parlato in rumeno fino ad allora, mi ero accorto che sotto il pulsante c'era un'etichetta appiccicata, contenente uno scongiuro: Sfântul Sava să ne proteagă din hoţi, ovvero “che San Saba ci protegga dai ladri”. La Margheri Albescu, lo avrei appreso più tardi, era una comunista di ferro; eppure, sotto il campanello di casa, invocava un santo di casa sua affinché le proteggesse la casa. Così, all'improvviso, riuscii a capire quella povera donna che badava a mia zia Clara e che mi aveva riempito la stanza di santini. Anche dalla Margheri Albescu avevo avuto un regalo dopo un po', anzi due. Un sorriso è un “te desculci foarte bine” (te la cavi molto bene), riferito al rumeno, e un disco di musica popolare di tale Dona Dumitru Siminică, intitolato Cine are fată mare? (“Chi ha una ragazza grande?”, cioè, da sposare).

Tutto questo va immaginato in tre secondi. La percezione dei santini, la rabbia, la rivalutazione di Ceauşescu, il ricordo della Margheri Albescu e del suo scongiuro sotto il campanello con la mia memoria assolutamente patologica (sono ancora capace di ricordarmi chi c'era sulla copertina della Settimana Enigmistica n° 2152 del 24 giugno 1973, vale a dire Enio Girolami, mentre sul n° 2156 c'era Kaz Garas e sul n° 2310 tale “John Travioli”, ovvero una primitiva versione di John Travolta) e, infine, il pensiero a quali accidenti della vita e della storia avessero portato quella donna e i suoi santini da qualche villaggio dell'Oltenia o della Dobrugia fino al Formicaio, Marina di Campo, Isola d'Elba, a imboccare e smerdare mia zia Clara che stava per morire.

Intanto ho messo la caffettiera sul fuoco, quella che si vede nella foto. Quando la zia Clara è morta, poco dopo (era maggio, è morta a metà luglio), io e mio fratello ci siamo ritrovati di fronte a un compito oceanico: aprirle l'armadio. Quello di camera sua. Quando era viva, nessuno aveva il diritto di aprirlo: ci teneva tutta una vita, una vita di donna sola e fieramente sola (non si era mai voluta sposare, sembra dopo una terribile delusione d'amore da ragazza): e così, agli occhi miei e di mio fratello si è spalancato un guazzabuglio di tesori e di schifezze.

Vestiti nuovi mai messi e biancheria letteralmente marcia e divorata dalle tarme. Scatolate di fotografie vecchissime e quattro, dico quattro, asciugacapelli mai usati quando in bagno c'era ancora un pericolosissimo arnese di marca Wunder (“meraviglia”) acquistato, credo, nel 1970 e ancora funzionante, ma che asciugava i capelli in due ore e mezzo da quanto andava lento. Uno scatolone pieno di bicchieri di ogni sorta e due bambole da letto, bellissime. Una valigetta piena di vecchie carte, con il libretto d'imbarco di mio bisnonno, i documenti militari di mio zio Mamiliano (disperso in mare nel 1941 a Capo Matapan) e un quaderno pieno di ricette e canzoni popolari. Mutande nuove e mutande sporche di merda. Coperte rose dai topi, cinquecentomila lire fuori corso, l'albero genealogico della famiglia fatto redigere chissà da chi e, appunto, caffettiere. Caffettiere di ogni tipo, ancora nelle loro scatole. Caffettiere mai usate. Caffettiere vergini, che non avevano mai visto un granello di caffè. In cucina, da trecento anni circa, c'era una caffettiera bisunta della quale, peraltro, la zia non faceva praticamente uso perché detestava il caffè, e che serviva solo a noialtri. Resta quindi il mistero perché non facesse che comprare caffettiere se non le piaceva il caffè, depositandole nel suo armadio senza nemmeno toccarle. Ce n'erano, in tutto, dodici.

In uno di quei momenti magici, irripetibili, io e mio fratello ci siamo messi a ridere come scalmanati. Un accesso irrefrenabile, di fronte alla parata delle caffettiere; e ancora non era arrivato il “clou”, vale a dire due scatoloni stracolmi di ogni attrezzo di cucina, da poterci rifornire due ristoranti interi. Tenuti naturalmente nell'armadio, e non in cucina (un bugigattolo dove si faceva fatica a entrare in due). La farò qui breve, risparmiando tutto il “triage”, i sacchi della spazzatura riempiti di tutta la roba marcia, i lavaggi della roba buona, la ca-te-go-riz-za-zio-ne delle masserizie, il “questo lo prendo io” e il “questo lo prendi tu”. Dirò quindi solo cosa mi sono preso io.

Mi sono preso le fotografie, tra le quali ne è spuntata pure una dove ci sono io personalmente di persona, a poco meno di diciott'anni, magrissimo, un filo di barba, i capellacci bagnati, mentre sono in acqua su una spiaggia con un paio di pinne in mano. Sta qui davanti a me, quella foto, mentre sto scrivendo e perdendo il tempo quasi quarant'anni dopo. Poi mi sono preso la valigetta con le carte, lasciando però all'Elba l'albero genealogico, dato che non ho figli e non posso annaffiarlo (ci ha pensato, di recente, mia nipote mancando peraltro solo di due o tre giorni, per il suo bambino, la stessa data di nascita della famosa fidanzata della quale mi chiedeva la zia Clara quando son esprit battait la campagne). E poi mi sono preso gli scatoloni con gli attrezzi di cucina, e tutte e dodici le caffettiere.

Per me, ne ho tenute soltanto tre. Le altre nove e quasi tutti gli attrezzi di cucina sono stati distribuiti tra pressoché tutte le “realtà antagoniste” di Firenze, cosicché la nostra antagonìa possa almeno essere allietata con cene preparate ammodino. Tra tutte queste cose, il “remo” -vale a dire il mestolone di legno da pentolone di conserva, lungo quasi un metro e che avevo sempre invidiato a un importante centro sociale autogestito che ce lo aveva, e la caffettierona da dodici, che al medesimo centro sociale autogestito avevo a suo tempo fatto fuori dimenticandomi naturalmente di riempirla d'acqua e facendola esplodere quasi centrando in pieno un innocente cantautore di Carrara.

Quelle che ho tenuto, sono la caffettiera da sei, che uso poco e che è bellissima. Strabiliantemente bella, la Hedy Lamarr delle caffettiere.



E poi quella che sta sul fornello nella foto, e che riesce a fare un caffè buonissimo anche quando compro schifezze emerite tipo il “Gimoka” a novantotto centesimi a sacchetto (ma ora, in un impeto di spendaccioneria, ho il caffè Lavazza qualità rossa che tengo diabolicamente in un barattolo di caffè Vergnano). Di marca “Forever”, si chiama così.

Naturalmente, al momento di chiudere o quasi questa lunga perdita di tempo notturna, e mentre là fuori tutto si congela nella mortale stretta del rude inverno, il caffè fatto con la Forever della zia Clara me lo sono già bevuto tutto quanto, in una tazza col manico rotto che mi serve a scaldarmi le mani. La caffettiera, ora, sta lì nell'acquaio, da lavare, e ancora una volta ha assolto al suo dovere. Sarà stata quindici o vent'anni nell'armadio della zia, e quel lungo ozio lo sta pagando caro da tre anni e mezzo a questa parte data anche la quantità di caffè che bevo. Esiste qualche cosa di più bello di un caffè bollente e di una sigaretta rollata a mano, zia? Ma te lo ricordi, zia, di quando ogni tanto provavo a farti tirare un pèo da una sigaretta, tu che non avevi mai fumato in vita tua, e lo tiravi pure? E il basilico nelle tinozze, con delle foglie enormi, mai viste? E i gatti che si azzuffavano per papparsi le lische dei pesci messe su un foglio di carta di giornale? E il tuo motorino “Ciao”, quando ti si chiamava “Agostini”? Io, però, protestavo perché facevo il tifo per Renzo Pasolini. Ecco, zia, un caffè. Un caffè nella notte, in una notte gelida, in un inverno che non finisce. Ma finirà. Forever!