mercoledì 28 febbraio 2018

Nell'attesa




Marchesa, se il mio viso
ha qualche fattezza un po' vecchia
ricordatevi che, alla mia età,
non varrete affatto di più.
Marchesa, se il mio viso
ha qualche fattezza un po' vecchia
ricordatevi che, alla mia età,
non varrete affatto di più.

Il tempo, alle cose più belle
si compiace di fare un affronto,
e saprà far appassire le vostre rose
come a me ha riempito la fronte di rughe.
Il tempo, alle cose più belle
si compiace di fare un affronto,
e saprà far appassire le vostre rose
come a me ha riempito la fronte di rughe.

Lo stesso corso dei pianeti
regola le nostre nostre notti e i nostri giorni,
mi si è già visto come voi siete,
e sarete quel che io sono.
Lo stesso corso dei pianeti
regola le nostre notti e i nostri giorni,
mi si è già visto come voi siete,
e sarete quel che io sono.

"Può darsi che diverrò vecchia",
-risponde Marchesa-, "purtuttavia
ho ventisei anni, mio vecchio Corneille,
e, nell'attesa, vaffanculo,
ho ventisei anni, mio vecchio Corneille,
e, nell'attesa, vaffanculo."

Pierre Corneille (str. 1-2-3)
Tristan Bernard (str. 4)
Georges Brassens.

martedì 27 febbraio 2018

Caffettiere


Fuori ci saranno, credo, quattro o cinque gradi sotto zero. Esattamente non lo so quanti, però prima è successa una cosa piuttosto curiosa, e indicativa: avevo messo fuori dalla porta il sacchetto della spazzatura, come fo sempre, per andare più tardi a portarlo al cassonetto (il cosiddetto oblomovismo ecosostenibile). Ebbene, al momento fatidico di portarlo su (dico “su” perché sto in un sottosuolo), la spazzatura si era congelata. Una specie di guazzabuglio inteccherito dei normali troiai della vita quotidiana; così l'ho portato su. Appena tornato in casa, mi son detto: per tutti i diavoli, qui ci vuole un caffè, anzi, un bel caffè. Mica un caffeino: un caffeone, fatto come iddìo comanda, senza pressare la polvere, e pure bello zuccherato perché bere il caffè amaro sarà anche da intenditori, ma -come si dice a Oxford all'angolo con Cambridge, gli intenditori possono anche andare a farselo troncare nel culo.

In casa ho tre caffettiere: una da due, una da tre e una da sei. Ne avevo anche una “monodose”, ma qualche tempo fa ha fatto una fine abbastanza consueta per quel che mi riguarda: l'ho messa sul fuoco dimenticandomi di riempirla d'acqua. E così è fusa la guarnizione, spedendo la povera caffettierina nel mio personale paradiso caffettieresco, assieme alla vecchia e gloriosa Bialetti. Faceva parte, la defunta caffettiera monodose, di una “fornitura” del tutto particolare, della quale avrò a parlare un po' in questo post scritto in una gelida nottata di fine febbraio, per riscaldarsi nel modo migliore, ovvero perdendo tempo a ruota libera.

Di tutte le caffettiere che ho, non ne ho acquistate nemmeno una. Quella da tre, di marca “Pedrini” mi è stata regalata in circostanze abbastanza curiose. Alcuni anni fa, quando lavoravo ancora sulle ambulanze e nei servizi di trasporto sociale, mi era capitato di dover portare un'anziana signora a fare un ciclo di cure settimanali in un presidio sanitario. Tre giorni alla settimana, a una data ora, andavo a prenderla con un pulmino o una macchina, la aspettavo e poi la riportavo a casa. Al termine del ciclo di cure, la signora si sentì in dovere di farmi un regalo: la caffettiera, appunto. Che accettai di buon grado e con tanti ringraziamenti espressi mediante grugniti o roba del genere. La cosa assolutamente mirabile è che tale caffettiera donatami in ambito sanitario ha casualmente lo stesso nome, Pedrini, del mio medico di base (che è una donna). Vorrà dire qualcosa?

Le altre caffettiere -compresa, come detto, la scomparsa “mono”- erano invece tutte della zia Clara, dell'isola d'Elba, morta il 13 luglio 2014. La zia Clara, alla quale cantavo quasi ogni volta che la vedevo “Aqui se queda la Clara...”, è morta che non c'era ormai più con la testa; l'ultima volta che l'ho vista da viva mi aveva riconosciuto, mi aveva chiesto come stavo, e poi mi aveva chiesto come andava con una fidanzata che non avevo più da vent'anni e rotti. “Va benone, zia, eh, benissimo...!”, le rispondevo quasi ghignando e facendo ghirigori nell'aria con una mano. Ci aveva la zia Clara, negli ultimi mesi della sua vita, una badante rumena che sembrava un rinoceronte, e che era stata sistemata nella camera dove dormivo da giovane e dove, tra le altre cose, ero stato più volte proprio con la famosa fidanzata in questione; la aveva riempita, la badante o badonte che dir si voglia, di immagini sacre, di santi ortodossi, di icone ritagliate dai giornali, di cose che per un momento mi avevano fatto venire l'insopprimibile desiderio di rivalutare Nicolae Ceauşescu, Ana Pauker e Gheorghiu Dej. Nel delirio di vedere la mia stanza trasformata in un reliquiario rumeno, e confondendo oramai Ana Pauker con Ana Aslan (quella del Gerovital), avevo avuto una specie di flash: mi ero rivisto per un attimo, ragazzino quindicenne, varcare la soglia di un'anziana signora rumena, quando avevo da poco cominciato a imparare il rumeno. Non mi ricordo come, ero stato messo in contatto con questa persona che abitava a Firenze, quando di rumeni in giro in Italia ce ne saranno stati una ventina o poco più. Elena Margheri Albescu si chiamava la signora, aveva sposato un italiano chissà quando e viveva da sola perché era rimasta vedova. Al momento di suonare il campanello di casa sua, tutto emozionato perché non avevo mai parlato in rumeno fino ad allora, mi ero accorto che sotto il pulsante c'era un'etichetta appiccicata, contenente uno scongiuro: Sfântul Sava să ne proteagă din hoţi, ovvero “che San Saba ci protegga dai ladri”. La Margheri Albescu, lo avrei appreso più tardi, era una comunista di ferro; eppure, sotto il campanello di casa, invocava un santo di casa sua affinché le proteggesse la casa. Così, all'improvviso, riuscii a capire quella povera donna che badava a mia zia Clara e che mi aveva riempito la stanza di santini. Anche dalla Margheri Albescu avevo avuto un regalo dopo un po', anzi due. Un sorriso è un “te desculci foarte bine” (te la cavi molto bene), riferito al rumeno, e un disco di musica popolare di tale Dona Dumitru Siminică, intitolato Cine are fată mare? (“Chi ha una ragazza grande?”, cioè, da sposare).

Tutto questo va immaginato in tre secondi. La percezione dei santini, la rabbia, la rivalutazione di Ceauşescu, il ricordo della Margheri Albescu e del suo scongiuro sotto il campanello con la mia memoria assolutamente patologica (sono ancora capace di ricordarmi chi c'era sulla copertina della Settimana Enigmistica n° 2152 del 24 giugno 1973, vale a dire Enio Girolami, mentre sul n° 2156 c'era Kaz Garas e sul n° 2310 tale “John Travioli”, ovvero una primitiva versione di John Travolta) e, infine, il pensiero a quali accidenti della vita e della storia avessero portato quella donna e i suoi santini da qualche villaggio dell'Oltenia o della Dobrugia fino al Formicaio, Marina di Campo, Isola d'Elba, a imboccare e smerdare mia zia Clara che stava per morire.

Intanto ho messo la caffettiera sul fuoco, quella che si vede nella foto. Quando la zia Clara è morta, poco dopo (era maggio, è morta a metà luglio), io e mio fratello ci siamo ritrovati di fronte a un compito oceanico: aprirle l'armadio. Quello di camera sua. Quando era viva, nessuno aveva il diritto di aprirlo: ci teneva tutta una vita, una vita di donna sola e fieramente sola (non si era mai voluta sposare, sembra dopo una terribile delusione d'amore da ragazza): e così, agli occhi miei e di mio fratello si è spalancato un guazzabuglio di tesori e di schifezze.

Vestiti nuovi mai messi e biancheria letteralmente marcia e divorata dalle tarme. Scatolate di fotografie vecchissime e quattro, dico quattro, asciugacapelli mai usati quando in bagno c'era ancora un pericolosissimo arnese di marca Wunder (“meraviglia”) acquistato, credo, nel 1970 e ancora funzionante, ma che asciugava i capelli in due ore e mezzo da quanto andava lento. Uno scatolone pieno di bicchieri di ogni sorta e due bambole da letto, bellissime. Una valigetta piena di vecchie carte, con il libretto d'imbarco di mio bisnonno, i documenti militari di mio zio Mamiliano (disperso in mare nel 1941 a Capo Matapan) e un quaderno pieno di ricette e canzoni popolari. Mutande nuove e mutande sporche di merda. Coperte rose dai topi, cinquecentomila lire fuori corso, l'albero genealogico della famiglia fatto redigere chissà da chi e, appunto, caffettiere. Caffettiere di ogni tipo, ancora nelle loro scatole. Caffettiere mai usate. Caffettiere vergini, che non avevano mai visto un granello di caffè. In cucina, da trecento anni circa, c'era una caffettiera bisunta della quale, peraltro, la zia non faceva praticamente uso perché detestava il caffè, e che serviva solo a noialtri. Resta quindi il mistero perché non facesse che comprare caffettiere se non le piaceva il caffè, depositandole nel suo armadio senza nemmeno toccarle. Ce n'erano, in tutto, dodici.

In uno di quei momenti magici, irripetibili, io e mio fratello ci siamo messi a ridere come scalmanati. Un accesso irrefrenabile, di fronte alla parata delle caffettiere; e ancora non era arrivato il “clou”, vale a dire due scatoloni stracolmi di ogni attrezzo di cucina, da poterci rifornire due ristoranti interi. Tenuti naturalmente nell'armadio, e non in cucina (un bugigattolo dove si faceva fatica a entrare in due). La farò qui breve, risparmiando tutto il “triage”, i sacchi della spazzatura riempiti di tutta la roba marcia, i lavaggi della roba buona, la ca-te-go-riz-za-zio-ne delle masserizie, il “questo lo prendo io” e il “questo lo prendi tu”. Dirò quindi solo cosa mi sono preso io.

Mi sono preso le fotografie, tra le quali ne è spuntata pure una dove ci sono io personalmente di persona, a poco meno di diciott'anni, magrissimo, un filo di barba, i capellacci bagnati, mentre sono in acqua su una spiaggia con un paio di pinne in mano. Sta qui davanti a me, quella foto, mentre sto scrivendo e perdendo il tempo quasi quarant'anni dopo. Poi mi sono preso la valigetta con le carte, lasciando però all'Elba l'albero genealogico, dato che non ho figli e non posso annaffiarlo (ci ha pensato, di recente, mia nipote mancando peraltro solo di due o tre giorni, per il suo bambino, la stessa data di nascita della famosa fidanzata della quale mi chiedeva la zia Clara quando son esprit battait la campagne). E poi mi sono preso gli scatoloni con gli attrezzi di cucina, e tutte e dodici le caffettiere.

Per me, ne ho tenute soltanto tre. Le altre nove e quasi tutti gli attrezzi di cucina sono stati distribuiti tra pressoché tutte le “realtà antagoniste” di Firenze, cosicché la nostra antagonìa possa almeno essere allietata con cene preparate ammodino. Tra tutte queste cose, il “remo” -vale a dire il mestolone di legno da pentolone di conserva, lungo quasi un metro e che avevo sempre invidiato a un importante centro sociale autogestito che ce lo aveva, e la caffettierona da dodici, che al medesimo centro sociale autogestito avevo a suo tempo fatto fuori dimenticandomi naturalmente di riempirla d'acqua e facendola esplodere quasi centrando in pieno un innocente cantautore di Carrara.

Quelle che ho tenuto, sono la caffettiera da sei, che uso poco e che è bellissima. Strabiliantemente bella, la Hedy Lamarr delle caffettiere.



E poi quella che sta sul fornello nella foto, e che riesce a fare un caffè buonissimo anche quando compro schifezze emerite tipo il “Gimoka” a novantotto centesimi a sacchetto (ma ora, in un impeto di spendaccioneria, ho il caffè Lavazza qualità rossa che tengo diabolicamente in un barattolo di caffè Vergnano). Di marca “Forever”, si chiama così.

Naturalmente, al momento di chiudere o quasi questa lunga perdita di tempo notturna, e mentre là fuori tutto si congela nella mortale stretta del rude inverno, il caffè fatto con la Forever della zia Clara me lo sono già bevuto tutto quanto, in una tazza col manico rotto che mi serve a scaldarmi le mani. La caffettiera, ora, sta lì nell'acquaio, da lavare, e ancora una volta ha assolto al suo dovere. Sarà stata quindici o vent'anni nell'armadio della zia, e quel lungo ozio lo sta pagando caro da tre anni e mezzo a questa parte data anche la quantità di caffè che bevo. Esiste qualche cosa di più bello di un caffè bollente e di una sigaretta rollata a mano, zia? Ma te lo ricordi, zia, di quando ogni tanto provavo a farti tirare un pèo da una sigaretta, tu che non avevi mai fumato in vita tua, e lo tiravi pure? E il basilico nelle tinozze, con delle foglie enormi, mai viste? E i gatti che si azzuffavano per papparsi le lische dei pesci messe su un foglio di carta di giornale? E il tuo motorino “Ciao”, quando ti si chiamava “Agostini”? Io, però, protestavo perché facevo il tifo per Renzo Pasolini. Ecco, zia, un caffè. Un caffè nella notte, in una notte gelida, in un inverno che non finisce. Ma finirà. Forever! 




sabato 24 febbraio 2018

Etimologie popolari


L'espressione linguistica "etimologia popolare" (o paretimologia) è, naturalmente, un calco dalla lingua tedesca: furono i grandi, severi e fumosi linguisti tedeschi del XIX secolo a creare il termine Volksetymologie che tutte le lingue europee hanno poi tradotto a modo loro. Al contrario di tanti termini linguistici, che indicano concetti e fenomeni non immediatamente accessibili a chi non abbia perlomeno abbordato studi specifici, l'etimologia popolare è un fatto comunissimo, quotidiano (oltre che antichissimo): in pratica, quando una data parola passa per i più svariati motivi da una lingua di origine ad un'altra, e molto spesso a più altre, i parlanti la prendono sì e la fanno entrare nell'uso, ma "adattandola" non solo alla loro diversa realtà fonetica, ma anche riportandola a parole che hanno per loro un significato già esistente. E' un fenomeno che interessa sia la comunità dei parlanti, sia il singolo (o quantomeno un gruppo ristretto).

Prendiamo ad esempio un comune modo di dire: fare un repulisti. Deriva da una forma verbale latina, rep(p)ulisti, che è la 2a persona singolare del perfetto di repellere, vale a dire: "tu hai respinto, hai rifiutato". Quasi tutti noi, però, diciamo tranquillamente: fare un ripulisti, cioè qualcosa come "sbarazzarsi di ogni cosa", associando naturalmente la parola al verbo ripulire. Il fenomeno, come detto, può anche riguardare un singolo (o, comunque, più singoli): in fondo, l'etimologia popolare e lo "sfondone" sono gemelli, sebbene eterozigoti. Ogni tanto, ad esempio, la cronaca riporta casi di "donne diaboliche" che hanno fatto fuori mariti, amanti eccetera; famoso il caso, avvenuto anni fa, della Gigliola Guerinoni da Cairo Montenotte (Savona). Orbene, non passarono che poche ore e la Gigliola era già diventata la "mantide di Cairo Montenotte"; però, altrettanto rapidamente, per molti era diventata l' "amantide" (visto che aveva gli amanti...) mentre, di converso, l'insetto dal quale l'espressione ha origine era diventato l' amantide religiosa. Il fenomeno investe ogni cosa, anche i toponimi e i nomi di persona; ad esempio, il nome della città di Ventimiglia deriva dal suo toponimo storico latino di Albintimilium. E' un nome di origine remotissima: la sua prima parte sembra essere l'antico ligure *albom "città, capoluogo" (che si ritrova anche in Albenga, Albissola ecc.), mentre la seconda è il genitivo plurale (sempre ligure) *Intemeliom "dei liguri Intemeli"; quindi, "città capoluogo degli Intemeli". Persa ogni cognizione del vero significato del nome, la popolazione locale mantenne comunque il nome ma associandolo (fin dal latino medievale Vigintimilium e Vigintimilia) a delle non meglio precisate "venti miglia", una indicazione di distanza (ma non si sa da dove) comune nei nomi di luogo -come nei vari Quarto, Quinto, Sesto, Badia a Settimo. Un celebre condottiero inglese del XIV secolo, John Hawkwood (ca. 1320-1394), operò anche al servizio della Repubblica Fiorentina. Non si sa esattamente come lo chiamassero i fiorentini dell'epoca, ma si sa bene che Niccolò Machiavelli, insomma non l'ultimo dei bischeri, un secolo dopo gli attribuì il nome di Giovanni Acuto. Il termine "Acuto" non è qui soltanto una fiorentinizzazione dell'impronunciabile Hawkwood; "acuto" significa piuttosto "aguzzo", cioè dalla figura alta e slanciata (come, sembra, John Hawkwood fosse realmente e come si vede da un affresco di Paolo Uccello nella cattedrale di S. Maria del Fiore). Il Machiavelli riprese probabilmente anche la versione francese del nome del condottiero da fonti coeve, Jean de l'Aiguille ("Giovanni dell'Ago"); ma lo storico francese Jean Froissart (1337-1405), che fu suo contemporaneo, lo chiamava ancora e semplicemente Haccoude, francizzando brutalmente il cognome inglese che significa qualcosa come "foresta del falco". Poi la paretimologia (in questo caso assai colta) ricorse all'ago e all'acuto.

Roba di tutti i giorni, si diceva, e di tutte le epoche. Lo dico perché, in questi giorni, sta imperversando una etimologia popolare in piena regola, perdipiù veicolata tramite ogni mezzo veicolante: giornali, TV, reti sociali, bollettini meterologici (tra i quali si distingue l'immaginifico e catastrofico meteo.it, quello che crea per le ondate di freddo e di caldo nomi spettacolari come "Caronte", "Flegetonte", "Cerbero", "Acheronte", "Belzebù" ecc.) [*]. Sto parlando, ovviamente, del famoso vento sarmato-uralico (ma perlopiù definito "siberiano" perché la Siberia, inutile opporsi, "tira" sempre di più e fa regolarmente la sua porca figura [**]) che sta per irrompere sull'Italia pre-elettorale e per congelare democraticamente tutti quanti (in tasca a chi, il 4 marzo, si immaginava già i primi tepori primaverili e uccellini cinguettanti diversi dal richiamo di Whatsapp). Insomma, il burian, chi altro. Quello che porterà le "temperature siberiane" in Italia, sì, ma le temperature siberiane di metà settembre. Ora, a Yakutsk, ci sono trentotto gradi sotto zero, e rispetto ai -50° e oltre che a volte ci fanno, è quasi una bazzecola.

Il problema, però, è che il gradevole venticello in questione non si chiama "burian", ma buran, senza la "i" nel mezzo. Deriva dal russo буран, che a sua volta è ripreso dal turco  burağan  "vento fortissimo". Dal turco? Forse non si riesce facilmente a immaginarlo, ma il turco di Turchia è soltanto una delle tante e cosiddette "lingue turche", o "turciche", che si somigliano tutte, e parecchio. In Asia Centrale e in Siberia si parlano e si scrivono lingue affini al turco: l'azero, il kirghiso, il tàtaro, l'uzbeco, il ciuvascio e, beninteso, anche lo yakuto, quello di Yakutsk (che però, in yakuto si chiama sacha tyla). Insomma, cosa è successo? Sebbene il termine originario non presenti (a differenza di altri) nessuna speciale difficoltà di pronuncia e di adattamento (buran potrebbe tranquillamente essere un cognome o un toponimo veneto...), è diventato (anche per il meteo.it) il "burian". Caso, appunto, di perfetta etimologia popolare: visto che apporta tempeste di vento, freddo intenso, tormente di neve ecc. è stato, da meteorologi, giornalisti e utilizzatori dei più moderni strumenti socio-informatici, riportato alla cara, vecchia e rassicurante buriana. Ragazzi, l'è buriana!, si diceva  da pischelli quando si spaccava un vetro a pallonate, arrivava minaccioso qualcuno e si doveva battere fuga.

Non c'entra quindi la facilità o difficoltà di pronuncia (se il vento si fosse chiamato xšvodbychwudzki qualcosa sarebbe stata comunque escogitata), bensì l'immediato e naturale accostamento ad una parola italiana che: a) gli somiglia, b) indica un fenomeno atmosferico di portata "estrema". E, quindi, il "burian" e la "buriana" si son dati la mano, preparandosi comunque a surgelarci gli ovajoni [***] per circa una settimana, dicono. Evviva l'umanissima, fantasiosa e spesso divertente Volksetymologie, che non muore mai in barba al progresso tecnologico. Solo per dovere di completezza, la parola italiana buriana ha un'origine che divide ancora quei buffi e bizzarri personaggi ch sono i linguisti storici, gli etmologisti ecc. Chi la fa derivare dal latino boreas "(vento) del nord" tramite un presupposto aggettivo sostantivato *boreana (il tutto da ricondurre al greco βορρᾶς), chi allo sloveno burja (da cui, sembra, anche la bora di Trieste e del Carso), chi ribalta tutto dicendo che invece pure la bora deriva da boreas, chi ribalta ulteriormente facendo derivare la burja slovena dalla bora triestina....e intanto il vento soffia.

[*] Sentita coi miei orecchi a un bar vicino, la scorsa estate quando c'erano quaranta gradi e oltre. Era durante una delle famose "ondate di calore" a cui si danno nomi vagamente danteschi (non mi ricordo se era "Acheronte" o "Flegetonte", ma quell' -onte sembra essere molto amato dai meteocreativi). Nel bar c'era un omino, un "umarell" in piena regola, che si beveva il caffè sbuffando dal caldo e maledicendo quella cosa lì....insomma 'sto caldo maledetto, come si chiama....Rinoceronte...puff...puff.... 

[**] Come il "caldo africano". Babacar, uno dei ragazzi senegalesi che sta tutti i giorni davanti al Penny Market a vendere la sua roba, qualche estate fa mi diceva molto divertito che era tornato da poco da Dakar e che si stava benissimo, ventisei gradi e un venticello gradevole, mentre all'Isolotto c'erano trentasette gradi e si boccheggiava.

[***] Termine "portmanteau" creato da me personalmente di persona per risolvere un'annosa questione: se nomino solo i coglioni sono uno stronzo maschilista, se nomino solo le ovaie sono il maschietto che vuole fare il femminista da tastiera, e quindi propongo che il termine "ovajoni" sia immesso nell'uso. "Cogliovaie", secondo me, non farebbe altrettanta presa.



Utopia




Il giorno sale, con grande forza
batte i suoi zoccoli tra le nuvole
il lattaio sui suoi bidoni
tambureggia sonate; al cielo ascendono i fidanzati
su scale mobili; selvaggi, con grande forza
si sventolano cappelli bianchi e neri.
Le api scioperano. Tra le nuvole
ruotano i procuratori,
papi cinguettano dagli abbaini.
La commozione domina sia lo scherno
che il giubilo. Velieri
sono piegati dai bilanci.
Il Cancelliere parteggia con un vagabondo
i fondi segreti. L’amore
è consentito dalla polizia,
è promulgata un’amnistia
per coloro che dicono la verità.
I panettieri regalano rosette
ai musicanti. I fabbri
fanno delle croci
ferri per gli asini. Come in un ammutinamento
irrompe la felicità, come un leone.
Gli strozzini, su cui sono gettati
fiori di melo e ravanelli,
si pietrificano. Buttati sulla ghiaia,
abbelliscono fontane e giardini.
Ovunque ascendono mongolfiere
la flotta di piacere e’ pronta a partire;
salite, lattai,
fidanzati e vagabondi!
Scioglietevi! Con grande forza
sale
il giorno.

Hans Magnus Enzensberger
1957

lunedì 19 febbraio 2018

Tanto va lo schiavo all'urna che si sente cittadino



Anche se non si andrà a votare, è chiaro, un governo (prima o poi) lo faranno lo stesso. Più o meno. Ci avranno le loro “intese”, strette o larghe che siano, ci avranno le loro manovre, i loro fascismi o i loro “antifascismi” che, non so come, somigliano sempre di più ai peggiori fascismi (Minniti docet). Saremo travolti da possenti ondate di responsabilità; e, quindi, come si dice sempre in giro, non andare a votare è inutile. Un sessanta per cento di infilatori di schede nell'urna cineraria, ancorché bianche o nulle, si trova sempre; anzi, gli analisti dicono persino che un grosso astensionismo sia oramai “fisiologico” nelle democrazie.

E' anche più che chiaro che quell'astensionismo “fisiologico” è quanto di più variegato si possa immaginare. Ci sono i delusi, i militanti, gli indifferenti, quelli che vanno al mare (beh, quando le elezioni sono in inverno, magari un po' meno; andranno in montagna), le vecchiette, i decerebrati, e chi più ne ha, più ne metta. E' da tenere presente in modo preciso; altrimenti si rischia di fare come il PMLI, che alla fine di ogni tornata elettorale festeggia la propria grande vittoria. Il 40% al PMLI che ha detto di non andare a votare!

Per chi sostiene le ragioni di un astensionismo militante o, comunque, cosciente e motivato politicamente, a dire il vero la vita è abbastanza grama. In realtà, molto astensionismo (tocca qui citare “La democrazia in America” di Tocqueville...) deriva dal bisogno e dal desiderio del “cittadino” di essere estromesso in modo coatto dalla vita pubblica, in modo da avere una tranquillità privata che lo liberi da qualunque peso psicologico. In pratica, la rinuncia alla condizione di cittadino attivo.

Si potrebbe dire: d'accordo, ma questo ai tempi di Tocqueville (1805-1859). In realtà, adesso sono le stesse democrazie che estromettono totalmente e di per sé dalla vita pubblica e attiva. Oggigiorno lo stanno facendo in un modo persino più smaccato e, si potrebbe dire, totalitario delle dittature classiche, novecentesche. Il totalitarismo capitalista non ha più bisogno degli “uomini forti”, che ricordano tra l'altro le ideologie che sono state dichiarate defunte e sostituite con una zuppa di telefonini, pallone, “futuro”, eccellenze, terrorismi telecomandati, securitarismo, decoro, famiglia, macellerie sociali, ammòre e quant'altro. Il totalitarismo capitalista ha bisogno che tu, caro “cittadino”, te ne stia buono buono e che tu lasci fare a loro. La tua funzione, “cittadino”, non è più quella di partecipare (se mai sia esistita realmente): è quella di essere sondato, quella di essere un produttore di umori che, peraltro, ti hanno instillato artificialmente. Un fabbricante di paure varie e di “tendenze” che vengono poi raccolte e trasformate in politicàcchia, affari, corruzioni, mafie, manganelli.

Ogni tanto ti chiamano quindi a “votare”, le “destre”, le “sinistre”, i “centri” che si formano, si riformano, si sciolgono e si alleano senza che questo significhi alcunché. Dire questo non è qualunquismo: è, o quantomeno dovrebbe essere, una semplice presa di coscienza della realtà dei fatti. Il totalitarismo capitalista necessita del tuo “voto”, della tua delega, della tua rappresentanza; così, “cittadino”, tu potrai startene tranquillo e indisturbato nella tua famigliuola, nel tuo buchetto, nel tuo ufficio, nella tua fabbrica e nel tuo nulla. Ci penseranno loro a esaudire i tuoi desideri, l'immigrato cacciato via o sparato dal neanderthaliano di Macerata, le telecamere, l'esercito per le strade, la tua indignazione, il tuo lavoretto, la tua disoccupazioncina, e magari pure il tuo sentirti intimamente “contro” perché il totalitarismo capitalista prevede pure questo. Fornisce anche una certa dose, un certo quantitativo di “opposizione”. Basta che tu non faccia troppa confusione e che rispetti le regole, la “legalità”. Altrimenti, ti aspettano lo stigma e la sociopatia.

Non si vada troppo oltre, però. Come detto, caro “cittadino”, magari sei già tra quelli che non andranno a votare. Mettiamo in conto anche un po' di fatica: e che noia dovere andare al seggio, perdere mezz'ora, il rituale della matita copiativa, il presidente che ti dice “cabina n° 1”. Come vedi, caro “cittadino”, le tue ragioni sono comprese con onestà e cognizione; e anche se non sono così militanti o così motivate da precisi ragionamenti, sono pur sempre ragioni non disprezzabili. E magari sarai festeggiato anche tu dal PMLI che ha tanto caro uno che di certo non amava le elezioni, tale Heng Samrin (più noto come Pol Pot).

Una piccola parentesi sull'Anarchia. C'era una volta uno che diceva che gli anarchici non saranno l'uno per cento, ma esistono. Ora come ora sarebbe grassa se gli anarchici fossero lo zero virgola uno. Gli anarchici sono pochi e non contano niente, nonostante la strabiliante quantità di libri che ancora producono. Nonostante questo, non hanno cessato di essere divisi, litigiosi, non esiste praticamente anarchico che non ne odi almeno un altro, e non esiste anarchico che non si senta intimamente più anarchico degli altri. Gli anarchici sembrano essere d'accordo su poche cose: una di queste è non andare a votare per precisa scelta, ed invitare a non andarci. L'astensionismo, insomma. Uno di loro che suonava e cantava (si chiamava Léo Ferré, l'unico anarchico del Principato di Monaco; per inciso è anche quello che diceva che gli anarchici non saranno l'uno per cento), disse una volta che l'Anarchia era la formulazione politica della disperazione. Un'altra volta ancora scrisse una canzone, intitolata Ils ont voté (“Hanno votato”), un feroce manifesto dell'astensionismo. Vattela pure a vedere, “cittadino”, è stata tradotta anche in italiano e poiché avrai tutti i tuoi google, i tuoi facebook e i tuoi smartphone ti sarà facilissimo con due click.

Vita grama, vita sempre più sotterranea, vita comunque da “governati”, vita da illusi, da sognatori, da utopisti. E vita da astensionisti. Vita da chi non ha rinunciato a dire, o a provare a dire, che con il tuo “voto”, che ti gabellano come “espressione di libertà”, in realtà non fai altro che stringerti ancora un po' di più le catene della tua schiavitù e del tuo asservimento al sistema totalitario travestito (ma travestito sempre peggio, da guitto di terz'ordine) da “democrazia”. Bella fine, la tua “cittadinanza”, dover scegliere tra Renzi, Salvini e Di Maio, senza contare i condimenti (un pizzico di casapound, una spruzzatina di liberi e uguali, una spolverata di podere al pollo...)!

Prova a chiudere gli occhi per un attimo, caro “cittadino”, e a tornare ad esercitare per un minuto la nobile e feconda arte dell'utopia. Che, peraltro, è già stata scritta: ci ha pensato uno scrittore portoghese, José Saramago, che in un suo Saggio sulla Lucidità (Ensaio sobre a Lucidez) immaginava una grande città nella quale, il giorno delle importantissime elezioni generali, nessuno va a votare. Astensionismo al 100%. Prova a immaginarlo, tu che ti lamenti di “non arrivare alla fine del mese”, tu che insorgi contro il sacchettino del supermercato a 1 centesimo e poi vai a comprarti un telefono da 1300 euro, tu che non sei razzista però, tu che vuoi più “sicurezza”, tu che trovi tanta realizzazione nella famiglia e nel lavoro, tu che lotti per il futuro e magari muori domani e non lo sai.

Non ci andare, a “votare”. Non è che “votare” non serva a nulla: tu non voti un bel niente. Non scegli niente e nessuno; hanno già scelto per te. Sei grande, come minimo hai compiuto 18 anni ed è ora che tu te ne renda conto. La parola scegliere ha un altro significato, ben più profondo. Tra le altre cose, per derivazione popolare, ha la stessa origine etimologica di “eleggere”: ex-legere. E allora, scegli, eleggi di non starci più. Sempre, naturalmente, che tu lo voglia: il piacere sottile di essere schiavo, è tragicamente vero, non ha prezzo.