martedì 26 settembre 2017

La parola Servo



La parola italiana servo (e le corrispondenti nelle altre lingue neolatine) deriva dal latino seruus (in una fase anteriore *seruos; le grafie presuppongono una pronuncia *serwus, *serwos, in cui la “w” ha esattamente il valore semivocalico che ha attualmente in inglese). Quanto all'origine della parola latina, certamente indoeuropea, le opinioni sono un po' divergenti; le due principali riportano la prima ad una connessione con il greco (già Omerico) σειρά [seirá] corda, fune” -a sua volta connesso, nella generale “evanescenza” della s- iniziale in greco, con il verbo ερω [éirō] legare, collegare”- e con il latino sero “collegare, connettere”. Il servo sarebbe quindi “colui che è legato”, sia fisicamente sia socialmente, ad un padrone. Uno schiavo, insomma: infatti, è questo il significato che seruus ha in latino (cfr. l'italiano “servaggio” ecc.). Ipotesi senz'altro molto logica; senonché è stata considerata da molti fin troppo logica, e confutata (probabilmente a ragione) con un'altra, che vuole seruus collegato alla radice indoeuropea *swer- / *swor- / *swr- che è quella del “vedere”, dell' “osservare”, del “fare la guardia”, del “sorvegliare”. E, in effetti, a tale radice viene connesso precisamente il verbo latino servāre “custodire, conservare, sorvegliare”, nonché il greco ὁράω [horáō] (da *swor-a-ō) “io vedo”. Il servo sarebbe quindi in origine semplicemente un “custode”, una “guardia”: una delle funzioni storiche principali del servo, quella di far da guardia al padrone (beninteso, anche la parola guardia, che è di origine germanica -ingl. ward, warden, ted. warten “aspettare, attendere”-, è da alcuni connessa alla radice indoeuropea di cui sopra) e, soprattutto, in ambito latino (la parola è ovviamente antichissima), al suo bestiame. Un guardiano di vacche e di porci, insomma; quantomeno curioso (o forse no) che dalla medesima radice indoeuropea e al medesimo grado apofonico *swer- derivi anche il greco ρως [hērōs] (da *swer-wo-s), in origine “protettore”. In Omero il termine significa ancora soltanto “protettore del popolo”, “uomo abile al combattimento” (si direbbe ora: “abile e arruolato”...); il significato odierno di “eroe” è molto successivo.

Nell'antico mondo latino, il passaggio di seruus al significato di “schiavo” fu, come dire, naturale e assai rapido. Serui erano infatti i nemici fatti prigionieri, ridotti in schiavitù, “conservati” come merce (ancora la medesima radice...) e venduti al miglior offerente. Così antico e così moderno, insomma. I serui, cioè gli schiavi, venivano messi a fare i guardiani dei porci e delle terre, a loro volta bestiame da lavoro (latino labor “vacillo sotto un peso gravoso”). Un'evoluzione si ha quando il seruus viene “promosso”, in certi casi, al ruolo di schiavo domestico, ma comunque di bassa lega, lo sguattero o il lavacessi per intendersi. Lo schiavo di ruolo “superiore”, il servitore di casa, era detto fāmulus, dalla fondamentale radice indoeuropea del “dire”, *fā- / *fē- (quella del latino fōr “dico”, in-fā-ns “infante, colui che non parla ancora”, e del greco φημί [fēmí] “io dico”). Il fāmulus, insomma, era uno schiavo ma aveva il diritto di “dire qualcosa”, di aprire bocca, venendo quindi promosso al rango di essere umano, seppure di serie C. Dalla medesima radice deriva, naturalmente, anche il termine fāmĭlia “famiglia”, in origine il “complesso della servitù” sottomesso rigidamente al patriarca, e comprendente sia i familiari in senso stretto sia la servitù. Tutta una famiglia, insomma; non a caso, nell'italiano arcaico, il domestico di casa veniva detto famiglio.

Tornando alla parola servo, la sua evoluzione naturale nel tempo non ne intacca mai il senso di “guardiano” ridotto in varie forme di schiavitù. L'esempio più ovvio è quello dei servi della gleba medievali (gleba = terra, connesso con globus “zolla di terra, palla di terriccio”). I servi della gleba, come è noto, erano “legati alla terra” e non potevano disporre né delle loro persone, né dei loro beni: erano una pura e semplice proprietà addetta al lavoro agricolo. E' comunque abbastanza curioso e indicativo che, da calcoli documentali storici, è risultato che un servo della gleba medievale aveva comunque molto più tempo libero dal lavoro di quanto non ne abbia un operaio o un agricoltore dei tempi d'oggi: miracoli della società industriale.

Ad un certo punto, però, la pura e semplice schiavitù, la presa di possesso (in razzie e guerre) e l'asservimento totale della persona da sfruttare come animale da lavoro, cambia parola. Restando il servo nelle sue prerogative, ma con una sorta di “promozione” umana e -a volte- con una retribuzione (il rapporto dipendente-padrone), lo “schiavo” viene così denominato quando, già nella Germania del X – XI secolo, si cominciano ad assoggettare interi popoli di origine slava, che vengono appunto ridotti in schiavitù. In pratica, lo “slavo” diventa lo schiavo per antonomasia, un Untermensch da mettere a sgobbare e basta. La parola “slavo”, come etnonimo, è intesa in tutt'altro modo dai nazionalisti slavi, che la connettono con slava “gloria”. Più probabilmente, però, la connessione è con il termine panslavo slovo “parola”: in pratica, nella concezione degli slavi, essi stessi erano “coloro che parlavano”, mentre il termine di “non parlante, muto”, nemec, era riservato a chi parlava una lingua a loro incomprensibile, ovverossia i tedeschi (nemec significa “tedesco” in tutte le lingue slave). E così gli slavi erano gli schiavi per i tedeschi, e i tedeschi erano i muti per gli slavi. Si tratta, in pratica, della riproposizione del classico βάρβαρος: i "barbari" erano i "balbuzienti", coloro che non si capivano quando parlavano, in una lingua, appunto, barbarica.

Verso il XIII secolo la denominazione di slavus arriva nell'Europa meridionale, con l'immissione di una “c” (sclavus) per ragioni di probabile eufonia (come la “d” che i fiorentini mettono in “Isdraele” per dire “Israele”): il termine passa nel mediolatino e anche nel greco bizantino e poi moderno σκλαβός [sklavós]. Lo “slavo” diventa quindi, nella visione medievale, il “popolo assoggettato”, la massa informe degli schiavi; e la terminologia non di rado si confonde e si intreccia. Così, ancora nella forma originaria schiavo o schiavone può significare ancora “slavo”, come testimonia la Riva degli Schiavoni di Venezia (= “Riva degli Slavi”) oppure il famoso Vocabolario italiano e schiavo di fra' Gregorio Alasia da Sommariva, il primo dizionario (XVII secolo) italiano-sloveno.

Di converso, almeno un popolo slavo, pare “impadronirsi” (per modo di dire) dell'antico seruus: i serbi. Da una parte gli “slavi” sono gli “schiavi” nel mondo occidentale, mentre ai serbi viene riservata la parola latina col medesimo significato (serbo srb -sic-, bulgaro sărb ecc; la parola passa anche nel romeno sârb). E ricominciano gli intrecci e le confusioni: in Italia, nei tempi passati, era tranquillamente in uso il termine di Servia per la Serbia, e i serbi venivano detti servi. Va detto però che il termine autoctono ha una diversa e più antica origine, prediletta logicamente dai serbi e dagli slavi in genere: sarebbe quella che fa risalire la denominazione esattamente al termine per “protettore della nazione, eroe”, *swerwos, che abbiamo già visto per il greco ρως. Sulla quasi omofonia, o comunque decisa somiglianza, viene innestata la denominazione di "servi". Sarebbe d'altronde assai poco probabile che un popolo intero, e perdipiù fieramente bellicoso, avesse accettato per se stesso una denominazione tanto infamante. Si tratta comunque di un intreccio inestricabile, sin dalle origini, tra schiavi, eroi e guardiani di porci. Da sottolineare il fatto che, nell'inglese moderno, fino a tutto il XVIII secolo non si è mai distinto tra “schiavi” e “slavi”: tutti e due slaves. La differenziazione (slave “schiavo”, Slav “slavo”) è recente ma ha toccato la pronuncia, [sleiv] per “schiavo” e [sla:v] per “slavo”.

Un'ultima e necessaria annotazione riguarda la denominazione dello “schiavo liberato”: il ben noto libērtus dell'antica Roma, insomma. L'etimologia, rimandando magari a chissà quando per la parola “libero”, è chiara. La resa di una nominale libertà personale allo schiavo da parte del padrone veniva sancita con un ceffone: l'emancipatio, ovvero la “liberazione dalle botte” con l'ultimo schiaffo. In realtà, generalmente il liberto non si allontanava dal padrone, restandogli legato fino alla morte e a volte raggiungendo posizioni di rilievo, specie se era dotato di cultura. Restava comunque un servo del padrone, ed è una connotazione del tutto moderna, pensando a quanti, anche oggi (giornalisti, politicanti ecc.), pur essendo dei perfettissimi servi, si autodefiniscono invariabilmente “liberi”, “liberali”, “libertari” (è il caso ad esempio di Vittorio Feltri). C'è pure un giornale intero che si chiama “Libero”, peraltro da parecchi chiamato “Schiavo”; vi scrive, tra gli altri, un guardiano di porci che si faceva chiamare anche “Agente Betulla”. Ma viene in mente anche quanto si definivano (e venivano definiti) “liberi” gli Indro Montanelli e compagnia bella.