lunedì 26 dicembre 2016

Alessia, Centoquattordici.

Questa cosa qui, che mi accingo a scrivere, non parlerà di nulla.

Non parlerà di Aleppo, degli ambasciatori russi o degli insediamenti sionisti. E non parlerà nemmeno di vicende del mio quartiere, di impressioni dicembrine o di buffe cose viste sugli autobus.

Non parlerà di storie, vere o di fantasia. Non parlerà nemmeno di squallide vicende avvenute in centri sociali a Parma, in mezzo a presupposti antifascisti che filmano i loro stupri fascistissimi.

Come ho detto, non si parlerà di nulla. Il nulla è rappresentato da una ragazza chiamata Alessia, una delle tante.

Alessia sta passando, in queste ore, fugacemente da qualche giornale, da qualche sito. La si vede in una foto mentre sta baciando la sua bambina di quattro anni. Entrambe, la madre e la figlia, hanno sulla testa delle passate rosse, con cuoricini e babbo natale; Alessia, la madre, è, naturalmente, morta.

Alessia è, mi sembra, la centoquattordicesima donna ammazzata nel 2016, in Italia, dal cosiddetto partner: marito, fidanzato, amante. Oppure da un familiare. Oppure da un uomo; fa nulla, come il nulla.

Qualche tempo fa imperversava il “fare qualcosa per fermare”. E' nata pure una nuova parola che sembra essersi consolidata nel lessico italiano: femminicidio. Imperversavano, ovviamente, anche le discussioni: tutte e tutti volevano, appunto, fare qualcosa.

A suo tempo mi ci ero dedicato pure io. Dicevo sempre che tutto questo ha a che fare sia con le strutture sociali e relazionali, sia con il senso del possesso che trasforma, invariabilmente, una persona in cosa, in oggetto.

Strutture la cui modifica comporterebbe una presa di coscienza, personale e collettiva, che andrebbe a minare nel profondo alcuni capisaldi inalterabili. Come, ad esempio, la cosiddetta famiglia; ma non soltanto quella, chiaramente. Questo dicevo; poi ho praticamente smesso.

Il femminicidio si è consolidato; consolidandosi, è automaticamente tornato ad essere una cosa banale, quotidiana, che “fa notizia” solamente per la cronaca. E' tornato ad essere allegramente raptus, “delitto passionale”, resoconto più o meno commovente, pura “storia” il cui uso e consumo dura due, tre giorni al massimo.

Chiaramente, nessuno ne parla più, al pari mio. Andare a toccare strutture sociali e relazionali, sistemi interi e capisaldi di una società intera non va di moda, e non è mai andato.

E', esattamente, come toccare un altro pilastro, vale a dire il lavoro. Di “nemici del lavoro”, in questi anni, ne ho incontrati non pochi; però nessuno, io compreso, che non “lavorasse” e che non percepisse emolumenti più o meno regolari per il suo rendersi in varia misura schiavo.

Posso anche restare convinto di tutto quanto sopra. Posso anche restarlo, ed è il nulla. Non ho nessun mezzo efficace per non gettarmi nella solita lotta solitaria contro i mulini a vento. Sono uno che non sta scrivendo nulla, mentre termina l'ennesimo “natale”. E, intanto, anche Alessia è morta ammazzata, le trenta coltellate di prammatica, il raptus del suo compagno, l'oggetto quotidiano che si trasforma in perfetta macchina di morte (tratto da un cassetto della cucina), la villetta, il paesino, la bambina, la foto presa da Facebook, tutto.

Violenza, genere, “gelosia”, possesso. Violenza, famiglia, centoquattordici, possesso. E posso anche restare convinto, anzi molto convinto, di non stare scrivendo niente di niente; però sono tutte parole che mi vengono e mi ritornano in mente.

In questo anno 2016, tra le centoquattordici donne ammazzate dal partner, o ex partner, o chiunque, ce n'è stata anche una a duecento metri da casa mia. Una sera di metà maggio; l'ultimo incontro, il chiarimento tra due persone, un uomo e una donna, stati marito e moglie, stati “famiglia”, stati chissà cosa. Dentro una macchina, a duecento metri da casa mia, mentre non mi ricordo che cosa stavo facendo. Dormendo, scrivendo, fumando, guardando la televisione, qualsiasi cosa. Lei se n'era andata, perché esiste la libertà di andarsene. Aveva un altro compagno, perché esiste la libertà di innamorarsi, di perdere l'amore, di trovarne uno nuovo. Esiste anche la libertà di non trovare più nessun “amore”. Esiste la libertà, che è l'esatto opposto del possesso. Quaranta coltellate, date da lui a lei in quella macchina. Poi lui si è pure ammazzato, accoltellandosi da solo.

Qualche giorno dopo, nel quartiere, c'è stata una fiaccolata. Un piccolo corteo partito dall'abitazione di quell'essere umano di sesso femminile, e terminato al luogo dove quell'essere umano è stato fatto a pezzi dall' “amore”, dalla gelosia, dal possesso e da un sistema mentale e sociale.

Portava, quella giovane donna, lo stesso cognome di una persona di cui, tanti anni prima, ero stato brevemente ma follemente innamorato. Tutto è stato scordato, e non si può nemmeno pretendere che non avvenga.

E così, in questo scrivere e riscrivere del nulla, due giorni prima di “natale” è toccato a Alessia.

La cosa curiosa è che, da quel paesino, sono quasi convinto di esserci passato una volta. Ha un nome assai curioso. Sì, mi sembra proprio di esserci stato, una volta, nonostante sia lontanissimo da casa mia. La lontananza e i duecento metri.

Si dovrebbe, a questo punto, disquisire delle modalità, che poi sono, ovviamente, quelle che si leggono sui giornali e sui siti. Ma le modalità sono sempre quelle: tu mi appartieni. Tu non puoi “lasciarmi”. Noi siamo una famiglia.

Ecco, è questa -casomai importasse a qualcuno, e non ne sono per nulla certo- la cosa di cui non mi stancherò mai di essere contro. La famiglia. Io vado a toccare, nulla per nulla che sia, il nocciolo, l'atomo della materia. Vado a toccare l'elettrone del possesso sociale ed economico. Continuo a ritenerlo l'unico modo per fare qualcosa per davvero. Se si vuole rivoltare sul serio, non si attaccano le macrostrutture che sono effetti; si attaccano le strutture fondamentali, costitutive.

Già; ma come “attaccarle”. Con un “post” su un “blog”, per caso? Fosse poi un “blog” di quelli “top”; non mi occupo di moda, di fashion. Sono antifashista.

E posso anche esprimere il ribrezzo che mi fanno vicende come quella di Parma; posso anche esprimere solidarietà alla ragazza che è stata stuprata dai “compagni”, una parola che sarebbe meglio cassare definitivamente dal vocabolario in quanto anch'essa oggetto di ripetuto stupro. Posso anche, ma al tempo stesso non me ne stupisco. Frequentando certi luoghi, non mi è accaduto di rado di sentirli auto-definirsi cose come una “grande famiglia”, tutti per uno e uno per tutti, si va e si torna tutti assieme (magari fermandosi cinque minuti a violentare una tizia). E così, rieccolo il possesso. In posti, peraltro, strapieni di famiglie e famigliuole, di “amori”, di sessi e possessi, di storie e controstorie, di strutture umane lievitate e imposte come da qualsiasi altra parte.

Ed è quindi così che anche Alessia, centoquattordicesima del 2016, è morta. E sta già scomparendo dalle sue quarantott'ore di medio-bassa notorietà. Le famiglie oggi avranno festeggiato, comprese quelle dove si sta preparando una strage, dove qualcuno tirerà fuori dal cassetto, nel 2017, lo stesso coltello con cui era stato affettato, oggi, l'arrosto tanto buono o il panettone.

Nel 2017? Alt. Alla fine del 2016 mancano ancora sei giorni. Secondo le statistiche, domani dovrebbe toccare a un'altra ragazza, a un'altra donna. Toccherà a un altro oggetto posseduto e inalienabile. C'è ancora il 29 dicembre per la numero centosedici; poi si passerà al 2017.

Intanto, poiché ho parlato del nulla, mi arrotolo una sigaretta col tabacco “Pueblo”. Ultimamente sono passato ai drummini, come si dice quaggiù. Sul pacchetto del tabacco c'è l'immagine di una mamma fumatrice e snaturata, che tira una boccata di fumo in faccia a un bambino, biondo e decisamente brutto.