lunedì 24 novembre 2014

Dietro ogni giudice c'è un potere


Vorrei proprio non avere mezzi termini. Un giudice non è soltanto tra le canzoni più famose di Fabrizio De André, diciamo nella top ten; non è soltanto tra le più belle del genovese e dell'intera canzone d'autore in lingua italiana, ma, a mio parere, tra le maggiori dell'intera canzone d'autore mondiale. E' una breve canzone, bella quanto terribile, che obbliga a diversi piani di lettura e, soprattutto, ad una riflessione sui meccanismi della “giustizia” e della sua amministrazione terrena da parte di persone. Un po' troppe volte ragioniamo sulla “giustizia” come qualcosa di assoluto e di astratto; in questo ci si sono messi anche quegli emeriti tromboni che vanno sotto il nome di “filosofi del diritto”.

Vorrei aggiungere che la resa testuale musicale di De André, Bentivoglio e Piovani è, sempre a mio parere, assai più bella della poesia “originale” di Edgar Lee Masters, Judge Selah Lively. Ognuno si potrà del resto formare un giudizio autonomo, considerando che i brani dell'Antologia di Spoon River utilizzati da De André per Non all'amore, non al denaro né al cielo sono, chiaramente, delle riscritture e dei testi autonomi a pieno titolo. Sulla falsariga della poesia mastersiana è stato scritto questo capolavoro; ma queste sono cose note più o meno a tutti.

E' probabile, come del resto specificato dallo stesso De André (uno che, però, non sempre è da prendere alla lettera, come tutti gli autori quando parlano delle loro composizioni), che Un giudice faccia parte del leit-motiv dell'album, vale a dire un'indagine psicologica sui vizi e sulle virtù delle persone, e sul loro inestricabile intreccio in ognuno di noi. Il compito dei morti di Spoon River è del resto esattamente questo: uno spaccato della società americana analizzato attraverso le comuni vite degli abitanti di un paesino dell'America profonda, declinate attraverso le tombe di un cimitero. Nell'intervista a Fernanda Pivano riportata sul libretto dell'album, Fabrizio De André ebbe a dichiarare testualmente: «Avrò avuto diciott'anni quando ho letto Spoon River. Mi era piaciuto, forse perché in quei personaggi trovavo qualcosa di me. Nel disco si parla di vizi e virtù: è chiaro che la virtù mi interessa di meno, perché non va migliorata. Invece il vizio lo si può migliorare: solo così un discorso può essere produttivo.» D'accordo. Ma i diversi livelli di una canzone (figuriamoci addirittura di un concept album intero di questa levatura) sfuggono sempre anche alla lettura proposta dal suo stesso autore; così, soprattutto, per questa canzone.

Un giudice è senz'altro la personale storia di un nano che studia giurisprudenza e diventa giudice vendicandosi così della sua infelicità attraverso il potere di giudicare e condannare (giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male), incutendo timore a coloro che prima lo deridevano; inginocchiandosi però nel momento dell'addio, non conoscendo affatto la statura di Dio. Come in Un matto la vicenda è incentrata sul tema dell'invidia, che diventa ancora una volta il motore dell'agire del personaggio; in questa canzone De André mostra come l'opinione che gli altri hanno su di noi ci crei disagio e sconforto. Il giudice diventa una carogna, per il semplice fatto che gli altri sono sempre stati carogne con lui, e che trova nella vendetta l'unica cura possibile.

Se questo è il piano psicologico della canzone, ne consegue che viene letteralmente fatto a pezzi lo stereotipo del giudice come incarnazione stessa dell' “equilibrio”, un equilibrio che -non scordiamolo- dovrebbe essere applicato, sulla base della “legge”, per giudicare altre persone ed i loro atti dichiarati non conformi all'umana convivenza. In poche parole, nella figura del Giudice di De André e Lee Masters viene messa in totale discussione la stessa “giustizia”. In quanto amministrata da uomini, tutti con le loro vicende, essa semplicemente non può esistere. La canzone si conclude infatti con sentenze di morte: il condannato, quindi, non paga tanto per i suoi atti, quanto per il desiderio di vendetta di un infelice invidioso e bersagliato dalle maldicenze e dalle derisioni. E' una cosa pienamente umana; disumana passa ad essere la “giustizia” che non ha nessuna possibilità di sfuggire a tutto questo.

Quando poi la “giustizia” viene abbinata, come è giocoforza che accada, al potere ed alle sue esigenze totalizzanti, le singole vicende di chi giudica si trasfigurano nell'obbedienza e nell'immanenza ad un disegno più vasto. Parlare di “giustizia imparziale” è quindi soltanto una chimera, una menzogna che si ammannisce sapendo di mentire. Leggi, codici, tribunali: di esempi non ne mancano certo nella storia. Sarebbe interessante, ad esempio, conoscere nel dettaglio la vicenda umana di un giudice come Roland Freisler. Ma anche senza andare al giudice nazista del Volksgerichtshof e di tutti gli altri che, in ogni paese, hanno servito il potere nei tribunali speciali, si possono trovare decine di esempi di tutto ciò anche nei giudici ordinari, nel cosiddetto “giudice naturale” da cui nessuno può “essere distolto” nel testo della Costituzione della Repubblica Italiana.

Chi si trova, per qualsiasi motivo, ad essere giudicato in un tribunale, dovrebbe tenerlo sempre presente. La sua vita, in forme che vanno dalle più lievi a quelle estreme (come la stessa morte), non è delegata a nessun “concetto”, a nessuna idea astratta, ma ad una persona che è sempre quel che la sua vita la ha fatta divenire. Può trovarsi di fronte ad una persona degnissima, perché è chiaro che vi sono persone assolutamente perbene anche tra i giudici, come di fronte ad una carogna come il giudice Selah Lively (cognome che significa, ironicamente, “vivace”); il problema non è questo. Il problema è che si trova davanti ad uno Stato che si arroga il diritto di giudicare le vite altrui, demandando generalmente tale diritto a persone. La cosiddetta “imparzialità” viene quindi ridotta ad una semplice questione di fortuna, una vera e propria roulette russa. I cosiddetti “errori giudiziari”, al di là delle circostanze che possono produrli, sono anche e soprattutto il frutto di tale menzogna di base, così come lo è tutto il “diritto” in blocco. Una menzogna per molti necessaria, ma la cui vera natura non dovrebbe mai essere persa di vista. Naturalmente non è affatto un caso che una canzone come questa, che è una bomba a orologeria, sia stata concepita da un anarchico come Fabrizio De André.


La cosa può, naturalmente, essere estesa anche al di là dei giudici. Prendiamo ad esempio la persona raffigurata nella foto sopra: un importante uomo politico italiano ed ex ministro della Repubblica, per il quale parecchi hanno pensato -non senza fondamento- che la canzone di De André sia stata come scritta per lui in anticipo, quasi una profezia. Le prime due strofe sembrano il suo ritratto perfetto; la sua “carriera”, naturalmente, non è stata poi quella di magistrato, ma ha comunque avuto a che fare con il potere e con l'incidenza sulla vita di altre persone. L'on. Renato Brunetta ha, peraltro, mostrato in più occasioni di essere una persona rancorosa e capace di affermazioni da molti ritenute spregevoli; così come, per attaccarlo, non di rado anche personaggi pubblici di rilevanza (come Dario Fo) si sono serviti del suo aspetto fisico e, soprattutto, della sua statura. Il caso è quindi altamente emblematico e riporta tutto alla realtà: il “caso” descritto da Fabrizio De André e Edgar Lee Masters è assolutamente autentico. Da una parte la derisione generalizzata e l'accanimento, e dall'altra il conseguente incarognimento e l'ancor più conseguente vendetta. Quando tutto questo si coniuga con la possibilità di amministrare entità e decisioni che interessano la comunità (giudizio penale o amministrazione della cosa pubblica che siano), si può toccare con mano il “baco” immortale che rode l'umano consesso.

Ed è questo che rende grandissima questa piccola canzone due versi dei quali, Fino a dire che un nano è una carogna di sicuro / perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo sono letteralmente passati in proverbio. Non è un caso che lo stesso Silvio Berlusconi venga definito dai suoi detrattori “il Nano” per antonomasia; e ce n'è per tutti. C'è il nano, c'è l'obeso, c'è lo storpio (“Dio lo ha punito”, “segnato da Dio”...), c'è persino quello altissimo come me (“lungo lungo e bischero bischero”, si dice a Firenze). Naturalmente tutto è sempre stato deciso da “Dio”, giudice supremo. Si torna sempre allo stesso punto. Dietro ogni giudice c'è un potere. Non si conosce affatto la statura di Dio: e se anche lui non fosse altro che un nano rancoroso, e se affidarci all'inferno si rivelasse un "piacere del tutto suo"...?