giovedì 2 maggio 2013

Evviva il due maggio



Dovid Edelshtot, o David Edelstadt in grafia tedesca, era stato un ragazzino precoce.

Era nato a Kaluga, nell'attuale Bielorussia, nel 1866. A dodici anni aveva pubblicato il suo primo libro di poesie, scritte in quella che era la lingua materna sua e di tutti gli ebrei dell'Europa orientale: lo yiddish. Nascere nell'Impero Russo, a quei tempi, era un problema non di poco conto; problema che fece di David Edelstadt non soltanto un poeta, ma anche un incazzato assai precoce. Non poteva essere altrimenti, quando, da bambino, ti vedevi rapire il padre dallo Stato, che te lo prendeva per una ferma militare che, nei casi in cui il "richiamato" fosse stato inviso al regime (e tutti gli ebrei erano invisi al regime) poteva durare fino a 25 anni. Qualcosa di peggio di una deportazione a vita, in pratica.

Il 13 marzo 1881, quando David aveva quindici anni, lo zar Alessandro II fu eliminato dai rivoluzionari di Narodnaja Vol'ja ("Volontà del popolo"), l'organizzazione guidata da Sof'ja Perovskaja. Mentre tornava da una scuola di equitazione a San Pietroburgo, la sua carrozza fu centrata da una bomba lanciata da un altro membro dell'organizzazione, Nikolaj Rysakov; bomba che, però, lasciò illeso lo zar. Sceso dalla carrozza per controllare i danni e interrogare l'attentatore, che era stato immediatamente arrestato dai Cosacchi, lo zar fu preso in pieno da una seconda bomba, lanciata da Ignatij Grinevickij. Tutti e due, lo zar e l'attentatore, furono fatti a pezzi. A seguito delle confessioni di Rysakov, tutti i membri della Narodnaja Vol'ja furono arrestati e messi a morte il 15 aprile 1881.

Nessuno degli attentatori e dei membri della Narodnaja Vol'ja erano ebrei; ma, naturalmente, la colpa di tutto fu subito degli ebrei. Già l'8 maggio 1881, venti giorni dopo l'esecuzione degli attentatori allo zar, fu scatenato un terribile pogrom a Kiev; un pretesto o l'altro per far fuori i "perfidi giudei" lo si trovava comunque. Fu così che David Edelstadt prese poche cose e emigrò in America, insieme a circa altri cinque milioni di sudditi dell'Impero Russo. Poco dopo il suo arrivo a Ellis Island, David Edelstadt aderì al movimento anarchico, del quale divenne un esponente in vista.

A soli diciotto anni lo ritroviamo redattore capo della principale rivista anarchica degli esuli ebrei russi, redatta in lingua yiddish: la Fraye Arbayter Shtime ("Libera voce dei Lavoratori"). Sulla rivista pubblicava sia articoli, che poesie. Una di queste contiene una definizione dell'Anarchia che è rimasta, giustamente, famosa:

Un mondo dove nessuno deve governare
sulla fatica e sul dolore degli altri;
ogni cuore, ogni mente saranno liberi,
e questa è l'Anarchia.

Un mondo dove la libertà porterà fortuna a tutti,
ai deboli, ai forti, all'uomo e alla donna;
dove ciò che è mio e ciò che è tuo non opprimeranno nessuno;
e questa è l'Anarchia.

Ancora più in vista nel movimento anarchico divenne David Edelstadt dopo i fatti di Haymarket del 1886, e dopo l'esecuzione dei martiri di Chicago; la repressione della "democratica" America nei confronti degli anarchici assumeva connotati del tutto uguali, se non peggiori, a quella zarista cui Edelstadt aveva voluto sfuggire. Anche Edelstadt fu messo a morte, sebbene senza nessuna sentenza di un tribunale. Fu messo a morte con la fame e col lavoro forzato. Senza potersi più procurare da vivere, fu costretto ad andare a lavorare per un salario di pochi centesimi al giorno nei cosiddetti Sweatshops, i "laboratori del sudore". Erano piccole fabbriche dove la manodopera -specialmente immigrata- veniva sfruttata e sottopagata; in pratica quella che oggi si chiamerebbe la "piccola industria". David Edelstadt morì nel 1892, di turbercolosi, a soli ventisei anni.

Ventisei anni di merda.

Ventisei anni durante il quale ebbe modo di scrivere, ad esempio, quello che segue. Divenne una canzone, musicata sull'aria di una canzone rivoluzionaria russa di G. A. Machtet, Torturati a morte e in prigionia, scritta a sua volta per gli studenti massacrati nei moti rivoluzionari del 1870. La poesia, o canzone, si chiama In kamf, "Nella lotta". Questa è la canzone per il due maggio, e per tutti gli altri giorni.


מיר ווערן געהאַסט און געטריבן,
מיר ווערן געפּלאָגט און פֿאַרפֿאָלגט.
און אַלץ נאָר דערפֿאַר ווײַל מיר ליבן
דאָס אָרעמע שמאַכטנדע פֿאָלק.

מיר ווערן דערשאָסן, געהאַנגען,
מען רױב אונדז דאָס לעבן און רעכט;
דערפֿאַר ווײַל מיר אמת פֿאַרלאַנגען
און פֿרײַהײט פֿאַר אָרעמע קנעכט!

אָבער אונדז וועט ניט דערשרעקן,
געפֿענקעניש און טיראַנײַ,
מיר מוזן די מענטשהײַט דערוועקן
און מאַכן זי גליקלעך און פֿרײַ.
 
שמידט אונדז אין אײַזערנע קײטן,
ווי בלוטיקע חיות אונדז רײַסט;
איר קענט אונדזער קערפּער נאָר טײטן
נאָר קײן מאָל אונדזער הײליקן גײַסט!
  
איר קענט אונדז דערמאָרדן, טיראַנען,
נײַע קעמפֿער וועט ברענגען די צײַט;
און מיר קעמפֿן, מיר קעמפֿן ביזוואַנען,
די גאַנצע וועלט וועט ווערן באַפֿרײַט.
 

Noi siamo odiati ed oppressi,
siamo torturati e perseguitati.
E per questo noi vogliamo amare
il povero popolo sventurato,
il povero popolo sventurato.

Siamo fucilati e impiccati,
ci ruban la vita e il diritto;
per questo vogliamo la verità
e la libertà per la povera gente,
e la libertà per la povera gente.

Ma non ci lasceremo spaventare
dalla prigione e dalla tirannia;
dobbiamo svegliare l'umanità
e renderla allegra e libera,
e renderla allegra e libera.
 
Ci tengono in ceppi d'acciaio,
ci abbattono come bestie selvatiche.
Potete ammazzare il nostro corpo,
ma mai il nostro spirito ardente,
ma mai il nostro spirto ardente.

Ci potete assassinare, tiranni,
il tempo porterà nuovi combattenti.
E combatteremo, combatteremo finché
il mondo non sarà liberato,
il mondo non sarà liberato.