giovedì 28 febbraio 2013

Approfittarne !


Come scrive giustamente (in un luogo per voi irraggiungibile) L.M., fiorentino in Isvizzera con una figlia francese, per qualche tempo saremo senza governo, senza papa e senza capo della polizia. Non durerà molto: dovremmo approfittarne alla svelta!

martedì 26 febbraio 2013

Antichi mestieri napoletani


'O lutammaro era colui che raccoglieva gli escrementi di animali.
Lo si poteva trovare per le strade, soprattutto in posti come mercati e piazze principali dove sostavano i cavalli per lungo tempo, o in campagna, dove girava per le fattorie per ripulire stalle e porcili. A volte, a tutto ciò, aggiungeva anche la raccolta delle carcasse degli animali morti. Inoltre, se mancava il latrenare, poteva occuparsi anche di pulire i pozzi neri dei bagni pubblici e condominiali.
Una volta riempito il suo carretto con gli escrementi che trovava, vendeva il tutto ai contadini che avevano bisogno di concime. 

Ci permettiamo di suggerire questa benemerita attività al signore qua sotto, ora che finalmente è stato messo a disposizione (per la prima volta nella sua vita) per opere autenticamente utili alla collettività:

Collodi aveva previsto tutto!


GRILLO


PINOCCHIO


GEPPETTO


IL GATTO E LA VOLPE


LUCIGNOLO


LA FATINA DAI CAPELLI TURCHINI


MASTRO CILIEGIA

lunedì 25 febbraio 2013

Una cansión por Ingroya !

Αναρχία !






Io davvero non li capisco tutti quelli che, facendo oramai du' coglioni grossi come un casamento, vogliono "emigrare", "andarsene" o roba del genere. Ma come! Siamo finalmente in un paese dove persino delle buffissime "elezioni", tra "voto" e non-voto, stanno instaurando l'Anarchia!

Ora sarebbe pure il caso che si ricominciassero a vedere pure gli Anarchici, e di quelli ammodino. Quando il Caos, finalmente, viene messo a nudo in tutta la sua essenza; quando persino nelle "urne" si avverte la strada pietrosa dello scontro sociale, allora si smetta di perdere tempo e si faccia.

domenica 24 febbraio 2013

Giancarlo del Padrone, 24 febbraio 1974.



Noi non sapremo mai
quale sia stata la sua orazione
mentre a un passo dal cielo
gli hanno sparato come a un piccione
forse non ha potuto
gridare boia a chi l'ammazzava
mentre la vita rossa colava
giù per le tegole nella grondaia

Mentre stridon le rondini
sopra Firenze la sua agonia
un prete falso dentro una chiesa
affida i morti a un'ave maria
dietro le mura spesse
delle Murate si piange ancora
per quei vent'anni di vita spenti
da un tiro a segno durato un'ora

Un uomo è sempre un uomo
non lo giustifica una divisa
se ha una coscienza in corpo
sa quel che deve e non deve fare
e non venirci a dire
che tu obbedivi che è colpa d'altri
sapevi bene a cosa miravi
mentre puntavi il mitra e sparavi

Attento poliziotto
tu che hai sparato e sparerai ancora
il pianto a lungo andare
diventa piombo ed è la tua ora
e non sarai il solo
a pagare il conto nel gran finale
sarà al tuo fianco chi ti comanda
sia un presidente o un generale.

La canzone "Giancarlo e gli altri" di Gianni Siviero è dedicata a Giancarlo del Padrone, detenuto ventenne, abbattuto durante una rivolta nel carcere delle Murate, a Firenze, il 24 febbraio 1974.

“Il piano di rivolta stava andando avanti e iniziarono i preparativi; imparammo la strada che porta al tetto, studiammo il modo di barricarci all’interno, coordinando tempi e azioni.
Nella prima sezione eravamo circa 130. Ognuno doveva sapere, nessuno doveva farlo capire.
Era tutto un ammiccare, un gesticolare, un confabulare veloce di gruppetti. Direi che le guardie erano in possesso di forti indizi, ma nessuna prova certa. Io dovevo rimanere all’interno della sezione, con altri, pronti ad asserragliarci e a fermare le guardie, ostruendo il cancello che collegava la nostra sezione con il resto del carcere con brande, materassi, stupetti e quant’altro avremmo trovato.
Un altro gurppo, di 50 detenuti circa, sarebbe salito sul tetto.
La manifestazione iniziò la sera del 24 febbraio 1974, al termine della serata televisiva. Le cose, nemmeno a dirlo, andarono diversamente dal previsto. In un primo momento le guardie riuscirono a sfondare le barricate. Le respingemmo e loro, per reazione, iniziarono a sparare all’interno proiettili e lacrimogeni.
Avevamo preparato limoni e acqua per proteggerci gli occhi, ma l’aria diventò irrespirabile e salimmo anche noi sul tetto.
Da lì vedemmo le guardie, sempre più numerose, scherarsi sui muri di cinta, tutto intorno a noi, a circa 50 metri di distanza.
Il direttore, megafono alla mano, ci intimò di rientrare nelle celle e ci dette un ultimatum di cinque minuti, dopo di che ci avvertì che avrebbero iniziato a spararci.
Qualcuno fu intimorito da questa minaccia, ma la possibilità che venisse dato il via ad un tiro all’uomo non venne alla fine considerata possibile.
Eravamo pronti alla contrattazione; in definitiva miravamo ad ottenere qualche miglioria all’interno del carcere, dove la situazione era di assoluta invivibilità, e a coinvolgere l’opinione pubblica sull’urgenza di una riforma giudiziaria e penitenziaria.
Vivevamo lontano da ogni decenza e gridavamo la nostra disperazione.

Avevano puntato le luci di due riflettori su di noi. Accanto a me c’era Giancarlo, detenuto da pochi giorni. Ricordo che si mosse per andare a prendere un giornale che un altro detenuto aveva con sé.
Assieme a lui si mosse Sandro. Li vidi alzarsi, fare qualche passo. E cominciò il tiro al bersaglio. Centinaia di colpi.
Mi stesi a terra. “Mi hanno preso”. Era la voce di Sandro, strisciai verso di lui.
E vidi Giancarlo a terra. Con gli occhi aperti. Qualcuno passò un accendino davanti ai suoi occhi. Le pupille erano fisse. Sul petto quattro, cinque colpi. Una sventagliata di mitra.
Così morì Giancarlo Del Padrone, 20 anni, toscano di Carrara, arrestato 15 giorni prima, in attesa di processo per furto d’auto.
Il suo primo reato. Restarono feriti in otto.
Sandro alla spalla. Gaetano al fegato, gli altri alle gambe.
Ci alzammo tutti in piedi.
“ASSASSINI” “Ammazzateci tutti, coraggio” “La pagherete”
Slogan di sfogo, di rabbia. Urla senza speranza, senza pace.
Smisero di sparare.”

M.D.S. Testimonianza successiva su una rivolta e l’uccisione nel Carcere delle Murate, a Firenze, il 24 febbraio 1974

Tratto da “Il carcere speciale” Progetto Memoria, Vol. 5, Edizioni Sensibili Alle Foglie


FORSE DA QUALCHE PARTE......

(ricordando Del Padrone, ragazzo di vent'anni fucilato alle Murate)*

Ragazzo,
senti il rumore del tuono?
forse da qualche parte un uomo sta lottando.
Lotta per te, per me, per tutti,
ma pochi sanno dirgli grazie......

Ragazzo,
senti lo stillicidio della pioggia?
forse da qualche parte
una vita si sta spegnendo
e questa pioggia è l'eco di un lontano dolore....

Ragazzo,
senti il peso di questo improvviso silenzio?
forse da qualche parte un uomo è stato vinto,
fucili di venduti fratelli
gli hanno impedito di gridare "Libertà!".

Ragazzo,
il dolore di uno
dovrebbe essere il dolore di tutti
e non è giusto che
mentre tu piangi
altri ridono
e mentre tu ridi
altrove altri si disperano.

Ragazzo,
al prossimo tuono
non spaventarti,
alla prossima pioggia
non chiudere la tua finestra,
al prossimo silenzio
mettiti a gridare con rabbia!


Horst Fantazzini.
Perugia marzo 1974



Giorno di elezioni /2


Giorno di elezioni


"Oggi si vota !"
(NB: "Wahl" vuol dire anche "scelta, selezione" in tedesco)

sabato 23 febbraio 2013

Neve



Anni fa, quando abitavo a Friburgo in Svizzera, si tennero le elezioni comunali e cantonali. E si tennero, se ben mi ricordo, un diciotto di febbraio o roba del genere.

Friburgo è una città abbastanza bizzarra geograficamente; sorge sì nella zona dell'Altopiano, ma praticamente dentro a un canyon scavato dal fiume Sarine (o Saane in tedesco; è una città bilingue). La "città bassa" (Basse Ville), quella in fondo al canyon e sulle rive del fiume, si trova ad un'altitudine di circa 500 metri; la "città alta", invece, arriva a sfiorare i mille. Io, che abitavo nella città alta, constatavo a volte che, verso ottobre o novembre, nella città bassa pioveva mentre dove stavo io si era già messo abbondantemente a nevicare. Direttamente alle spalle, inoltre, Friburgo ha una montagna di oltre duemila metri. Col prosieguo dei mesi la questione tra città bassa e città alta viene democraticamente risolta: entrambe vengono seppellite dalla neve, almeno fino a marzo per non dire ad aprile. Bisogna farsene una ragione.

Quella domenica delle elezioni comunali e cantonali fu, climaticamente, da tregenda. Aveva cominciato a nevicare di brutto dalla sera prima, senza mai smettere; e andò avanti per tutta la giornata. Ne venne giù circa un metro, e a vento; immaginatevi di sortire per andare a votare. La famosa "bise", il vento gelido della zona, imperversava; mettere il naso fuori di casa era semplicemente da pazzi.

Si recarono alle urne non più del 35% degli aventi diritto; vale a dire, vi fu un astensionismo del 65%. Una quota quasi paragonabile all'ottantatré per cento del Saggio sulla lucidità di José Saramago. Fu un'elezione storica nell'antica città degli Zähringen: dopo cinquantacinque anni ininterrotti di governo, la destra se ne andò a casa. Vinsero i socialisti. L'ex sindaco di destra avevo avuto occasione di sentirlo parlare brevemente al ballo in piazza per la festa nazionale del 1° agosto (faceva già un freddo da pelare, tra l'altro): aveva preso la parola per dire che quella era la festa di tutti, cittadini e immigrati, e aveva concluso: "Divertitevi tutti! Viva la Svizzera!". Che strano, strano paese, sapete. Non ci hanno nemmeno l' "allerta meteo"; inconcepibile.

Domani e doman l'altro ci sono le elezioni in Italia, e ci dicono che siano elezioni parecchio importanti. Andata com'è andata, stavolta tocca anche qui votare in febbraio; in Italia s'è sempre votato in primavera per non dire in estate (nel 1976 si votò il venti di giugno!), e il problema è sempre stato, casomai, se andare o non andare al mare. E c'è la neve un po' ovunque. Tutti preoccupatissimi per due fiocchi in qualche regione; ma dovrebbero stare tranquilli. Lo avranno comunque, il loro "parlamento" e il loro "governo"; su questo non ci può essere alcun dubbio. 

Anzi, io sono pure convinto che l'astensionismo non sarà neppure un gran ché; una quota normale, diciamo. Siamo onesti: quelli che non si recheranno a votare per scelta convinta non saranno poi moltissimi. In Italia, tra le tante categorie di cittadini assai pittoreschi, una assai consistente è rappresentata dai "disillusi" che dichiarano per cinque anni di fila, quasi ogni giorno, che "non si recheranno mai più a votare" e che, qualche giorno prima dell'appuntamento, trovano invariabilmente un motivo valido per recarsi al seggio. C'è sempre un "cambiamento" rappresentato da qualcuno; c'è sempre un' "ultima speranza" impersonata dal tizio di turno (il longobardo, l'imprenditore, il comico); c'è sempre una giustificazione all'undicesima ora, espressa magari raccontando tutta la propria complessa storia personale come preambolo.

Quindi, particolarmente gli ex "disillusi" faranno la fila alle sezioni elettorali, anche sotto un' eventuale bufera di neve. Terminate le elezioni, comunque vadano, torneranno a mugugnare per altri cinque anni (o comunque per tutto il periodo fino alle prossime elezioni); dichiareranno che è stata l'ultima volta, che sono sempre più disillusi, che in Italia non cambia mai nulla, che abbiamo una "classe politica" orrenda, che c'è la "casta" e via discorrendo. Oppure ci racconteranno, in modo anche sincero e commovente, di come abbiano smesso di votare vent'anni fa, ma che stavolta torneranno alle urne perché si presenta...boh, chissà chi ci sarà. Quest'anno tocca al comico, la prossima volta sarà un calciatore, un vetraio o un prete. Vattelappesca. Riempirà le sue piazze, dirà che "è finita", che tutto non sarà mai più come prima, che manderà tutti a casa. 

Però, ci mancherebbe altro, io non voglio affatto né demonizzare e né disprezzare chi, domani, andrà a votare per qualsiasi motivo. Mi porrei, altrimenti, sul solito piedistallo di chi "ha capito tutto", e su quel piedistallo io non ci voglio stare nemmeno per sbaglio. Di persone che "hanno capito tutto" ne ho conosciute fin troppe, e mi sono bastate. Ho cercato di dire delle cose, qui dentro e altrove, ad esempio sul perché si dovrebbe rifiutare fattivamente di partecipare alla periodica farsa "elettorale"; ma, alla fine, sono il primo a dire che ognuno fa ciò che vuole. Leggo qua e là che nella famosa piazza San Giovanni, a Roma, c'erano persino tanti "ragazzi dei centri sociali"; sono ben lungi dallo stupirmene. Sto da anni dentro un centro sociale autogestito e l'altra sera, mentre si preparava la cena, c'erano almeno tre o quattro "ragazzi" che dichiaravano entusiasticamente di andare a votare per Grillo. Vado da un'altra parte, e sento persino i CARC che invitano ufficialmente a votarlo (qui il comunicato ufficiale). Ho persone che considero amiche (e che non cesseranno di esserlo, se non per futuri e imponderabili motivi non legati a questo) che sono state folgorate dall'urlatore genovese e dal "movimento dal basso"; le cose stanno così, e non c'è quindi da stare in ambasce per un po' di neve. Tutti a votare, su; la Democrazia vi chiama, la Nazione ha bisogno di voi e non posso mica immaginare che tutti siano diventati "anarchici" all'improvviso. A proposito, sono più che certo che anche parecchi "anarchici" si faranno vedere ai seggi, in barba all'astensionismo tanto propagandato e dichiarato a gran voce.

A questo punto, non resta che arrendersi e aspettare quel che sarà. Quel che c'era da dire è stato detto. La celebre "crisi", l' "emergenza", lo "spauracchio della Grecia", le "famiglie alla fame", i "giovani senza futuro" e la "chiusura delle imprese" hanno partorito, come di consueto, un po' di fascisti, un santone capelluto venuto a miracol mostrare, la "gente dal basso" che preferisce la comoda e innocua urna alla scomodissima e pericolosa rivolta (cosa che Grillo, del resto, da ottimo imbonitore ha rivendicato), ciance sulla "politica e antipolitica" e persino una bella nevicata.

Del resto, tutti o quasi sono oramai perfettamente coscienti di prendere parte ad una recita. Sanno benissimo che le loro "speranze" e i loro "slanci" d'aver finalmente trovato chi interpreta "i sentimenti autentici" e le "istanze della gente" sono fuffa. Sanno benissimo che non si cambia nulla delegando la cosa a chicchessia; e, più che altro, sanno benissimo, nella stragrande maggioranza dei casi, che tutta 'sta gran voglia di "cambiamento" potrebbe essere very dangerous. Presupporrebbe, in un determinato momento, un punto di non ritorno. Qualcosa dalla quale non ci si può tirare indietro. E, allora, ogni volta s'aspetta un Grillo come la manna dal cielo. Qualcuno per il quale "valga la pena", qualcuno che "poi si starà a vedere". Per un determinato periodo si ammorbano i coglioni con la Grecia, con le "rivolte", con lo "spaccare tutto", con la "distruzione del sistema"; poi, venuto il momento, ecco spuntare la Luce. Improvvisa, folgorante, travolgente. Sarà per la prossima volta, d'accordo.

Che volete di più, tesori miei; non saprei proprio che dire. Mi raccomando però: copritevi bene e non buscatevi una bronchite. Non vorrei che, tra cinque anni, vi ritrovaste a dire che vi siete ammalati per il solito cretino che vi ha abbindolati proprio mentre vi preparate a rischiare un'insolazione, un diciannove di luglio, per il cretino successivo.

Nella foto: Anche lui era andato a votare per un comico, ma aveva sbagliato film.


venerdì 22 febbraio 2013

Strane creature



Maria Banuș, nata nel 1914 e scomparsa nel 1999, è stata una poetessa molto nota nel suo paese, la Romania. Di famiglia ebrea (il padre era un funzionario della banca Marmorosch Blank), compie studi universitari (dapprima in giurisprudenza, poi in lettere). Comincia a pubblicare poesie nel 1928, all'età di quattordici anni. Non è un esordio di poco conto per una ragazzina; la pubblicazione avviene infatti sulla rivista Bilete de papagal, diretta da uno dei più famosi e importanti poeti rumeni del '900, Tudor Arghezi. Si tratta di poesie che esprimono le confessioni e i sentimenti più profondi di un'adolescente; quella intitolata, inequivocabilmente, A quattordici anni, recita ad esempio: Io cerco proprio te, spirito della bellezza / Con la tenerezza e la durata di un fumo / E mi stupisco anch'io dello spazio che hai / Nel mia esistenza di adesso. Passa poi a collaborare alla rivista Azi ("Oggi"), con poesie che si distinguono per il carattere sentimentale e erotico; nel 1937 le raccoglie nel suo primo volume, intitolato "Il Paese delle Ragazze". Due anni dopo, però, Maria Banuș scopre le tematiche sociali e il movimento operaio, diviene attivista in organizzazioni antifasciste e simpatizza per il Partito Comunista fino ad iscrivervisi. 

Dopo la guerra e la presa del potere da parte dei comunisti, l'ex ragazzina prodigio viene accolta (fin dal 1945) nella Società degli Scrittori Rumeni; durante una sua seduta del 1948 esprime pubblicamente il suo accordo con un articolo del critico Sorin Toma, pubblicato in Scînteia (l'organo ufficiale del Partito Comunista Rumeno), intitolato "La poesia della putrefazione o la putrefazione della poesia", rivolto espressamente alla distruzione e all'eliminazione dalla letteratura rumena di Tudor Arghezi (vale a dire di colui che per primo aveva pubblicato, nella sua rivista, le poesie della Banuș quattordicenne). La storia si ripete con altri poeti e scrittori "indesiderati" (o "non omologati"), in favore dei quali la poetessa non muove un dito. Pubblica altre raccolte dedicate al periodo della guerra e alla lotta rivoluzionaria del Partito; svolge anche attività di cronista. Famosa la raccolta "proletcultista" Io parlo a te, America! (ma perlopiù si ignora se l'America la abbia ascoltata); una sua poesia, intitolata Il padrone, diviene lettura obbligatoria nelle scuole medie rumene.

Ritenendosi sicura e consolidata, Maria Banuș sente nostalgia per le sue prime poesie adolescenziali; ha ormai più di quarant'anni, ed è un'età a cui si ripensa alla propria prima giovinezza e ai suoi slanci. La sua storia viene qui captata da Juan Rodolfo Wilcock, che la racconta nei suoi Fatti Inquietanti: rivendicando le sue origini, Maria Banuș scrive infatti una poesia che comincia: Non smetterò, no, di cantare / Il lampo, il sole e l'amore adolescente..., "per poi affermare" -scrive Wilcock- "che queste erano le cose più belle del mondo. Fu immediatamente cancellata dal Registro dei Poeti; dopo qualche settimana venne però chiamata davanti alla presidenza del Consiglio dei Ministri, affinché facesse una ritrattazione. Maria Banush [Wilcock scrive il cognome secondo la pronuncia, ndr] ritrattò in questi termini:  'Ho dovuto trovarmi di fronte alla presidenza del Consiglio dei Ministri, in mezzo agli eroi, ho dovuto vivere attraverso ciascuno dei miei pori, imbevermi pienamente della bellezza e grandiosità dello spettacolo di quegli uomini, per comprendere il mio errore...' L'errore era forse stato quello di non scrivere come il poeta romeno Petre Sascu: ' È domenica; c'è molta gente al centro culturale / I contadini ascoltano, quelli che son potuti entrare. / Il presidente legge le ultime decisioni / Del Comitato Centrale, appena giunte dalla capitale.' "

Fin qui Juan Rodolfo Wilcock, che raccoglie e compila i Fatti Inquietanti negli anni '50 (furono pubblicati originariamente da Bompiani nel 1961, ma ristampati soltanto nel 1992 da Adelphi; credo di avere acquistato una delle primissime copie, o quasi, della riedizione). Nonostante la sentitissima ritrattazione, Maria Banuș non torna nelle grazie del regime, e nel frattempo è diventato segretario generale del Partito tale Nicolae Ceaușescu. I suoi libri vengono ritirati dalle librerie e dalle biblioteche pubbliche; contemporaneamente, però, all'estero si comincia a considerarla una "poetessa dissidente" perseguitata e le sue prime raccolte "adolescenziali" vengono tradotte in numerose lingue. Maria Banuș, alla fine, riesce a trasferirsi in Francia; nel 1987, Alain Bosquet, presentando un suo volume di poesie tradotte in francese, la paragona a Anna Achmatova e a Gabriela Mistral. Questo non poté saperlo, Juan Rodolfo Wilcock; era morto, praticamente dimenticato, a Lubriano in provincia di Viterbo, lo stesso giorno del rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo 1978.

giovedì 21 febbraio 2013

Ginestre, parole e mesi



Molti anni dopo, quando oramai la lingua l'avevo imparata a sufficienza, avrei ripensato a quella mattinata di febbraio, all'isola d'Elba, quando vidi una cosa straordinaria senza fare altro che aprire una finestra mezza sgangherata. Mi stava accadendo, in quegli anni, qualcosa che mi faceva parecchio piacere; avendo ormai preso la licenza liceale ed essendomi iscritto all'università (ero proprio al primo anno, se ben mi ricordo), potevo tornare all'Elba in mesi insoliti e ben lontani dall'estate di prammatica; così quel febbraio.

Ho da sempre, col mese di febbraio, un rapporto strano. In linea di massima, essendo o dovendo essere il mese più crudo dell'inverno, lo detesto; però è anche il mese che precede immediatamente la primavera, in cui si può dire che il peggio sia quasi passato proprio mentre lo si sta vivendo e, inoltre, vi sono nate alcune persone che hanno avuto una grande importanza nella mia vita; nel bene, nel male e, come è naturale che sia, in entrambe le cose. S'innesta così l'odi et amo catulliano; e quindi non passa praticamente anno in cui non gli dedichi qualcosa, al febbraio il cui nome non ha proprio nulla a che vedere con la febbre. Il nome par esser derivato infatti dal verbo latino februo, che significa "purificare". A sua volta proveniente da un *bre-bruo, antico verbo "a raddoppiamento" dalla radice indoeuropea *bhre- dal significato generico di "purezza". Così la si ritrova, ad esempio, nel greco φρέαρ "pozzo, cisterna" (ovvero: contenitore di acqua pura) e in tutte le parole germaniche della "sorgente": antico alto tedesco brunno, tedesco moderno Brunnen. Probabilmente collegato è anche il verbo germanico del "bruciare", tedesco brennen, inglese burn: il fuoco, come si sa, purifica (ed in conseguenza di ciò parecchi sono saliti sul rogo). Il nome latino del mese ha comunque a che fare con la festa dei Lupercali, che vi si svolgeva; durante quel mese, infatti, il popolo costumava fare ai numi sacrifizi di espiazione, come si legge in un decrepito dizionario etimologico in mio possesso.

Quella mattina all'Elba, dicevo, mi svegliai infagottato nelle coperte di camera mia; dalla persiana filtrava una spada di luce nella quale volteggiava, fittissimo, il pulviscolo che solo in quel modo si può vedere bene. Dovete sapere che la strada che passa per il Formicaio si chiamava, già da parecchi anni allora, via delle Ginestre; e m'ero sempre chiesto come mai, visto che di ginestre non ce n'era manco mezza. Oleandri quanti se ne vuole, piante di finocchio selvatico, gli immancabili fichi e persino qualche ulivo; ma ginestre proprio no. Lo capii quella mattina, il perché; evidentemente, non doveva essere qualcosa che accadeva troppo spesso ma, quando accadeva, era un'esplosione. 

Aprii la finestra, nonostante non facesse di certo un gran caldo; era una mattinata magnifica, di quelle per le quali si possono sprecare senza remore aggettivi come "gloriosa", o "sontuosa". Un cielo pazzescamente azzurro; e, tutto all'intorno, un delirio di ginestre fiorite. Oltre il campaccio davanti casa, su per dove si cominciava a salire alle Coste Grande, ai Salandri e a Galenzana; nel macchione fitto inframezzato dagli agglomerati di pini; vicino al capanno in muratura che poi è stato buttato giù per farci una casetta. Il mondo era diventato giallo vivo. Le ginestre avevano deciso di fiorire tutte insieme il venti di febbraio, in quell'angolo di mondo; rimasi come istupidito. Incantato, perdendo la cognizione d'ogni cosa. E siccome le ginestre fiorite non si limitano al colore, nell'aria si sentiva, seppure non fossero propriamente vicine alla casa, un profumo che sollevava da terra. Quando mi ripresi, non mi chiesi mai più perché avevano dato quel nome alla strada.

Se allora avessi conosciuto bene la lingua greca moderna, avrei capito bene anche una sua curiosa parola che mi capitò di conoscere anni e anni più tardi, ascoltando un canto cretese dei tempi della guerra d'indipendenza del 1821, dalla voce del grande Nikos Xylouris. Si chiama, il canto, Πότε θα κἀμει ξαστεριά, viene da tempi aspri ed è di una violenza più unica che rara. Vi si parla tranquillamente di sterminare senza pietà tutti i turchi presenti a Creta; il canto (il cui titolo significa: Ma quando farà un giorno sereno?) prevede infatti che si salga sul monte Omalòs, sulla strada di Moussoura, col fucile in spalla e che non si risparmi nessuno; né uomini, né donne e né bambini.



Qualche giorno fa parlavo di cose che ci dividono irrimediabilmente dai greci; ascoltando e capendo quel che si dice in questo canto, si pensa immediatamente alla pulizia etnica (e la guerra di indipendenza greca del 1821, che infiammò allora tutti i cuori che anelavano alla libertà, lo fu in gran parte e fin da subito).  Però, in Grecia, questo canto è considerato un simbolo assoluto di libertà, e lo stesso Xylouris, che era un antifascista fieramente avverso alla dittatura dei Colonnelli, non esitò un istante a prendere la sua lira e andare a cantarlo, rischiando di essere ammazzato, al Politecnico di Atene, davanti agli studenti in rivolta, nel novembre del 1973 prima che tutto fosse schiacciato nel sangue dai carri armati del regime.

Novembre 1973: Nikos Xylouris tra gli studenti del Politecnico

Nel canto, peraltro, è presente (nel secondo verso) quella parola curiosa di cui parlavo prima. E' un verbo; il canto inizia chiedendosi, come nel titolo, "quando farà un giorno sereno" e "quando finirà l'inverno"; e per "finire l'inverno", il greco ha la possibilità di utilizzare il verbo φλεβαρίζω (si legge flevarízo).

Nella diglossia che ha afflitto il greco fino al 1974, e che ha ancora parecchi riverberi sulla lingua parlata e scritta, i nomi dei mesi dell'anno, come migliaia di altre parole, hanno una variante "colta", derivata dalla lingua "pura" classicheggiante (la καθαρεύουσα) e una variante "popolare" (o "demotica"). Così, ad esempio, il mese di aprile è απρίλιος nella lingua "pura" e απρίλης in quella popolare; e la cosa ha conseguenze del tutto greche. Ad esempio, sarebbe stato fuori questione che la giunta militare, per celebrare il colpo di stato del 21 aprile 1967, usasse la variante popolare del mese (e con Papadopoulos che si sforzava di parlare addirittura in greco classico); sugli innumerevoli cartelli propagandistici di quella data si trovava infatti scritto così, come avranno notato tutti coloro che, in quegli anni, si trovavano a attraversare il canale di Corinto:


Utilizzare le forme popolari, come il nome del paese scritto Ελλάδα e la data scritta 21 απρίλη, sarebbe stato considerato semplicemente sovversivo.

Per il mese di febbraio, quindi, esiste la variante colta, φεβρουάριος [fevrouários], e quella popolare, φλεβάρης [fleváris]; la quale, peraltro, mostra interessanti fenomeni fonologici di dissimilazione e metatesi. In tutto questo potrebbe anche rientrare una paretimologia, con la consueta tendenza a riportare le parole intese come "difficili" ad altre comunissime; in questo caso, φλέβα [fléva], che significa "vena".

Ancor più particolare, però, è che dal nome popolare del mese di febbraio sia stato tratto, in greco, un verbo. Non mi risultano altri casi del genere nelle lingue europee, anche se ovviamente potrei sbagliarmi; in greco, "l'inverno finisce" o "arriva la primavera" si dice "febbraizza" o "febbraia": φλεβαρίζει. Chiaro che un verbo del genere non potrebbe mai esistere in svedese o in russo, sebbene anche in certe parti della Grecia, in febbraio, faccia un freddo da pelare; e, infatti, il verbo è di origine squisitamente cretese. A Creta, in febbraio, finisce l'inverno;  e deve finire in modo sufficientemente regolare per aver giustificato la nascita di un verbo del genere, tratto dal nome del mese. Finisce l'inverno, con tutte le implicazioni che comporta ivi compreso che il termine della stagione fredda comporti liberarsi dalla Turcocrazia di secoli sterminando persino i bambini, oppure andare a cantare tutto questo a degli studenti che di lì a poco sarebbero stati massacrati dai soldati in un Novembre (mese che, peraltro, ha pure le sue brave due varianti: la colta νοέμβριος e la popolare νοέμβρης che si usa naturalmente per ricordare la rivolta: η επανάσταση του Νοέμβρη).

Me ne rammentai proprio di quella mattina all'Elba, ascoltando il canto cretese. Mi rividi spalancare una persiana mezza rotta una mattinata di febbraio, e scoprendo le ginestre in fiore sulle pente davanti ai miei occhi. Quel giorno, in cui non avevo ancora vent'anni, aveva febbraiato, είχε φλεβαρίσει, anche all'Elba; mi ritengo fortunato d'avervi potuto assistere almeno una volta, e non so se mai mi risuccederà.


mercoledì 20 febbraio 2013

Asteroidi



La vicenda del femminicidio commesso da Oscar Pistorius nei confronti della fidanzata, la modella Reeva Steenkamp, assume contorni decisamente inattesi e inquietanti, almeno secondo l'autorevole Corriere della Sera. Dopo la storiella del ladro chiuso in bagno (tutti i ladri si chiudono in bagno, notoriamente), dopo le quattro revolverate con cui l'idolo delle folle ha fatto la "sorpresina di San Valentino" alla fanciulla che amava tanto, dopo la mazza da cricket insanguinata, ecco spuntare addirittura gli asteroidi che sarebbero stati trovati in casa del superatleta. All'anima; d'accordo che si tratta di un atleta stellare (con contratti pubblicitari astronomici), ma in casa ci aveva nientepopodimeno che gli asteroidi. A questo punto prevedo la linea di difesa per far sì che il megainnamorato eviti l'ergastolo sudafricano: non è stato lui a ammazzarla, ma un pezzo di asteroide caduto dal cielo. A questo punto perché non sospettare anche un meteorite? Oh, sono cascati in Russia, possono cascare anche in Sudafrica; e, comunque, in Sudafrica come in Italia e dovunque, per giustificare il maschietto supergeloso si ricorre più che spesso a balle ben più siderali (ma il Pistolius sembra averne sparate già in sovrannumero). Si noti inoltre che, oramai, i moventi degli omicidi non stanno più nei bigliettini spiegazzati trovati da Sherlock Holmes nelle tasche dell'impermeabile, e nemmeno nella telefonata intercettata o ascoltata casualmente: si trovano nel tablet, dove i rugbisti lasciano i messaggi alle fidanzate altrui. 'Azz...!

Ringrazio Daniela per la stupefacente segnalazione

martedì 19 febbraio 2013

Fare per Fermare il Cretino



Certo che questi libbberali & libbberisti son proprio delle sagome! O come, se ne andava in giro per l'Italia a fare gran bevute a sbafo di vino bono e ci aveva bisogno pure di inventarsi il "master in economia" a Chicago?  Più d'uno mi dà del terrorista quando dico che bisognerebbe prenderli più o meno tutti, questi "economisti", e scavare una bella foiba apposta per loro; ma l'autentico divertimento non deriva da questo, secondo me. Deriva invece dallo spettacolino della "preoccupazione" (mirabilmente espressa da Repubblica e dal fido Huffington Post) che lo spassoso suicidio politico-mediatico dello spaventapasseri che voleva "fermare il declino" ha provocato nei centrosinistri, visto che il nonsisaccosa di Giannino sarebbe stato accreditato di "risultati importanti" in Veneto e in Lombardia. E si teme naturalmente che i voti per il Fermator di Declini vadano tutti o quasi a Berlusconi; insomma, si avrebbe il risultato naturale di tutte codeste "economie liberiste", vale a dire Fare per Rimediare un Pompino. Alla fin fine si va sempre a cadere lì. Tanto il Cretino s'è fermato da solo. E ora su, da bravi, andate tutti a votare, mi raccomando. Fate gli appelli, pubblicate le solite idiozie a base di frasi fatte, non mancate di dare il voto di protesta al pagliaccio di turno e poi ricominciate a mugugnare per cinque anni che tanto sono tutti uguali.

lunedì 18 febbraio 2013

Se manca l'infinito


C'è qualcosa che ci divide irrimediabilmente dai greci: l'infinito. Provate a immaginare di rinunciare a essere o non essere questo è il problema, a ...e il naufragar m'è dolce in questo mare o anche a un semplice non ci voglio andare; il nostro caro infinito, la libera scelta tra la personalità e l'impersonalità, la generalità concettuale dell'azione. I greci non hanno questa possibilità, perché la lingua greca moderna, semplicemente, non ha l'infinito. Non esiste il verbo "andare", ma il verbo "io vado" (πηγαίνω o πάω). Chi ha studiato un po' di greco classico al liceo si potrà forse stupire, pensando alla pletora di infiniti che esisteva allora: presente, futuro, aoristo e perfetto, il tutto per l'attivo, il medio e il passivo. Eppure, probabilmente fin dalla tarda antichità, l'infinito comincia a scomparire dal greco parlato; non se ne sa esattamente la causa, anche se si sospetta l'influenza di una qualche antica lingua parlata in loco che, pur scomparsa, avrebbe "segnato" l'idioma che la aveva del tutto sostituita (è quello che si chiama sostrato, o substrato). Piano piano, i testi nei quali si avverte la riproduzione del linguaggio popolare mostrano questa strana caratteristica: l'infinito non c'è più. Lascia soltanto una flebile traccia in una forma verbale del tutto priva di significato proprio che si usa, adesso, soltanto per formare i tempi composti (έχω γράψει "ho scritto", έχει δεθεί "è stato legato"; ma le forme non sono nemmeno participi e non hanno vita autonoma, sono complementi verbali). Con l'alto medioevo, il greco parlato non ha più traccia dell'infinito e niente, nemmeno l'introduzione della "lingua pura" ai tempi della guerra d'indipendenza del 1821 (che sarà lingua dello stato fino al termine della dittatura dei Colonnelli, nel 1974), servirà a riportarlo in vita. Anzi, neppure l'inventore e codificatore della καθαρεύουσα, il dottissimo Adamandios Koraìs, insiste più di tanto. Lascia la possibilità di usare gli antichi infiniti classici, ma lui stesso non li usa in quel che scrive. E così, nella Grecia dei Colonnelli, accanto al normale avviso Απαγορεύεται το κάπνισμα "è vietato il fumo", era possibile trovare dei "mostri" come Απαγορεύεται το καπνίζειν "è vietato fumare", con un infinito classico che doveva fare la stessa impressione che, da noi, avrebbe fatto  un avviso del genere scritto in latino su un treno o in ospedale.

Una cosa del genere, lo si capisce, è uno stacco. Ha precise e decisive influenze sul modo in cui viene strutturato il pensiero e, in generale, su come viene affrontata l'intera vita personale e collettiva (si dovrebbe un po' più spesso riflettere sul modo in cui la lingua che parliamo dalla nascita impronta e plasma la nostra vita). I greci parlano greco, e il greco è una lingua in cui l'impersonalità totale (assicurata dall'infinito verbale) è impossibile; tutto deve essere riportato ad una forma personale. Amleto non può dire "essere o non essere", ma ha tutta una scelta tra: "che io sia o che non sia", "che tu sia o non sia", "che egli sia o non sia", "che non siamo o non siamo", "che voi siate o non siate", "che essi siano o non siano". Inoltre, quel semplice "essere" è contrario a tutta questa concreta personalità; e così, la traduzione generale greca del dubbio amletico è: Να ζει κανείς, ή να μη ζει; vale a dire, "che viva qualcuno, o che non viva?"

Si resti negli empirei dell'arte, e andiamo a vedere l'Infinito di Leopardi ("leopardare", come disse Benigni una volta). Non ho sottomano una traduzione d'arte, che pure dovrà esistere; ma dovessi rendere in greco io l'ultimo verso, sia pure alla lettera, direi qualcosa come και μου 'ναι γλυκό να ναυαγώ σ' αυτήν την θάλασσα, cioè: "e mi è dolce che io naufraghi in questo mare". Devo specificare chi cavolo vuole naufragare, non c'è versi; oppure ricorrere al sostantivo concretaccio, και μου 'ναι γλυκό το ναυάγιο σ'αυτήν την θάλασσα, "e mi è dolce il naufragio in questo mare". Altre strade non ce ne sono.

Non è questione che riguarda soltanto la letteratura: riguarda ogni aspetto della vita. Il greco è la lingua del congiuntivo: il modo del pensiero indiretto, vale a dire dell'espressione costante della propria personalità (e responsabilità) è ovunque e lo si può persino "sostantivare" mettendogli davanti l'articolo neutro το. Frasi comunissime, di tutti i giorni, come "sparare una revolverata a un fascista mi piacerebbe molto" si possono rendere nel modo che segue: το να ρίξω μια πιστολιά σ' ένα φασίστα θα μου άρεσε πολύ ("il che io spari" a un fascista eccetera). Col giochino tutto ellenico degli "aspetti verbali" la cosa diventa interessante, perché in greco si deve distinguere tra "che io spari costantemente, di continuo" (να ρίχνω, congiuntivo presente) e "che io spari ora, in questo momento e basta" (να ρίξω, congiuntivo aoristo). Prima, ad esempio, ho presupposto di sparare solo una revolverata al fascista, ma se voglio sparargli tutta una serie di sventagliate di mitra per una ventina di minuti di fila devo cambiare aspetto verbale. La lingua greca distingue bene tra una singola pallottola e una buona disponibilità di munizioni, persino con le desinenze verbali.

"Perché non andare a distruggere la sede di Alba Dorata?"; una domanda che, parecchi, in Grecia sembrano porsi fattivamente. Γιατί να μην πάμε να καταστρέψουμε την έδρα της Χρυσής Αυγής; , cioè: "perché che non andiamo che noi distruggiamo la sede" eccetera? Πρέπει να πάμε! ("bisogna che noi andiamo!"). E così via. Il Mulino Bianco non avrebbe potuto, in Grecia, tirar fuori una linea di prodotti dolciari chiamata "Essere"; si sarebbe chiamata "Vita", "Esistenza", "Essenza" o come accidenti sarebbe loro parso, ma niente infiniti. E il buon Erich Fromm che tutti leggevamo avidamente da pischelli, non capendoci peraltro generalmente una sega? "Avere o essere"? No, Che abbiamo o che siamo. O che abbiate o che siate, dipende da come ci si pone, se pensiamo alla totalità o all'esclusione. "L'arte di amare" diventa "L'arte dell'amore", che in italiano potrebbe essere un po' ambiguo; ma non in greco. Il greco distingue precisamente tra l' "amore sentimentale" (o "spirituale": αγάπη) e l' "amore fisico" (έρωτας). Η τέχνη της αγάπης è l' "Arte di amare" di Fromm, Η τέχνη του έρωτα è l' Ars amandi di Ovidio.

Da qui il carattere particolare della lingua greca, e di chi la parla. Il greco è una lingua costantemente umana, rivolta sempre direttamente a qualcuno, e che non ama le astrattezze immotivate. Una delle cose più difficili, infatti, è vissuta all'interno della sua storia millenaria (sarebbe bene ricordare che la sua prima forma documentata, il miceneo, risale a circa quattromila anni fa): tradurre nella lingua moderna la filosofia e la letteratura classica, cosa che comunque è stata fatta, è un mezzo suicidio. La speculazione filosofica ha dovuto essere riportata al carattere totalmente diverso della lingua moderna; la quale, comunque, in non pochi casi si è arresa, rimettendo in uso -ma solo in questi casi particolari- antichi infiniti usati come sostantivi (tipo το εἰναι "l'essere, das Sein"). Ma questo può spiegare parecchie altre cose della storia della Grecia recente; ad esempio, i baldanzosi e disperati soldati italiani che andarono a pigliare una batosta nel '41 col loro Credere, obbedire, combattere espresso con un infinito perentorio in cui non credevano minimamente. Si scontrarono con chi, invece, strutturava il tutto come: Che crediamo, che obbediamo, che combattiamo (Να πιστεύουμε, να υπακούουμε, να παλεύουμε). E' un "noi" che si vede tuttora nelle piazze greche, e non nelle nostre.



Come un'aquila volava nella strada
lo ammiravano i vicini dalle finestre
con i suoi neri occhi abbassati
un valoroso mitragliava.

Nei suoi occhi una nuvola
nel suo cuore il ferro.
Scorse il sangue, coprì il sole
anche Caronte mitragliava.

Si chiudono gli occhi e i cuori
si chiudono le finestre
poi si avventa Caronte a cavallo
e quello sorrideva.

Chi scende oggi nell'Ade?
Di chi parla il vicinato di chi discute
Perché stanno in silenzio i monti e i campi?
Un valoroso mitragliava. 

Come un'aquila volava nella strada
lo ammiravano i vicini dalle finestre
con i suoi neri occhi abbassati
un valoroso mitragliava.
 
Notis Pergialis
Maria Dimitriadi
Mikis Theodorakis
(per Sotiris Petroulas)  

domenica 17 febbraio 2013

sabato 16 febbraio 2013

venerdì 15 febbraio 2013

Posizioni



Mi è arrivato, addirittura da un "rioplano" in volo, un messaggio sms in cui mi s'informava di questa vignetta pubblicata dal "Canard Enchaîné". Ora, non so nemmeno se sia esattamente quella; però il succo sarebbe comunque lo stesso. Il succo e un autentico colpo di genio, devo dire! Paragonabile comunque a quello dei Paguri con il certificato di sbattezzo del papa. Da non perdere!

lunedì 11 febbraio 2013

Tre papabili tre



S.S. Giovanni Lindo I
al secolo Giovanni Lindo Ferretti

*


S.S. Addolorato I
al secolo Nicola Vendola (detto Nichi)

*





S.S. Texas Ranger I e II (vale per due)
al secolo Carlos Ray Norris (detto Chuck)


domenica 10 febbraio 2013

Gli si darà del fascista?



A questo tizio qui? Ma no. A parte che è quello che, probabilmente, spera; si vede che ultimamente deve avere esaurito i matti e i cori di Santafiora. E cosa c'è di meglio, allora, di un po' di foibe? Vedo che scherza pure sui suoi concerti ai quali "verranno i ragazzi di Forza Nuova", ma se proprio devo essere sincero i suoi concertini li vedo come eran prima: pieni di bravi ragazzi "democratici". La morte sua, come il festival di Sanremo di "leccalecca" fabiofazio! Ad ogni modo, appartengo a coloro che non si stupiscono affatto di codesta sua "conversione"; un buffone era all'inizio, e un buffone rimane. Oltretutto un buffone di una supponenza e di una presunzione che hanno dell'incalcolabile. Dunque, buone foibe; e il prossimo argomento cristicchiano quale sarà?  Io gli suggerirei la Vandea! Oppure, chissà, un bell'album o uno spettacolo insieme a Roberto Saviano; una coppia perfetta!

venerdì 8 febbraio 2013

Società dello Spettacolo Mix


" Quello che vogliamo sostenere è che nella progressiva (...e progressista) crescita del Capitale vengono abolite storicamente le vecchie definizioni che fin qui abbiamo descritto: la comunità mercantile, la società politica, lo Stato (appunto il Potere Formale). Infatti nella comunità mercantile ancora consistevano elementi di palese contraddizione, proprio come imbarazzante sconfessione in ciò che garantiva la "costituzione" in comunità: il bene comune, l'astrazione che legittima il rapporto di scambio come rapporto sociale. E' invece la "storia" che permette a questo modo di formazione dei rapporti sociali di riuscire a superare gli antagonismi ottocenteschi tra "lavoro" e "capitale", tra "classe operaia" e "borghesi", tra "Socialismo" e "Liberalismo". Perciò il Potere non risiede più in un organismo separato e separabile, ma viene esercitato da tutto l'insieme sociale (strana analogia con le società primitive descritte dai professori di anarchismo).



Quando la merce (quintessenza del Bene Comune) realizza pienamente la sua astrazione, quando arriva a perdere la materialità di bisogno diventa pura rappresentazione della ideologia, la messa in scena della vita: la merce abbondante si consuma sotto forma di rito, in cui lo spazio e il tempo sono conquistati da questa messa in scena. Si annullano allora i conflitti della "comunità mercantile". L'Economia trionfa. 



 Le rivoluzioni mancate sono i movimenti d'avanguardia per il Capitale, sono battute infatti le "resistenze conservatrici al progresso". Questa è la Storia! La "Democrazia" più il "Socialismo" vanificano i conflitti politici; inutilità della politica perché tutti sono d'accordo: tutti i partiti si equivalgono. Si dissolvono le fantomatiche autonomie dello "Stato" dalla "comunità mercantile" (la ridicola indipendenza della Magistratura) e anche dello "Stato" e della "società politica" (l'ancora più ridicola distinzione tra "potere legislativo" e "potere esecutivo"). Tutto si trasforma, si mescola in un unico "corpo" (il che ricorda la transustanziazione del Cristianesimo), ciò che noi definiamo come Società dello Spettacolo. "

(Dai "Manoscritti anti-economici anti-filosofici del 1977", opuscolo anonimo.
"La società dello spettacolo", il film di Guy Debord, si trova anche sottotitolato in lingua italiana a questo indirizzo; ma l'inserimento, o "embedding", è "disattivato su richiesta dell'utente").



Ci potrete un giorno ritrovare qua
Quando l'aria sulla vostra testa brucerà saremo noi
Che avremo tanta forza
Per riconoscere sul fondo
Delle vostre alienazioni che allontanano dal corpo
Consunto imbarazzato il vostro spirito
Ma l'inverno non arriva mai
E navighi a cercare
La tua isola
Verso un arcipelago lontano te ne vai
E una collettiva
Coscienza liquefai
E porti un invadente
Carico d'affetto per l'immagine
Il prezzo del denaro
Lucida la sfera dell'oracolo
E noi ci ritroviamo senza titolo
Nella società dello spettacolo
Ci potrete un giorno cancellare
Ma ora siamo quella società
Pronta a prevedere gli accidenti
E di notte li contiamo e di giorno
Li cantiamo ai quattro venti
Perchè non c'è più classe né sistema
E noi non abbiam voce
Per dare nuova luce agli operai
Il prezzo del denaro virtuale
Lucida la sfera dell'oracolo
E noi ci rifugiamo senza titolo
Nella società dello spettacolo

(Davide Giromini "Redelnoir", Società dello Spettacolo 
da Ballate di Fine Comunismo)

IOA (Invincibile Ostinazione Anarchista)


Contrordine!

Leggo da Anarchici Pistoiesi il seguente comunicato:

Oggi 6 febbraio il surriscaldamento di una stufa elettrica ha provocato un incendio all’ultimo piano di Villa Panico, domato dai pompieri.
Nonostante numerose insistenze da parte dei vigili del fuoco e della municipale abbiamo rifiutato di abbandonare il posto. Pochi gli sbirri presenti, moltissimi i solidali, a dare un occhio e una bella mano. Stiamo tutti bene e Villa Panico è sempre in mano nostra.
Un grazie di cuore a quanti si sono mossi e ci hanno aiutato: senza di voi poteva finire peggio.

Come dire: Ho parlato un po' troppo presto. Ma meglio così!

giovedì 7 febbraio 2013

ISA (Imponderabile Scalogna Anarchista)



Si chiama ISA, ma non è un nome di donna. È l'Imponderabile Scalogna Anarchista (o Imponderabile Sculo Anarchico nella variante toscana, o Imponderabile Sfiga Anarchista nella variante settentrionale). Nella storia, unita senz'altro a diverse e pur gravi circostanze, ISA si è manifestata costantemente; ieri pomeriggio, a Firenze, si è materializzata per opera di una stufetta elettrica difettosa.

Non è ovviamente obbligatorio che conosciate, o abbiate conosciuto, Villa Panico. Direi che pochi la conoscono in Firenze stessa, se non per i periodici sgomberi. Tracciamone una breve storia: si parte dal vecchio MAF (Movimento Anarchico Fiorentino) di Vicolo del Panico (da cui il nome), sgomberato con la forza pubblica e trasformato in appartamenti di prestigio. Da qui la divisione, a dire il vero già operativa da tempo; gli "anarchici storici" vanno per altre strade, ovviamente sgomberati anche loro, mentre gli "incontrollabili", i giovinotti e le giovinotte, i cani e tutto il resto, iniziano una peregrinazione che li porta prima a occupare uno stabile vuoto in piazza Ghiberti (in Sant'Ambrogio e a mezzo metro dalla sede della "Nazione", oh yea), dal quale vengono sgomberati dopo qualche mese. Da lì si trasferiscono in un luogo che di quelli; all'interno dell'area dell'ex manicomio di San Salvi gli "anarchici incontrollabili" occupano una villa semidiroccata e appartata costruita presumibilmente agli inizi del XX secolo, e che era nata per ospitare la clinica dove si praticava la "cura del sonno". E' quella che diventerà "Villa Panico": un primo tentativo di sgombero nel novembre 2008 (se ben mi ricordo), in cui un battaglione di gendarmi si reca in forze per buttare fuori una quindicina di pericolosissimi terroristi che detengono quintali di munizioni (poi rivelatesi terribili chiodi da muro calibro 9 e tremende viti a espansione paratrapanum), li cacciano con grand'esultanza dei media cittadini (in primis Repubblica) e, poi, si vedon non più di un giorno dopo la Villa Panico rioccupata come se niente fosse, ovviamente con tutta una serie di denunce e incriminazioni con accuse che vanno dal surreale al fantasioso passando per il ridicolo. Il secondo tentativo di sgombero è quello del 13 luglio 2009, giorno in cui il sito Internet di Villa Panico si sospende nel tempo: sono gli Anarchici sul tetto che scotta. I "Panicanti" salgono sul tetto senz'acqua da bere, con una temperatura di trentanove gradi, e non scendono finché gli sbirri non han ripiegato armi e bagagli e se ne sono iti. Poi più nulla, in attesa; eh sì, perché, come ben si sa, l'Area di San Salvi è sotto appetiti, e sono appetiti che contano. Unità abitative nello spazio pubblico, riqualificazione, degrado, lettere di cittadini "indignati", decisivi reportages della solita Repubblica....ma gli Anarchici eran sempre lì.

Un biribissaio. Villa Panico poteva piacere o non piacere, sempre tenendo conto che, a chi ci viveva, che piacesse o non piacesse non gliene fregava, giustamente, un cazzo nulla. C'erano concerti. C'erano iniziative, come quella del 13 maggio 2012 quando era stato chiamato a parlare e raccontare Sante Notarnicola. Laboratori. In un quartiere che, peraltro, si sta riempiendo di fascisti. Sì, certo, è possibile che le aree antagoniste più "organizzate" nutrissero qualche diffidenza nei confronti dei "Panicanti", tenendo conto anche di precise differenze ideologiche che sarebbe semplicemente idiota negare. Per quel che mi riguarda, cosa la cui importanza è pari a zero, ci andavo poco; ma andavo al vecchio Panico, conosco parecchie persone e non ho mai avuto né steccati e né, soprattutto, "utilitometri". Né m'interessano i gradi di "purezza", quelli li lascio ai tanti che continuano a cianciare col culo al caldo e l'impiego nella pubblica amministrazione. In questo senso, sarò sempre più vicino a tutte le Ville Panico del mondo che a qualsiasi teoreta della rivoluzione di questo beato par di coglioni.



Nel luglio del 2009 c'erano quaranta gradi, e nel febbraio del 2013 ce n'erano svariati meno. E ISA si è manifestata in una giornata di febbraio; dove non sono arrivati sbirri, pennaioli e speculatori è arrivata una banale e maledetta stufetta elettrica messa a riscaldare una camera. Un corto circuito, un filo scoperto, un cazzo di qualcosa che non ha funzionato; e Villa Panico ha preso fuoco. In una giornata qualsiasi, così. Mi son cominciati a arrivare messaggi sms su uno "sgombero con un incendio", ma c'era solo l'incendio a sgomberare ogni cosa. La Polizia sembra sia arrivata e ripartita, tanto il servizio lo stavano già facendo, oltremodo bene, le fiamme. Sono arrivato che sembrava la sagra dei pompieri; più che un incendio, sembrava ci fosse stata l'alluvione. Nel parco, un autentico lago. Un bel pezzo di tetto crollato. Cassettate di calcinacci buttati giù a formare un monte. Lacerti di libri e documenti. Sembrava la scena finale del "Nome della Rosa".

E gli Anarchici, già. O come li si vuol chiamare, perché, nonostante la marea di "A" cerchiate, c'è il caso che i "Panicanti" amino poco le definizioni; non ci fate caso, se non siete abituati a storie di vita completamente disassate dalle vostre. Tutti tranquillissimi, specificando che, fortunatamente, nessuno s'è fatto un graffio (nemmeno, e ci tengo a dirlo, i numerosi cani). Inagibilità ufficialmente certificata; e, poi, che cazzo c'è da certificare. E' crollata un'ala intera dell'edificio. Ma quel che colpiva era la tranquillità, come se ISA fosse accettata per quel che è. Insita, intrinseca. Prima o poi arriva, è normale. Diceva una ragazza, abbracciata a un labrador: "Addio Panico, è stato bello finché è durato." Tutti a portar via quel che s'era salvato, qualsiasi tipo di masserizia, di libro, di carta, di bidone, di cianfrusaglia.

E così, chi fosse passato ieri da San Salvi sul far della sera, avrebbe visto una scena surreale e, forse, vagamente indimenticabile. ISA fa di queste cose: mette in fila gli Anarchici in silenzio, e senza un lamento. Che si debba varcare una frontiera sconfitti (e al di là della frontiera ci sono comunque prigionia, esilio, morte), o che si debba smassare un luogo dimenticato in una città, all'improvviso, per una stufa elettrica che ha dato fuoco a tutto. No, certo, non era Port-Bou o Bourg Madame; era solo una fila di cassette, valigie, contenitori, bidoni, borse. Dove andranno non si sa. Dove sarà il prossimo Panico. Certo è che tutto mostravano, fuorché panico. Nessun rimpianto, come se col fuoco ci fosse un'antica consuetudine. Come se, in fondo, meglio che Villa Panico sia finita così che per mano poliziotta. Chi fosse passato avrebbe visto, materialmente, la canaglia pezzente di cui magari si compiace di berciar cantando ogni tanto. A duecento metri nessuno ne sapeva già niente; l'indifferenza generale. E allora mi sono detto: beh, qui bisognerà sforzarsi di ritirar fuori, un po', il Venturi al massimo spolvero. Perché sento di doverlo. C'è caso che, presto, arrivino le ruspe; e che di Villa Panico si perda anche uno straccio lezzo di ricordo. ISA ha lavorato bene e chissà dove se ne sarà andata ad agire; ieri era a Firenze, in un ex manicomio che diventerà qualcos'altro. Nessun "addio" a un dio che non esiste; gli anarchici van via, e non ci sarà, di certo, nemmeno nessun San Pietro Gori che li trascinerà al nord. Al massimo in qualche altro rudere sopra Rifredi, o a Novoli, o al Diavolo.

martedì 5 febbraio 2013

Aiutaci, Valentina




A Valentina Tereškova

Che ne faremo di tanti
E tanti predicatori!
Gli uni si servon di libri,
Altri di acuti sofismi;
Alcuni di storie varie,
Miracoli e apparizioni,
E altri della presenza
Di scheletri e di scorpioni,
Oh mamma mia!

Che ne faremo di tante
Preghiere che abbiamo addosso,
Che cianciano in ogni lingua
Di gloria e di questo ed altro,
Di inferni e di paradisi,
Di limbi e di purgatori,
Di eden di vita eterna,
Di arcangeli e di demòni,
Oh mamma mia!

Che ne faremo di tanti
Discorsi sull'alto cielo!
Aiutami, Valentina,
Tu che hai volato lontano:
Dimmi una volta per tutte,
che non c'è nulla lassù,
Domani lo costruirà
L'uomo con la ragione,
Oh mamma mia!

Che ne faremo di tante
Bugie da tutte le parti:
Valentina, Valentina,
Spezziamo la ragnatela.
Signori, sotto la terra
La morte resta inchiodata
Ed ogni corpo in silenzio
Il tempo lo riduce a niente,
Oh mamma mia! 
Oh mamma mia!

= Violeta Sandoval Parra =
4 ottobre 1917 - 5 febbraio 1967

Valentina Tereškova, sovietica, fu la prima donna a volare nello spazio, il 16 giugno 1963.
Questa canzone fu scritta da Violeta Parra nello stesso 1963.

lunedì 4 febbraio 2013

Resurrezione (13-14)


Le ultime due parti precedenti (11 e 12) erano state pubblicate il 30 ottobre 2012. Le altre parti, prima del 30 ottobre 2012. Cercatevele se vi interessano.

13.

Successe che, sempre senza dir parola, il Milanese s'alzò, prese la chitarra e la porse delicatamente a Piero Ciampi. " Per favore, se la tenga. Non ne voglio sapere nulla. Mi perdoni, non ho nulla contro di lei e mi sembra un brav'uomo, ma ci son delle cose che non afferro più e ho sempre tenuto alla mia perfetta razionalità. " 
" Come vòle lei, signor Maimone ", fece Piero con aria comprensiva e parlando con quel suo fare dolce. " Le do i soldi. Quant'è ? " 
" Non voglio niente, signor Litaliano. Se la prenda e basta. Torni pure a trovarmi quando le pare, ma senza quella chitarra. Quella non la voglio più vedere. " 
" La capisco. Una volta o l'altra torno a trovarla. Ma è sicuro di non volere niente ?… " 
" Davvero. Avrei paura che i soldi si mettessero a contarsi da soli. " E, nel dir questo, riuscì a fare un sorriso sotto i baffi, che stemperò un po' l'aria che s'era fatta da tagliare col coltello, e non soltanto per il fumo delle sigarette che Piero Ciampi fumava una dietro all'altra. Sorrise anche lui. 


" Senta, le chiedo soltanto un favore. " 
" Mi dica. " 
" Posso finirmela qui l'insalata di riso ? Ci metto due minuti." 
" S'accomodi, prego. Se la finisca pure con calma. Io devo tornare in bagno, tanto. Quando ha finito, se non sono ancora tornato esca pure tranquillamente e chiuda solo la porta. " Il Milanese riprese la Settimana Enigmistica e la matita, e se ne tornò nello sgabuzzino ; Piero Ciampi si finì la sua insalata, si versò un'altro bicchiere di vino e poi prese la bottiglia vuota, le diede una risciacquata sommaria, e la riempì al rubinetto del cartone da cinque litri. Il Milanese non era tornato ; Piero Ciampi mormorò un " arrivederci " che sicuramente non sarebbe stato udito, prese la chitarra e la bottiglia, e uscì chiudendo la porta. 

Proprio in quel momento un orologio da qualche parte batteva le dieci ; la chitarra e Piero Ciampi si ritrovarono sul marciapiede, su un marciapiede, e il freddo s'era fatto ancora più intenso. Si sentì addosso una stanchezza e un sonno tremendo, proprio quello che non ci voleva avere. Perché avere sonno, dopo che s'è dormito per venticinqu'anni, non lo si può desiderare, non ci si può abbandonare a camminare verso un letto pregustandoselo ad ogni passo. Ma non aveva addosso che una giacchetta; forse, coi trenta euro risparmiati, domani avrebbe potuto comprarsi qualcosa di pesante da mettersi addosso, magari al mercatino. Un maglione di lana, o una giacca a vento a poco prezzo. Chissà, forse la signora Emiliani ci aveva ancora qualcosa del suo famoso marito che non avrebbe mai combinato nulla di buono e che passava il suo tempo a scrivere su quella cosa…come cazzo si chiamava, l'intermìlan, l'internazionale… Arrivato di nuovo in piazza Cavour, fu preso d'infilata da una raffica di vento umido e gelido ; e siccome gli era rimasta congelata nella mente l'ultima parola che aveva pensato, " internazionale ", pensò di riscaldarsi intonandola. La sapeva anche in francese, con il testo di Eugène Pottier, scritto sotto i massacri d'un maggio lontano, nel quale la Comune di Parigi veniva annientata ; e si mise a berciarlo, nel mezzo della piazza, cercando di accelerare il passo quanto poteva, ma stavolta senza correre…



Debout, les damnés de la terre 
Debout, les forçats de la faim! 
La raison tonne en son cratère 
C'est l'éruption de la fin. 
Du passé faisons table rase 
Foules, esclaves, debout, debout 
Le monde va changer de base 
Nous ne sommes rien, soyons tout! 
C'est la lutte finale Groupons-nous, et demain 
L'Internationale Sera le genre humain ! 

Mentre attraversava così cantando la piazza, non s'era accorto d'un gruppo di persone che, appoggiate a un muretto che dava sul fosso Reale, stava pure cantando, in coro. Lo videro passare. Lì per lì, Piero Ciampi nemmeno si voltò ; una voce dal gruppo, quasi tenorile, però gli fece eco :

Il n'est pas de sauveurs suprêmes 
Ni Dieu, ni César, ni tribun, 
Producteurs, sauvons-nous nous-mêmes 
Décrétons le salut commun 
Pour que le voleur rende gorge 
Pour tirer l'esprit du cachot 
Soufflons nous-mêmes notre forge 
Battons le fer quand il est chaud. 
C'est la lutte finale... 

Stavolta si voltò, sorpreso. Dé, a quell'ora, e con quer freddo budello, c'era ancora 'varcuno a giro 'e 'ni rispondeva all'Internazzionale in francese…lui cantava la prima strofa, e loro gli rispondevano con la seconda.

" Ciao ! ", fece un tizio magro, con un flauto in mano.
" Ciao a te ", rispose Piero Ciampi. " La sapete pure voi."
" E' quel che siamo venuti a fare ", gli rispose il tipo magro ; " Però ", disse rivolgendosi ai suoi compagni e alle sue compagne, perché c'erano anche diverse donne, " avete visto che città. Ve lo avevo detto. Qui ci si mette appoggiati a un muro, in una serata gelata, e dopo un po' passa uno che canta l'Internazionale. In francese. " ; ci fu una specie di risata. " Scusa se ti abbiamo fermato, amico…. "
" Tranquillo…ma da dove venite ? "
" Da Bergamo. Siamo qui a Livorno, ospiti del… "
" Premio Ciampi. "
" Ah, vedo che lo conosci. Mi fa piacere. "
" Sì, sì…domani sera cantano anche dei miei amici…anzi no, li ho conosciuti stasera, però domani sera m'hanno detto d'andare a sentirli cantare al premio Ciampi… "
" E, se posso…chi sono questi tuoi amici… ? "
" Senti…come si chiamano 'un lo so…un paio dèvano èsse' di Firenze, anzi tre…uno si 'iama…aspetta…Lùa, un altro Marco… "
" Ossantiddìo …i Delsangre… ", fece il tipo magro cambiando improvvisamente espressione.
" I Delcosa… ? "
" Lascia stare…non ti preoccupare, sono cose nostre…"
" Se 'un ti stanno simpatici, scusa te… "
" No…sai, sono cose…sono vecchie cose nate su una mailing list su Internet…nulla di che… "


Eccola là. Internet. Quella parola che non si ricordava, e per la quale s'era messo a cantare l'Internazionale. Se se la fosse ricordata, non si sarebbe messo a cantarla. E se non si fosse messo a cantarla, nessuno lo avrebbe fermato e a quest'ora sarebbe già stato minimo in via Grande.
" Ah…sì, Internèt…io invece fo ir tifo pe' ir Livorno… " Il tipo magro lo guardò con aria interrogativa, mantenendola per 2,48 secondi circa prima si presentarsi :
" Beh…senti, piacere. Io comunque sono Dario, e questi sono i miei amici del Gruppo Pane e Guerra. Si canta anche noi. "
" Io sono Piero, piacere mio. Dario…Dario di Livorno… "




" Veramente io sono di Bergamo… "
" No, no, scusa stavo pensando fra me e me…e che cantate nel Coro Pane e Guerra ? "
" Canzoni di lavoro, di emigrazione e di guerra. "
" Quelle di emigrazione e di guerra mi garbano. Quelle di lavoro no. Io di lavorà' 'un lo sopporto. "
" Ma com'è che conosci l'Internazionale in francese ? "
" L'ho imparata a Parigi tant'anni fa… "
" E hai una chitarra. "
" Sì, qualche volta mi garba pure di strimpellà. "
" La città di Piero Ciampi ! ", fece Dario di nuovo rivolto al suo gruppo mentre Piero Ciampi s'avviava a gran passi verso l'ipotermia.

" Sentite…mica ce l'avete un maglione ? "
" Un maglione ? "
" Sì. Un maglione. Una giacca pesante. Un mantello. Un checcazzotipare. Sto crepando di freddo. "
" Ah… " Dal gruppo si staccò una ragazza, dopo aver frugato in una borsa. Ne cavò fuori uno sciallone di lana, che porse a Piero :
" Scusa…senti, se ti va bene ho questo…"
" Mi va benissimo…senti, però non saprei come rendertelo… "
" Hai detto che domani sera sei al premio, no ? ", fece lei con un sorriso a trentadue occhi.
" Me lo riporti domani sera… "
" Non so come ringraziarti… "
" Si potrebbe cantare tutti insieme per dieci minuti… "

Piero Ciampi si sentì finalmente un po' riscaldato addosso ; dalla tasca esterna sinistra della giacca prese la bottiglia di vino, ne tirò giù una gozzata a garganella, e prese la chitarra. " Sentite, visto che vi garba l'Internazionale, ve ne fo sentì una che 'unn'avete mai sentito. "
" E che è ? "
" E' l'Internazionale dei portuali livornesi. Una 'osa 'e si 'antava 'vì subito dopo la guerra…ir coro Pane e Guerra siete, no ? "
" Dai, faccela sentire ! "
Piero Ciampi si mise anche lui appoggiato al muretto, e imbracciò la chitarra mettendosi a cantare :

Compagni! Avanti, al porto, al mare 
si va da tutta la città! 
Il popol vuole lavorare, 
e non esser mai più sfruttà. 
Noi marciamo qui sulle rovine 
d'una guerra che ci schiantò, 
ma ora sorgon le mattine 
di nuova forza che ci animò! 
E' la lotta finale, 
dei compagni sul mar! 
L'Internazionale 
andiamo a realizzar. 
Lottiam per l'ideale 
che vogliamo istigar, 
L'Internazionale 
il mondo cambierà! 

Dal mare s'alzan grida forti, 
di marinar, di pescator; 
sono i compagni che son morti 
per combattere l'oppressor. 
Non c'è posto qui, vile fascista 
che dal mondo si scaccerà, 
perché Livorno comunista 
dalla miseria risorgerà! 
E' la lotta finale, 
dei compagni sul mar! 
L'Internazionale 
andiamo a realizzar. 
Lottiam per l'ideale 
che vogliamo istigar, 
L'Internazionale 
il mondo cambierà! 

Sarà la lotta d'ogni giorno, 
sarà la lotta del portual; 
noi volgerem lo sguardo attorno 
riprendendoci l'ideal! 
Nasce già da rovine e macerie 
l'alba nuova dell'avvenir; 
rinasce ognor dall'intemperie 
una speranza e non vuol morir. 
E' la lotta finale, 
dei compagni sul mar! 
L'Internazionale 
andiamo a realizzar. 
Lottiam per l'ideale 
che vogliamo istigar, 
L'Internazionale 
il mondo cambierà! 

E il popolo di tutto il mondo 
s'unisce a noi per terra e mar; 
non più schiacciato e moribondo 
presto si andrà a ribellar! 
Forza, unione e organizzazione 
e lo sciopero general; 
avanti alla Rivoluzione, 
lottiamo pel nostro Germinal! 
E' la lotta finale, 
dei compagni sul mar! 
L'Internazionale 
andiamo a realizzar. 
Lottiam per l'ideale 
che vogliamo istigar, 
L'Internazionale 
il mondo cambierà! 

" Cangelli… ! " La voce, mentre Piero Ciampi stava ancora cantando a squarciagola, veniva bisbigliando da un altro del gruppo, un armadio di sei metri per tre con addosso un pastrano da prima guerra mondiale che avrebbe avvolto un Lancia Rho intero.
" Cangelliiii…. ! "
" Sì… "
" Questa si deve mettere nel repertorio… "
" E sì che si deve…non l'avevo mai… " Proprio in quel momento, Piero Ciampi aveva finito di cantare, e prima di rialzarsi aveva deciso d'avere ancora sete.
" E' bellissima. "
" Ti garba ? "
" Ci garberebbe…di metterla nel nostro repertorio. "
" Dé, fate 'osa vi aggrada. E' di pùbbrio dominio, tarmente pùbbrio 'e ormai la'onosco io e ir' mi gatto. Gliela 'antavo sempre anche ar merlo di Moravia, prima che quer pezzo di mota l'ammazzasse… "
" Il merlo di Moravia… ? "
" Lascia stà, và…. "




" Ce la insegni ? "
" Se volete. Ma ora bisogna che torni a casa. Magari ci s'arvede domani… "
" Domani mattina noi siamo…dove siamo ? ", fece Dario di Bergamo rivolgendosi ancora all'armadio.
" Si va a mangiare alla trattoria senza nome, quella che t'ha indicato quel tuo amico. "
" Ecco, la trattoria senza nome…in via…in via… "
" Delle Cateratte ", rispose ancora l'armadio.
" La 'onosco ", fece Piero Ciampi. " Ciandàvo sempre a scroccà. "
" Ecco…senti, se ti fa piacere, vieni a scroccare anche domani…ci sono anche altri nostri amici… "
" Ma guarda che io scrocco sur serio… "
" E tu scrocca quanto ti pare. Ma ne conosci altre ? "
" Di trattorie ? "
" No…di canzoni. "
" Tutte quelle che volete. Anche quelle di Piero Ciampi. "
" Perfetto ! Allora a domani all'una ! "
" A domani…bene, così riporto anche lo scialle alla ragazza… bonanotte, coro Panegguerra. "
" Panguerra ! ", fece Dario con una specie di urlo, che gli altri ripresero come fosse la haka degli All Blacks ; e Piero Ciampi si riprese la chitarra, e s'incamminò per via Cairoli. Fece ancora in tempo a sentirli intonare un canto che doveva essere della prima guerra mondiale, come il pastrano di quello lì; Il diciotto di novembre, una giornata scura… ; in fondo a via Cairoli li si sentiva ancora cantare : Passando per Malamocco ghe x'era de le donète, e tutte ci dimandavano: Ma da che parte siete? Siamo dal Cannarègio, San Giacomo e Castèlo, siamo fuggiti via col nostro fagotèlo...

Fatti duecento metri, la chitarra si mise a suonare da sola l'Internazionale. Arrivò in via Garibaldi in pochi minuti. Sì, bisognava andare a dormire. Il diciotto di novembre, una giornata scura. Altro che scura. E anche se il mattino dopo non si fosse risvegliato, se fosse stata tutta un'invenzione del grande Manitù, chissenefrega. Mise la chiave nella toppa, e il portone s'aprì con un rumor di ferraglia.
 
14. 


Anche dopo aver acceso la luce, che illuminava soltanto l'ingresso subito adiacente al portone, la rampa di scale era rimasta semibuia. La lampadina sul pianerottolo doveva essere fulminata, e nessuno doveva averla cambiata ; si sentivano degli strani lamenti, una specie di litania in un dialetto incomprensibile, provenire dalla porta della vecchia vicina di casa della signora Emiliani ; a Piero Ciampi la rampa di scale apparve ancor più ripida di quanto gli era apparsa di giorno, poche ore prima. L'attaccò reggendosi a un corrimano bisunto con la mano sinistra, e tenendo la chitarra con la destra ; a metà salita aveva già il fiatone. Era stanco morto, ed era un bene ; la stanchezza l'avrebbe forse aiutato a addormentarsi senza dover pensare a quando sarebbe di nuovo caduto nell'incoscienza. E a metà di quella rampa di scale erta e scura, si ricordò all'improvviso di quand'era morto. Non se n'era andato nel sonno. Se n'era accorto. Si era sentito scivolar via, e poi più niente. Non c'era stato più niente. Più niente. E non avrebbe mai potuto raccontare il niente, a chi gliel'avesse chiesto. Nemmeno al Capitano suo amico, che pure aveva detto d'aspettarsi che un giorno sarebbe ritornato. Non avrebbe potuto mai parlare d'aver fatto uno sberleffo e una ghignata dopo aver constatato che da quell'altra parte non c'è nessun dio, nessun inferno, nessun paradiso. Non avrebbe mai potuto provare delusione perché non c'era nulla, solo un nero che non era neppur nero, perché nel niente i colori non esistono. A meno che non avesse davvero avuto ragione quel tedesco, quand'aveva scritto che Dio è un vastissimo nulla, e che non lo tocca né l'Adesso, né il Qui. Ma no, non c'era niente. C'era soltanto la Grande Pausa. Forse, in quel momento, era successa la medesima cosa a chissà quant'altre persone; o, forse, soltanto a lui. Si sorprese con un piede a mezz'aria, su un gradino ; la litania della vecchia sembrava essersi acquietata, la luce a tempo si era spenta e dovette fare le scale che gli restavano nell'oscurità più totale, a tentoni.

Si aprì la porta, all'improvviso, dell'appartamento della signora Emiliani.
" Signor Litaliano…è lei. Menomale che l'ho sentita salire le scale, la lampadina sul pianerottolo è fulminata… "
" Se domani me ne dà una, gliela cambio io. "
" Eh, magari…volentieri, mi farebbe un piacere davvero."
" Ma dé, le pare. "
" Lo vuole un caffè ? " Piero Ciampi ci pensò su due secondi.
" No, grazie, ho sonno e magari me lo leverebbe. So' stato a giro tutto il giorno. "
" Vedo…e vedo che ha preso la chitarra ! "
" Sì, sì, ho preso la chitarra. "
" Non mi dica… "
" Sì… ? "
" Niente…ma non sarà per caso anche lei uno di quelli del premio Ciampi ? "
 Ora, e non avrebbe neppure saputo spiegarne esattamente il perché, da tutti Piero Ciampi s'aspettava d'essere stato conosciuto, fuorché dalla signora Emiliani ; aveva quell'aria da ascoltatrice della Louiselle, di " Andiamo a mietere il grano " o della " Scogliera ", e chissà come mai gli era venuta a mente proprio quella, ché sicuramente la signora Emiliani non avrebbe potuto conoscere perché era troppo giovane.




" Ma lo conoscono tutti 'sto Piero Ciampi ?… ", disse Piero Ciampi con un sorriso che doveva essere a bocca chiusa anche se l'aveva leggermente aperta ; " Comunque no, non sono uno di quelli. "
" Ah, sa com'è, si vede in giro un sacco di gente con gli strumenti in questi giorni… "
" Già, l'ho vista anch'io. Ma com'è che conosce Piero Ciampi, lei ? Ai suoi tempi 'un lo 'onosceva nessuno. "
" Eh…è sempre quel sudi…insomma, il mio ex marito, a lui piaceva e ogni tanto me lo faceva ascoltare… "
" E le piaceva ? ", chiese Piero Ciampi oramai definitivamente incuriosito.
" Belle canzoni, sì…ma uno strazio…un po' lagnose… "
" Sa, magari erano uno strazio perché era straziato per davvero ", disse Piero Ciampi eliminando ogni forma di sorriso.
" Senz'altro…però, insomma, sa com'è, mi sembravano un po' tutte uguali…e poi in ogni caso a me piace altra roba…
" Piero Ciampi si sentì quasi sollevato. " Certo, signora, anch'io, sa, ascolto quasi sempre altra roba. " " Davvero ? E chi le piace ? Le piace Marco Masini ? E la Mia Martini ? "
" La Mia Martini è brava, quell'altro 'un lo 'onosco… "
" Come ? Non conosce Marco Masini ? Ma come mai dice 'è' brava di Mia Martini ? "
" Dico che è brava perché è brava. Canta bene. "
" Non è per quello…è perché ne parla al presente, capisce ? Mia Martini è morta da anni… che strano! "


Pure lei, pensò Piero Ciampi. " Io quello che preferisco in Italia è De André, però. Come lui 'un ce n'è nessuno. "
" Signor Litaliano ? "
" Sì ? "
" Certo che lei dev'essere davvero stato bello lontano. "
" In che senso ? "
" Nel senso che Fabrizio de André è morto pure lui. Più di sei anni fa, signor Litaliano. "
 
Piero Ciampi decise che era ora d'andare a letto.
" Signora, mi scusa se ir discorso lo ripigliamo domani ? Sa, so' davvero stanco morto… "
" Mi scusi lei, signor Litaliano. E' che sa, sono sola…e mi fa piacere un po' fare due chiacchiere… "
" La capisco, signora. Le garantisco che domani si fa una bella chiacchierata. Di musica, se le piace. Sennò, di 'vello 'e vòle. Davvero. "
" In bagno le ho lasciato un asciugamano e un telo grande se si vuol fare la doccia. Stia attento ai rubinetti, mi raccomando. Se quando si sveglia sono già andata via, le lasciò il caffè e la macchinetta sul tavolo. "
" Grazie, signora, è molto gentile. Buonanotte. "
" Buonanotte a lei. "
 Piero Ciampi s'alzò dalla sedia dove neanche s'era accorto di essersi messo a sedere, mentre la signora si chiuse in bagno. Che strana casa. Entrò nella stanza, dov'era stato sistemato uno dei lettini che prima stavano nella sala d'ingresso, con sopra dei lenzòli, le coperte e un cuscino senza federa. Dal soffitto pendeva una lampada col piatto di plastica ; Piero Ciampi non rifece neanche il letto, prese il lenzòlo, ci mise sopra una coperta leggera perché in casa faceva caldo, e si mise a fumare una sigaretta. La prima cosa che gli venne a mente, è che la signora Emiliani non gli aveva chiesto niente dello scialle. Lo aveva posato sul tavolo della stanza, era uno sciallone di lana pesante, da donna. Chissà, la signora forse era abituata alle cose strane.


In quella stanza qualcuno ci doveva aver fumato tanto. E tanto. E forse anche passate delle notti intere senza dormire. Si dovette alzare per spengere la luce, perché l'interruttore era lontano da dove la signora aveva sistemato il letto, e non c'era verso di arrivarci neanche allungando un piede ; dal bagno, proprio accanto, si sentivano sciacquìi di rubinetti. Spense la luce, tornò a letto e in due secondi si addormentò con un vaffanculo.


Sognò, chissà a quale punto di quella notte, di essere in automobile, a Roma, con due giovanotti spettinati, coi capelli lunghi e con la barba. Stavano imbottigliati su in vialone, che poteva essere la Cristoforo Colombo, su una Fiat 124 bianca. Faceva un caldo tremendo, erano sudati e lui stava con la testa fuori dal finestrino a berciare insulti sanguinosi agli altri automobilisti. Uno dei due giovanotti guidava la macchina, mentre l'altro sembrava preoccupatissimo :

" Piero, Piero, ahò, e càrmete…sennò quarcuno scenne da'a' màghina e ce spara… "
" Dé, ma lo vòi 'apì che s'è in ritardo, te ? Tanto mìa devi registrà te… "
" E lo so che devi registrà, ma che ce potemo fà se stamo 'mbottijati… ? "
" Si poteva fà di partì mezz'ora prima, gesummorto ! "
" E se se partiva mezz'ora prima se stava ar punto ndo' stamo ora, lo stesso… "
" Io vo a piedi. "
" A' Piè'…da qui so' dieci chilometri… "
" E io me li fo a piedi. Lo vòi vedé… ? "
" Ma fa' 'n po' che te pare… "

E Piero era sceso di macchina, in mezzo di strada. E s'era messo a correre, a correre, a correre. E era passato davanti a tutto quanto, a caso, come gli veniva. Dal Colosseo, dalla fontana di Trevi, da piazza Navona, dal Testaccio, da via del Governo Vecchio, da via Novara all'altezza del civico cinquantatré, dove un tizio su una macchina blé gridava a una finestra: 'Tu no ! Tu no ! Tu no !', da Villa Borghese, dall'Aracèli. E aveva corso fino a perdere il fiato, finché non s'era ritrovato davanti al Piper. Sulla porta, Franco Califano con una camicia hawaiiana completamente aperta sul petto villoso, gli occhiali scuri e l'aria da fascista di merda che aveva sempre avuto, stava a parlare con un tizio magro, che fumava nervosamente.


" Ah, eccolo. Te presento er grande cantante Ciampi. "
" Piglia pòo pe' ir culo, te, sennò te la ficco in culo, la 'amicina a fiori. "
" Ahò, bòno e sbrìghete. E' tutto pronto, di sotto. Mòvete en nun fiatà, sennò la prossima vorta vai a registrà dar papa in Vaticano. "
" Eh…magari ! " E s'era precipitato giù per delle scale con la moquette rosa sciòcchin, e in un sotterraneo lo aspettava un complesso che sembrava venuto direttamente da una terza media di periferia. Tre ragazzini di diciassett'anni al massimo, coi brufoli e vestiti di certo con la roba comprata dalla mamma, delle chitarre prestate dal locale, e una batteria con scritto I Sultani .

" Surtani ? "
" Sì… ", aveva risposto uno dei ragazzi con una vocina da catechista.
" Dé, manco beduini siete…Franco ! Francoooo ! Brutto pezzo….stronzo di merda, lezzume, razzumaglia, budellone, te e ir tegame di tu' mà…ora te lo fo vedé' io ir complesso famoso…sudiciumeeeeEEEEEEeeee….. " E aveva tirato un cazzotto al tavolo, facendo cascare due matite e un quaderno. Dagli scuri della finestra entrava la luce, la prima del giorno. Erano le sei, le sei e mezzo, un quarto alle sette del mattino del 19 novembre 2005, e s'era risvegliato vivo. Aveva una gran fame e,in sottordine, una gran sete.