domenica 30 settembre 2012

Il mostro di Firenze


E chissà che non fosse stato lui davvero, altro che Pacciani!

Come dire: mettendosi a sedere sulla riva, prima o poi passano. Solo che stavolta è passato un povero, piccolo pezzettino di merda. Prima o poi gli tocca anche a loro, a questi zelanti fabbricatori di cadaveri nel nome dello "stato"; solo che, quando arriva per loro il momento di esser portati dal fiume cinese, hanno giù subito la copromòrfosi.

Poi tanto ci pensa uno stuolo di istituzioni, di colleghi e di scribacchini a pagamento a dirci quant'erano bravi, belli e eroi. Io, invece, ho ascoltato le voci di chi ci ha avuto a che fare direttamente, e che ha sperimentato la gelida carogneria del servo, con quella sua vocetta stridula e quell'accento fiorentino che, impiantato su una voce e su uno schifo dentro del genere, è quanto più detestabile possa esistere. E lo dico da fiorentino.

Ora, su, avanti il prossimo.
E chissà che non abbia, che so io, l'accento piemontese!

martedì 25 settembre 2012

È arrivato il Puffington Post!













Dove? A Rāmallāh


Oggi, anche se è più che lecito che non gliene importi nulla a un fico secco di nessuno, sarebbe il mio compleanno. Stamattina sono andato a lavorare e dopo ci torno pure; nel frattempo mi faccio questo regalo. Una canzone palestinese coscientemente stravolta.

Si chiama وين ع رام الله, Wayn 'a Rāmallāh in una delle decine di traslitterazioni possibili della lingua araba; dovrebbe voler dire qualcosa come Dove? A Rāmallāh. Propriamente, credo, sarebbe una delle decine di migliaia di canzoni d'amor deluso che hanno popolato in ogni epoca e in ogni luogo le tradizioni popolari autentiche, quelle inventate e i testi più o meno d'autore. Col tempo, però, è diventata una delle canzoni-simbolo della diaspora palestinese; gli argomenti dell'amore, della lontananza, dell'assenza e della separazione l'hanno trasformata de iure in quel che è generalmente sentita oggi.

Dicevo: stravolta. Lo dice onestamente chi la interpreta nel video qui presente, vale a dire l'italiano Stefano Saletti con la sua Piccola Banda Ikona; ma il canto è affidato al palestinese Hakim Jaleela. Ad un certo punto, nel canto interviene Ramya, che ha un nome indiano ma che si chiama in realtà Rossana Filippone e che canta normalmente in greco, in catalano e qualcosa persino in sabir. L'originale, dice Saletti, è molto "classico" in senso arabo, con oud e tutto il resto; qui, l'hanno invece eseguita "all'occidentale", con arpeggi e andamento quasi da musica da camera. Un ibrido che al palestinese Jaleela, sembra, è piaciuto parecchio; e vorrà pur dire qualcosa, chissà. Comunque, è piaciuto parecchio anche a me; io sono nato ibrido, sono un tipico rappresentante della diaspora elbana e pagherei non so cosa per averci una Wayn 'a Portoferrayoh da cantare; ma, al massimo, all'Elba ci abbiamo canti di galera intitolati, prosaicamente, Portolongone. E non dicono affatto di volerci tornare, cosa del resto più che comprensibile.

Prima di attaccare la canzone, Hakim Jaleela dice e canta qualcos'altro in arabo, che ovviamente non capisco. Per il resto mi sono basato su una traduzione inglese presente in rete, non so quanto esatta. Mi faccio, sì, questo regalo; ma il bello dei compleanni, passati da lungo tempo quelli dell'adolescenza, è esercitare spudoratamente l'arte del pretesto.

Dove? A Rāmallāh.
Dove? A Rāmallāh.
Mio amore che viaggi, dove vai? A Rāmallāh.
Ma non temi Allāh
Tu che mi hai preso il cuore, non temi Allāh?

Amore mio, amore mio,
Non c'è altra che te, amore mio.
Sei la mia fortuna e il mio destino,
Ti ho amata per amor di Dio.

Perché mi lasci?
Perché mi lasci?
Che peccato ho commesso perché tu mi lasci?
La tua assenza mi brucia,
col fuoco della separazione mi bruci.

Non scordo il tuo amore,
non m'importa del biasimo
Non scorso il tuo amore
sei più preziosa dei miei occhi

Ti hanno mentito su di me,
che male mi hai visto fare?
Perché dai loro retta?
Che male mi hai visto fare?

Quant'è duro il tuo cuore,
non chiedi di me,
di colui che ti ama.
Quando proverai pietà per me?
Ritorna, anima mia,
Sei stata via a lungo
Ritorna, anima mia
Guarisci le mie ferite
e con la tua mano il mio amore
guarisci le mie ferite.

وين ع رام الله
وين ع رام الله
ولفي يا مسافر وين ع رام الله
ما تخاف من الله
خذيت قليبي ما تخاف من الله

هي يا حبيبي هي يا حبيبي
غيرك ما بهوى... هي يا حبيبي
حظي ونصيبي... حظي ونصيبي
ردتك من الله ردتك من الله

ليش تجافيني
ليش تجافيني
ويش هاللي عملتو ليش تجافيني
بُعدك كاويني
وبنار الفرقة بُعدك كاويني

حبك ما بسلى
مهما يلوموني
حبك ما بسلى
وانت اللي أغلى من شوف عيوني

يحكولك عني
وايش شفتو مني
ليش تطاوعهم وايش شفتو مني

يا ما اقسى قلبك
ما بتسأل عني
ع اللي يحبك، ع اللي يحبك
ماتحن وتشفق ع اللي يحبك
عاود يا روحي
طولت الغيبة... عاود يا روحي
داوي الجروحي... بإيدك يا ولفي داوي الجروحي

sabato 22 settembre 2012

Bonanno a tutti !



Oggi è il 1° vendemmiaio dell'anno 221.

Ho quindi il piacere di augurare il mio più sincero bonanno a tutti !

E che questo anno nuovo ci porti tanta gioia!






venerdì 21 settembre 2012

Una vignetta


Ho dirazzato. Nel senso che mio padre era parecchio bravo con matite, penne e disegni; io, invece, saprei a malapena disegnare la casina con l'albero e il comignolo che fuma. A dire il vero, nella mia vita mi è mancata ben di più la mia altrettanto grande incapacità musicale; però, stasera, avrei voluto saper disegnare un po'. Per fare una vignetta su me stesso.

Mi sarei raffigurato esattamente come mi si vede nella foto sopra, scattatami esattamente un anno fa nel reparto di terapia intensiva, sezione "San Luca", del policlinico di Careggi (Firenze). Con tutti gli elettrodi, i sondini, le agocannule, l'apparecchio della pressione fisso al braccio e gnudo come un verme (però penso francamente di essere un po' meno affascinante di Kate Middleton). 

Da mio padre ho dirazzato sí quanto al disegno, ma non per la passione per l'enigmistica: parole crociate, rebus, sciarade, tutto quanto. Me l'ha attaccata lui fin da quando ero bambino. Si noti, al mio fianco sul tavolinetto, tutto l'armamentario che mi porto sempre dietro, ivi compreso nelle terapie intensive: astuccio con penne, gomme, bianchetto e matite e paccata di Settimane Enigmistiche. E non ho tema alcuna di dire che sono, in questo campo, pressoché imbattibile.

Nella vignetta mi si sarebbe visto, quindi, in compagnia della Nera Signora, proprio lì nel reparto dove ero ricoverato. Le avrei sventolato sul naso (naso si fa per dire) un Bartezzaghi appena risolto in cinque minuti o giù di lì, con arietta a presa di culo. 

Lei, invece, sarebbe stata raffigurata parecchio incazzata mentre butta per l'aria la sua copia della rivista con lo stesso schema ancora mezzo vuoto, esce dalla stanza e mi urla: La prossima volta però porto la scacchiera, stronzo!

E così è passato un anno. Senz'altro, prima o poi tornerà e bisognerà pur farla quella partita a scacchi; e non ci sarà storia. Non mi ricordo nemmeno come si muovono i pezzi, e se l'alfiere va a destra o a sinistra del cavallo. Però, intanto, un anno fa la Signora non sapeva come si chiamava il grande gastronomo francese di 14 lettere, e il fiume del Galluzzo di tre. Per non parlare del rebus stereoscopico; e bòrda in culo!

Il muro di Livorno


Siccome Livorno la conosco parecchio bene, non sono assolutamente prono a nessuna mitologia sul suo conto. Livorno non è fatta solamente di brigate autonome, di vernacolieri, di fantasiose e poetiche scritte sui muri, di beffe con le teste di Modigliani e di "ribelli" più o meno partoriti dall'immaginazione; Livorno ha, invece, la sua cospicua dose di dementi, di stronzi, di fascisti, di razzisti, di palloni gonfiati, di allenatori del Milan, di schermidori carabinieri, di desolanti conformisti, di intolleranti e prepotenti, di giovincelli e giovincelle che vogliono andà in Amèria a fare i cervelli di gallina in fuga. Non so se avete mai conosciuto un tipico ragazzotto livornese tutto sport e muscoloni; conoscerne anche uno solo e sentirlo aprire bocca e ragionare fa immediatamente (e pesantemente) rivalutare i pisani. Se vi recate a Livorno in preda a miti variopinti, in cerca della sospirata oasi in questo rio tempo, vi avverto: rischiate di restare parecchio delusi. Vi credete magari di incontrare dei piericiampi nelle osterie, ed è più probabile che incontriate gente che inveisce a gratis contro i negri e i finocchi davanti a un litro di vino (o di cocacola). Però inveisce in livornese, e allora ridete e andate in sollucchero. Se proprio vi interessa, quindi, Livorno andrebbe cercata altrove; magari per rendersi conto di una non leggera tragicità di quella città, della sua immensa tristezza sotto varie patine, e di certe, vere, follie creative che vengono sempre meno allo scoperto. Non è certo, la mia, la solita tiritera sulla "Livorno che non c'è più"; a dire il vero, non sono sicuro nemmeno che ci sia mai stata. Ed è così che le voglio un bene senza fine, che non verrà mai meno anche se a starci non tornerò mai più; è così che ho imparato a individuare quel che c'è per davvero, che resiste e che non si piega. 

Ieri, per esempio, a Livorno qualcuno ha deciso di ricordare al vasto mondo che esiste una cosina che si chiama Equitalia. Dopo la mandata di pacchi bomba, di irruzioni e di altre azioni dimostrative nei mesi scorsi, la questione Equitalia sembrava essersi un po' assopita; da un lato le levate di scudi da parte delle istituzioni, e dall'altro la solita, immancabile repressione. Nel frattempo, Equitalia ha continuato a fare quel che ha sempre fatto; impeterrita, implacabile, senza tregua. Ieri, a Livorno, la stessa sede di Equitalia che, lo scorso 12 maggio, era stata fatta oggetto di un gravissimo attentato seguito da paure, perquisizioni, indagati, anarcoinsurrezionalisti, denunce e arresti è stata nientepopodimento che murata. In pieno giorno, con tre belle file di mattoni e calcestruzzo portati con un carrello del supermercato, e mentre dentro c'erano ancora alcuni dipendenti, vale a dire i famosi onesti lavoratori le cui famiglie e i cui iPad vengono sostentati mediante lo strozzinaggio quotidiano, scientifico e ragionato per conto dello Stato e delle sue varie amministrazioni.

Ora, è bene che io sia chiaro; anzi, non fraintendibile. Io sostengo che, per ora, contro Equitalia sia stato fatto troppo poco, ivi compresa quest'ultima azione dimostrativa livornese. Sostengo che, prima o poi, Equitalia -prendendo tutte le necessarie precauzioni per non recare alcun danno ad innocenti- dovrebbe essere fatta data alle fiamme. In certi casi, laddove la cosa presenti ampi margini di fattibilità e sicurezza, anche fatta saltare in aria, e non con raudi fischioni. La figura del "suicidato per Equitalia" dovrebbe essere finalmente sostituita con l'Equitalia in macerie; e a chi starà già puntandomi il ditino dicendo che sono un "violento", rispondo che la violenza di tutti i giorni, e di quella dura, magari ce l'avete già nella cassetta della posta o vi sta arrivando a casa portata da qualcuno in motorino. E ve la stanno spedendo non soltanto Monti o Befera, ma anche tutte quelle brave decine di onesti lavoratori il cui salario è prodotto, consapevolmente, da tutto questo. La disoccupazione ne dà parecchi, di bei mestieri; non soltanto quello del carabiniere o del secondino. Dà anche quello, spesso a tempo indeterminato, di vostro assassino per una multa non pagata, per un balzello deciso dal Comune, per un aumento abusivo delle tariffe dell'acqua, per centinaia di altre cose con le quali lo Stato ci uccide. Poi, però, mettono in atto le umanizzazioni, persino il sostegno psicologico; vale a dire, vi roviniamo per sempre però vi aiutiamo ad accettare serenamente di non esistere più per il bene della Patria.

Detto questo, in quel che è successo ieri mi sembra di rivedere un po' della Livorno scevra dalle pastoie "mitologiche", e terribilmente concreta suscitando, nel contempo, allegria. Anche perché non è certamente una cosa priva di rischi; per tre file di mattoni e un po' di calcestruzzo si trova ovunque un Gip pronto ad affibbiarti una sfilza di reati buoni per poco meno che la ghigliottina. Mi vedo già l'interruzione di pubblico servizio, ad esempio; e visto che c'erano dentro gli onesti lavoratori, perché non ipotizzare anche il sequestro di persona? Non si vorrà mica che dei dipendenti stanchi per la quotidiana fatica scavalchino il muro di Livorno, no? Chissà che facce avranno fatto, ricordandosi magari del perché sono lì, e che cosa fanno tutti i giorni. E perché sono odiati da tutti, indistintamente, senza remissione.

Penso con particolare piacere, poi, ad una particolare categoria di dipendenti pubblici, non solo di Equitalia. A tutti gli "anarchici", a quelli che "volevano fare la rivoluzione", ai "reduci" da qualche anno compreso tra il '67 e il '77 che si sono ben sistemati nelle varie agenzie di quello Stato che poi, dalle loro gran pagine Facebook o dai loro blògghi, dicono di voler "distruggere" assieme al "lavoro" e a tutti i pilastri della società capitalista. Ci hanno, questi signori e queste signore, sempre il pretesto bell'e pronto: "non conta il modo in cui si prende soldi per campare" è uno dei più frequenti. Orari comodi, lavoro non propriamente da spaccarsi le ossa, stipendio assicurato; qualcuno dà persino ad intendere di fare l' "infiltrato all'interno del sistema", cosa altamente raccomandabile perché permette di "rendersi meglio conto dei meccanismi"; è difficilmente immaginabile il numero di rivoluzioni quotidiane, di guerredispagna, di situazionismi, di ricordidiqueglianni, di ponderose riflessioni, di copiaincolla, di hansmagnusenzensberger e guydebordi, di interminabili diatribe feisbuccare e di quant'altro proveniente dai computer e dalle reti aziendali. Va da sé che, non di rado, proprio da codesti "anarcostatali" si leggono sorprendenti quanto accorate difese dall'apparato della tassazione e delle entrate, ironie e sarcasmi contro le azioni rivolte ad Equitalia, sdegnose indifferenze e scomuniche. Contro queste persone io mi considero in guerra permanente. Devono scomparire dalla faccia della terra assieme alle loro "storie" di merda, ai loro "sogni", alle loro invettive, alle loro "durezze e purezze" non abbastanza dure e pure per non passare dalla cassa a riscuotere lo stipendio erogato da uno Stato di merda o da un'amministrazione di cravattari.

Cari i miei cocchi, care le mie cocche, siete odiati e odiate anche voi, al pari dei vostri colleghi che magari votano per Pierferdinando Casini. Al pari di quelli che non sopportate. Siete odiati e odiate anche se ve ne state per conto proprio. Anche se, nell'organizzazione aziendale, dite di occuparvi di "tutt'altro". O non siete voi, poi, che cantate "Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti?" Capisco che abbiate una paura fottuta, un giorno, di esplodere assieme a tutti quanti; magari proprio mentre state scrivendo di quel che avete fatto nel '72, o di Severino Di Giovanni mentre "gestite una rete": Serverino Di Giovanni. Quelle tre file di mattoni messe su a Livorno stanno a ricordarvelo, dal ministro fino al direttore di agenzia e all'impiegato qualsiasi. Stanno a ricordarvi che avete il fiato sul collo, indifferentemente da chi siate o siate stati. Il muro di Livorno è il muro che, in una bella giornata di fine settembre, vi fa capire quanto siate soli, separati, disprezzati. E tenetevi tutto questo, maiali.

Ribellarsi per non suicidarsi? Per morire c'è tempo, intanto scegli la lotta!



giovedì 20 settembre 2012

Lino e la cascata


Da qualche giorno avevo come una specie di conto in sospeso col Friuli, dopo l' "exploit" di un ex consigliere comunale udinese della Lega Nord che, oramai, non è più nemmeno il caso di nominare. Ho messo quindi in campo un efficace antidoto, vale a dire un Friuli completamente diverso, antitetico a quello del "dòrdul", rappresentato dal signore con la chitarra che si vede nella foto. Si chiama Lino Straulino e chissà che qualcuno dei miei settantanove lettori non lo conosca già, almeno di nome.

Mi è capitato di vederlo suonare e cantare una volta, Lino Straulino, qui a Firenze. Una serata un po' strana, devo dire; il pubblico, non particolarmente numeroso, era diviso in due categorie. C'erano quelli che erano sinceramente interessati e che ascoltavano anche le spiegazioni che Straulino preponeva a ogni cosa che cantava; ma, poi, le cose in questione erano rigorosamente in friulano stretto, e il friulano è un'altra lingua. C'era, poi, un gruppo di "friulani a Firenze" che, evidentemente, credeva di avere a che fare con il classico "cantante folk" e chiedeva a gran voce roba tipo "Stelutis alpinis". 

Il qui presente è, notoriamente, un tipo parecchio strano; tra le mie stranezze rientra l'essere un implacabile rompicoglioni di me stesso. Facendola breve, non sopporto di non capire quel che si dice; che sia una canzone, un testo qualsiasi, un elenco del telefono o un chicchirillò legato a un filo, se il Lino Straulino, una bella sera, mi canta delle canzoni che ho trovato musicalmente molto belle, ma nelle quali non ci ho capito assolutamente un'acca, bisogna che mi dia da fare. E me lo sono dato, a modo mio. Impratichendomi un po' col friulano, tanto di quel che basta per farmi schiudere un po' una parte di mondo che mi era ignota. Non è mica difficile impratichirsi un po' con una lingua; basta averci un motivo per farlo.

Così, tanto per ribadire che siamo in un Friuli in un'altra galassia rispetto a quello dei Lucadòrdoli, accanto alle canzoni popolari e ai testi poetici (ad esempio del grande Ermes di Colloredo) che Lino Straulino riscopre e riarrangia da musicista di prim'ordine, ho scoperto alcune cose scritte di sana pianta, cose di un durissimo e scarno presente. Cose in cui il Friuli non è diverso da nessun'altra parte del mondo di cui fa parte. Come questa, che vorrei far ascoltare. Vi si parla di una cascata, la Cascata di Salino. Mettiamola così; e consiglio di ascoltarla perbene. Il testo e la traduzione sono sotto il video; ve lo avevo detto che mi sono impratichito col friulano di tanto quel che basta, dato che, a suo tempo, ho dovuto anche trascrivere il testo all'ascolto perché in Rete non c'era verso di trovarlo. In Rete si trova tutto di tale Rihanna, in compenso. E si trovano i lucadòrdoli, va da sé; ma i lucadòrdoli non sono né "friulani", né di qualsiasi altra parte del mondo.



Lavorâ l'è diventât 
Un biel casin 
Lavorâ è cirî 
Di puartâ a čhase la piel 
Dal lunis al viners cence respîr 
E sàbide e domenie int un altri cantîr 

Pàssin leğs ogni dì, 
Pàssin leğs tal parlament, 
Pàssin leğs ogni dì 
Pe fâ content il president 
Pàssin pez ogni dì 
Pàssin pez daj lôr tacuins, 
Pàssin pez tanche l'aghe 
Ta pissande di Salin. 

Lavorâ tal miéz dal čhamp, 
Tal miéz da strada tutt il dì 
E a la fin lavorâ cussî tant 
Da no rivâ plui a durmî 
Dal lunis al viners cence respîr 
E sàbide e domenie int un altri cantîr 

Pàssin leğs ogni dì, 
Pàssin leğs tal parlament, 
Pàssin leğs ogni dì 
Pe fâ content il president 
Pàssin pez ogni dì 
Pàssin pez daj lôr tacuins, 
Pàssin pez tanche l'aghe 
Ta pissande di Salin.

Lavorare è diventato
Un bel casino,
Lavorare è cercare
Di portare a casa la pelle
Dal lunedì al venerdì senza respiro
E sabato e domenica in un altro cantiere

Passano leggi ogni giorno,
Passano leggi al parlamento,
Passano leggi ogni giorno
Per far contento il presidente
Passano leggi ogni giorno
Passano soldi dai loro portafogli,
Passano soldi come l'acqua
Nella cascata di Salino.

Lavorare in mezzo al campo,
In mezzo alla strada tutto il giorno
E alla fine lavorare così tanto
Da non riuscire più a dormire.
Dal lunedì al venerdì senza respiro
E sabato e domenica in un altro cantiere

Passano leggi ogni giorno,
Passano leggi al parlamento,
Passano leggi ogni giorno
Per far contento il presidente
Passano leggi ogni giorno
Passano soldi dai loro portafogli,
Passano soldi come l'acqua
Nella cascata di Salino.

Dieci canzoni italiane. (2) Ma chi ha detto che non c'è di Gianfranco Manfredi.



Non mi ero dimenticato delle "dieci canzoni", né loro si erano dimenticate di me; ecco la seconda.

Fortunatamente non siamo in un anno da anniversario; né dieci, né trenta, né quaranta. Il 1977 è passato da degli assai poco attrattivi trentacinqu'anni, trentacinque sembra al massimo il numero di un autobus di periferia e, quando poi l'anno buono arriverà, sarà probabilmente troppo lontano. Allora, in una sera di 35 anni dopo, senza nessuna scadenza, è possibile e doveroso immaginare di sovvertire il tempo; ecco, questa canzone, ad esempio, non è stata scritta trentacinque anni fa, ma sarà scritta fra trentacinque anni. Sarà scritta domani. Il suo titolo, per ora, è Ma chi ha detto che non ci sarà.

Inizia ora un uso spericolato del congiuntivo.

Quell'anno là, del resto, appartiene di diritto al futuro, e persino a un futuro remoto. Immaginarsi un paese, assieme sue città, dove la questione non fosse stata un rifritto cambiamento (una sostituzione di strutture, un fasullo rimescolamento di ordini per produrre poi altro ordine) bensì un passaggio al differente (un superamento autentico, uno scavalco, una corsa verso un ignoto che, invece, si percepiva chiaro), non puo, e non sia potuto mai, attenere al passato. Inutile, a questo punto, andare a interrogare chi ci fosse stato; bisognerebbe una buona volta eliminare le testimonianze, concetto per metà giuridico e per metà ecclesiastico. Occorrerebbe, invece, spostare. Disassare. Disarticolare. Sarebbe necessario applicare la lezione di quel lontano futuro. Ne siamo stati ben lungi; siamo tornati alla normale ripartizione del tempo, dimodoché arriviamo persino a dire -per esempio- che Guy Debord "aveva" ragione. Guy Debord, casomai, avrà ragione; o, meglio ancora, Guy Debord avesse avuto ragione. 

Gianfranco scriverà questa canzone.

Gianfranco Manfredi scriverà, e forse canterà, questa canzone quando tutti noi avremo cessato di aver paura di distruggere. Nel tritacarne andrà messa, per prima cosa, la costruzione forzata con la sua dittatura, col suo fascismo; "non si può distruggere senza sapere che cosa costruire" è la morte di tutto. Bisogna accettare anche l'evenienza del niente, del vuoto, dell'esplosione non ricoperta di cattolicamente appiccicosa speranza. Della semplice distruzione come fondamento necessario del passare oltre. E, infatti, Gianfranco Manfredi scriverà, fra trentacinque anni o quando gli parrà, una canzone squisitamente distruttiva, una fotografia di quel tempo in cui la demolizione sarà finalmente avviata; leggendone il testo e ascoltandola (ché si tratta di un futuro che non ha regole, nemmeno quella di dover essere atteso per la conoscenza), se ne colgono i cardini, i pilastri da abbattere. 

Peccato e Stato.

La parola "fine", chiara e senza ritorno, è riservata a due entità: al Peccato e allo Stato. Il Peccato verso l'inizio della canzone, lo Stato verso la sua conclusione; quasi a voler racchiudere il tutto. Il Peccato e lo Stato sono fatti della stessa pasta; si potrebbe dire che il Peccato è lo Stato di se stesso, un insieme di convenzioni, regole, burocrazie, tasse da esigere e da pagare, imposizioni, scuole, polizie, impieghi e erogazioni che, per tramite di apposite Agenzie (dette perlopiù "religioni" o "chiese", ma non sono detentrici di esclusiva), fungono da capillare apparato di controllo e di repressione dell'individuo. Lo Stato ne è chiaramente l'estensione e l'applicazione (arbitrariamente) collettiva, ma i suoi meccanismi sono identici; il loro legame è pressoché inestricabile. Mettere in discussione e eliminare il Peccato (con le sue morali, i suoi valori, i suoi precetti) mette automaticamente in crisi anche lo Stato; mettere in discussione e eliminare lo Stato (con le sue istituzioni, le sue costituzioni, la sua legalità) mette automaticamente in crisi anche il Peccato. Vengono quindi messi all'opera i tribunali di ogni genere, terreni e ultraterreni; non è quindi opportuno stupirsi più di tanto che, in alcune parti del mondo, siano al potere delle cosiddette teocrazie. Laddove Stato e Peccato sono tutt'uno, anche nella pratica ufficiale, altro non si è giunti che a sancire un dato di fatto che è, in realtà, presente ovunque. Un movimento che voglia realmente operare la distruzione di questo stato di cose dovrà quindi tenerlo presente sempre.

La farcitura del panino.

Quando scriverà questa canzone-sandwich, Gianfranco Manfredi (attualmente, sembra, un vivace bambino di Senigallia che urla alla mamma, di continuo, non è una malattia! anche ricoperto di varicella), una volta tagliate le due fette di pane, occuparsi della farcitura; e sarà una farcitura parecchio ricca, per accompagnare le due fette di pan distrùzio. Altrimenti si eliminerebbe sì, ma con poco gusto; ora, certo, c'è chi dice che il semplice gusto del pane è il migliore che ci sia, ed è indubbio che abbattere il Peccato e lo Stato, di gusto, ne abbia parecchio; però, càspita, un po' di companatico saporito non può starci male e, inoltre, forma l'intero, l'amalgama, l'armonia. Come non metterci una bella ragazza (o un bel ragazzo) senza nessuna limitazione, senza nessun istinto di possesso, senza nessun contratto predefinito? In quella prima strofa (che, peraltro, sembra ripresa quasi di peso dal Cantico dei Cantici, che sarebbe stato uno dei testi basilari della Fine del Peccato se non lo avessero neutralizzato infilandolo nella Bibbia) c'è il primo elemento della farcitura; ci sono poi il sogno, il mitra, la rabbia...e tutta l'espressione, minuziosa, della distruzione. 

Il sogno realizzato

Si può, sicuramente, ascoltare questa canzone come se fosse già stata scritta (e lo sarà, non se ne dubiti, lo sarà); oppure, dato che tra i suoi vari abbattimenti presenta anche quello dei piani di fruizione, la si può immaginare in tutti i suoi elementi costitutivi. In pratica, la si può sognare; un sogno, però, che non sia fine a se stesso. Un sogno che comporti un tentativo di realizzazione ad ogni livello; ed esistono forse sogni la cui realizzazione possa prescindere da un mitra? Come ebbi una volta a dire ad un amico privo di patente di guida e che, spesso, recita un divertente monologo in cui dice che la rivoluzione arriverà in bicicletta: sì, d'accordo, però accanto alla bicicletta un paio di carri armati muniti dei più moderni optionals e qualche veloce automobile col bagagliaio pieno di AK 47 potrebbe dare una mano non indifferente. Può prescindere, la realizzazione del sogno, dalla rabbia come espressione, al tempo stesso, di liberazione e di coscienza? La gabbia (che va generalmente sotto il nome di galera, in tutte le sue possibili accezioni) può restare in piedi in un sogno del genere? E' possibile sognare, e sognare di realizzare, con una scuola che è, di per sé, anticipo della galera e preparazione alla schiavitù del lavoro? Ed è possibile osservare generazioni intere che piangono, strepitano, geremizzano e si addannano per reclamare schiavitù, non accorgendosi (o fingendo di non accorgersi) che niente passa e può passare dalla sua cadavericamente eterna riproposizione, mentre tutto dovrebbe e potrebbe passare dal suo categorico rifiuto? Dalla cessazione della produzione capitalistica? E le mille paure e i diecimila terrori in cui ci hanno ingabbiati come nell'ennesima galera? Il sogno da realizzare passa anche dalla distruzione totale della paura, dall'aprire la porta perché la porta è la mente e la mente spara quanto un mitra lucidato, se ben caricata e ben usata.

Millenovecentosettantaquarantadue

In quest'anno millenovecentosettantaquarantadue, trentacinque anni prima della sua composizione, questa canzone di Gianfranco Manfredi ci racconta anche di talpe che lavorano; si sarà probabilmente riferita, la canzone, ai simpatici e normalissimi animaletti campestri e non a certi complessi ed enormi macchinari che dovevano scavare, nel nostro tempo che allora sarà allora, gallerie nelle montagne per inutili treni superveloci. Tra trentacinque anni vigerà, del resto, il principio della superlentezza; e si vedrà Enzo Del Re tirare un colossale sbadiglio, svegliarsi dopo una favolosa dormitona, chiedere un caffè bello carico e pigliare la sua sedia. Nessun rumore di fabbrica all'intorno; in qualche museo verranno esposti gli scheletri ricostruiti di feroci animali preistorici, il Marchionnes Pulloverovestiens, il Camussus Pomilianus Vulgaris e il Phornerosaurus Plangens. Tutto appare chiaro e declinato: si tratta di una storia del futuro. Lo si dice espressamente nel testo della canzone, indicando a noialtri, titolari di un presente senza storia, alcuni efficaci ed opportuni metodi per arrivarci sul serio, a tale futuro;  prendersi la merce e quanta ce ne serve, al tempo stesso liberando spazio utile per l'amore e liberandoci dall'economia di merda; avere la pelle sempre più nera, da oppore al pallore mortale dei razzisti schifosi di ogni tipo; essere sempre più devoti a S. Pietrino, magari cercando di allenarsi e migliorando sempre la mira; dare fuoco a Milano, magari un diciassette d'aprile in via Mancini; prendere i gipponi a pietrate ben assestate; e ricominciare a fare la bùa a fasci, fascistelli e fascistoni vari, intendendoli magari nel senso più lato possibile. Non soltanto, insomma, quelli iconografici e quelli del "terzo millennio" (ricacciandoli casomai nel terzo millennio avanti Paperinik). Però non bisogna star lì a aspettare che accada tra trentacinque anni, e che il bimbo di Senigallia cresca; bisognerebbe darsi da fare, immediatamente. 

Quasi una conclusione.

Ma chi ha detto che non ci sarà? Io, queste cose, comincio a non capirle davvero più; e mi ci sto dannando l'anima, realmente. Comincio a desiderare di buttare le nostalgie in un pozzo assieme ai loro sacerdoti, e ad aver voglia costante di pagine bianche. Ha funzionato la memoria? O, piuttosto, non è stata, sì lei, costretta in un bugigattolo proprio da coloro che dicono di preservarla? Il loro bugigattolo guardato a vista, dove si entra solo con estrema difficoltà e previo accurato esame di idoneità? In cui l'esserci stato è un discrimine invalicabile? Quando questa canzone sarà scritta, non dovrà produrre angustezze, ma aperture. Mai una porta chiusa. Starà nel fondo dei nostri occhi e sulla punta delle nostre labbra; e ci sarà. Sì che ci sarà. E, forse, c'è già e ce ne siamo dimenticati, oppure abbiamo preferito appiccicarle sopra un'etichetta con un numero scordando che i numeri non hanno mai fine.

Sta nel fondo dei tuoi occhi
sulla punta delle labbra
sta nel corpo risvegliato
nella fine del peccato
nella curva dei tuoi fianchi
nel calore del tuo seno
nel profondo del tuo ventre
nell'attendere il mattino

Sta nel sogno realizzato
sta nel mitra lucidato
nella gioia nella rabbia
nel distruggere la gabbia
nella morte della scuola
nel rifiuto del lavoro
nella fabbrica deserta
nella casa senza porta

Sta nell'immaginazione
nella musica sull'erba
sta nella provocazione
nel lavoro della talpa
nella storia del futuro
nel presente senza storia
nei momenti di ubriachezza
negli istanti di memoria

Sta nel nero della pelle
nella festa collettiva
sta nel prendersi la merce
sta nel prendersi la mano
nel tirare i sampietrini
nell'incendio di Milano
nelle spranghe sui fascisti
nelle pietre sui gipponi

Sta nei sogni dei teppisti
e nei giochi dei bambini
nel conoscersi del corpo
nell'orgasmo della mente
nella voglia più totale
nel discorso trasparente.

ma chi ha detto che non c'è
ma chi ha detto che non c'è

Sta nel fondo dei tuoi occhi
sulla punta delle labbra
sta nel mitra lucidato
nella fine dello Stato

c'è, c'è. sì che c'è.
ma chi ha detto che non c'è.

mercoledì 19 settembre 2012

Gente serissima


In Toscana, i giorni dell'apertura della caccia sono detti familiarmente Cognato Days. Sono i giorni più letali per i cognati, che vengono regolarmente scambiati per beccacce e sparati via senza tanti complimenti, durante le battute iniziali, dai congiunti coi quali si recano ne' boschi e ne' campi a esercitare la loro grande serietà. E' una costante che non ammette eccezioni; la quantità di cognati toscani che sono passati brutalmente dallo status di cacciatori a quello di selvaggina è altissima. Resta naturalmente il mistero di come mai l'incidente di caccia colpisca particolarmente i cognati (anche se, va detto, tra le vittime non mancano gli amici ed altri componenti del parentado); ma è un dato di fatto. Se qualcuno volesse farci sopra un film, il titolo sarebbe bell'e pronto: Ho sposato una quaglia. La voce narrante sarebbe ovviamente la sposa dello sparato, la quale si è ritrovata appunto, da un momento all'altro, il marito trasformato in volatile e abbattuto assai poco cerimoniosamente da suo fratello.

Stamani, però, nelle foreste proprio sopra Firenze si è verificata una variante assai tragica. Essendo momentaneamente assenti i cognati, verso le cinque e mezza del mattino di questa giornata grigia e piovosa un padre ha sparato al figlio, ammazzandolo sul colpo. La caccia, come si sa, si tramanda sovente di padre in figlio perché l'educazione della progenie, fin dalla più tenera età, prevede che si diventi òmo quando si comincia a sparare addosso a tutto quel che si muove in campagna. E i cacciatori, come recita lo slogan di un famoso manifesto della Federcaccia Toscana che ha impestato tutte le nostre città negli ultimi tempi sono gente seria. Lo potete vedere nell'immagine a corredo: un gruppo di persone colte nella loro "normalità" (cioè non vestite da guerriglieri della Sierra Madre e armate fino ai denti), con nome, cognome e professione. Novità: ci sono anche un paio di donne. La strategia di comunicazione della Federcaccia deve avere avuto l'idea geniale: poiché, non di rado, la caccia viene intesa come un'attività prettamente "maschile", con le mogli che si limitano a preparare il cestino ad ore antelucane e, poi, a acconciare e cucinare le ambite prede, noi cosa ci infiliamo? Me le cacciatrici, perdiana! E che credete, che le donne non vengano a caccia? Che non ci siano anche delle cognate, fra di loro? 

Le professioni, chiaramente, rimandano alla cosiddetta parte sana del "paese"; gente che lavora, quelli che mandano avanti l'azienda e che, nel tempo libero, si dedicano ad una passione che porta a contatto con la natura. E così ecco l'Astoni Flavio, artigiano, accanto all'albergatore Nencini Mario (con la speranza che non spari ai suoi ospiti); ecco l'avvocato Bartali Andrea, bravissimo ad appostarsi nelle vicinanze del tribunale, assieme all'aiuto cuoca Michelassi Carla, che col lavoro che fa mette direttamente in pentola quel che ha catturato. Si noti che sono state scelte persone la maggior parte delle quali porta i più tipici cognomi toscani (Nencini, Michelassi, Bartali); il messaggio che vuole passare è che la Toscana è praticamente connaturata con la caccia, e che le persone serie vanno a sparare alle lepri e ai beccaccini, usufruendo di una legislazione che permette loro di fare ciò che vogliono. 

Scorrendo però una qualsiasi statistica degli incidenti di caccia, come ad esempio questa, tutta codesta serietà viene "leggermente" ad essere messa in dubbio; e sono dati che fanno rimanere basiti. Solo nella stagione venatoria 2010-2011, ad esempio, sono morti 34 cacciatori oltre ad un poveraccio che stava cercando funghi. Feriti 61 cacciatori, oltre ad altre 13 persone che, come il fungaiolo di cui sopra, non c'entravano nulla. Riguardo a tutta questa gente seria, come si compiace di autodefinirsi e pubblicizzarsi con tanto di dati anagrafici, si usano parole come imperizia, imprudenza, goffaggine quando non arroganza e spregio delle norme di sicurezza; e ne hai voglia di arroganza e spregio, quando questi qui possono tranquillamente detenere e usare armi da fuoco in aree condivise con altri, spesso non sapendo neppure usarle o usarle parecchio male. Poi si fanno le geremiadi e le articolesse sugli americani che comprano le armi al supermercato e fanno le stragi nelle scuola e nei cinema, tollerando però che parecchia gente (e massimamente in Toscana) scorrazzi liberamente per ogni dove (anche nei terreni privati) sparando all'impazzata. 

Interessante scorrere la pagina linkata; vi si afferma, ad esempio, quanto segue.  "Ci sono problemi di educazione: la formazione richiesta per utilizzare un'arma è evidentemente insufficiente. Ci sono problemi culturali: per chi considera la caccia uno 'sport', il fucile e' un 'attrezzo sportivo' assimilabile a una mazza da golf o a una racchetta da tennis. Ci sono problemi psicologici: un'arma in mano fa sentire molta gente potente e padrone del mondo che la circonda, così come l'eccitazione della caccia può travolgere le persone coi nervi meno saldi. C'è un problema generazionale: le file dei cacciatori italiani sono da gerontocomio. Dà fastidio, evidentemente, alle associazioni venatorie e al Comitato Nazionale Caccia e Natura-CNCN (sigla di comodo che pomposamente cela un raggruppamento dei principali produttori italiani di munizioni) che la LAC assembli in modo organico i dati di tutti gli incidenti di caccia che provocano vittime (morti e feriti) tra i cacciatori stessi e tra cittadini fruitori degli ambienti naturali, che si trovano coinvolti da pallini e proiettili vaganti, sottoprodotto di questo cosiddetto "sport".

Ecco quindi le "campagne di sensibilizzazione e promozione" della Federcaccia, ospitate generosamente su muri, pubblicazioni, siti Internet e trasmissioni radiofoniche. Di soldi, del resto, questi signori ne hanno, così come di sponsor e protettori altolocati.  Mi piacerebbe però, almeno una volta, riuscire a sapere che cosa pensi del suo intoccabile "sport" quel signore che, oggi, ha mandato all'altro mondo il proprio figlio; un'imprudenza, certo, o meglio una fatalità. Ma chissà se ripenserà alla gente seria di cui gli dicevano di far parte, chissà se inveirà ancora contro i maledetti anticaccia, chissà se dirà ancora al bar, con gli amici, cose del tipo: "Se vietano la caccia me ne vado via dall'Italia" (cosa sentita coi miei orecchi). Davvero gente serissima, questi cacciatori; i quali, comunque, non hanno purtroppo nulla da temere e, anzi, possono contare su regolari e ulteriori allentamenti della legislazione (per poi, però, avere il coraggio persino di lamentarsi che "ormai non si può andare più a caccia", poverini). Hanno amichetti a destra e a "sinistra"; hanno l'industria delle armi che li protegge; hanno tutto quel che desiderano, 'sti superseri, però sentono anche il bisogno di pigliare per il culo il prossimo con le loro campagne pubblicitarie e i loro cartelloni di quindici metri piazzati da tutte le parti.

E, allora, se proprio vi piace così tanto, sparatevi pure addosso. Continuate pure a fare quel che vi pare, ché tanto nessuno oserà mai seriamente contrastarvi, ma non sognatevi di cercare comprensione e pietà, perché siete solo dei poveri coglioni con il passatempo dell'assassinio.

martedì 18 settembre 2012

Μία φάτσα, μία ράτσα!


Πάει με το ποδήλατό του μες στη κυκλοφορία
και σφυρίζει γερά και με αυθάδεια,
το βάρος που του λυγίζει τα πόδια είν' η αδικία,
σκληρή η ζωή για τον Ντάντε ντι Νάννι,
σκληρή η ζωή για τον Ντάντε ντι Νάννι.

Στην αυγή παίρνει το τρένο και βρομάει χοιροστάσιο
στα πεζοδρόμια της υπομονής του,
στο κεφάλι έχει τόμους γεμάτους ψέματα,
βράδυ σπουδάζει ο Ντάντε ντι Νάννι
βράδυ σπουδάζει ο Ντάντε ντι Νάννι.

Τριάντα χρόνια πέρασαν απ' όταν οι φασίστες
ήρθαν εκατό για να τον σκοτώσουν,
κι εκατό φορές τον σκότωσαν, μα τον βλέπεις ακόμα,
γυρίζει στην πόλη ο Ντάντε ντι Νάννι
γυρίζει στην πόλη ο Ντάντε ντι Νάννι.

Τον είδα ένα πρωί που πήγαινε στο μετρό,
κι αιμορραγούσε και χαμογελούσε,
ολόγυρα στα πρόσωπα κούραση κι αμφιβολία
αλλ' όχι σ' αυτό του Ντάντε ντι Νάννι,
αλλ' όχι σ' αυτό του Ντάντε ντι Νάννι.

Τριάντα χρόνια πέρασαν απ' όταν οι φασίστες
ήρθαν εκατό για να τον σκοτώσουν,
κι ακόμα δεν αισθάνονται ήσυχοι γιατί ξέρουν ότι
γυρίζει στην πόλη ο Ντάντε ντι Νάννι,
γυρίζει στην πόλη ο Ντάντε ντι Νάννι.


sabato 15 settembre 2012

Roberto Roversi, 1923-2012


Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano;
correva il Novantotto, oggi è un anno lontano.
I cavalli alla Scala, gli alpini in piazza Dom.
Attenzione:
cavalleria piemontese, gli alpini di Val di Non.


Chi era Humbert le Roi? Comandava da Roma;
folgore della guerra, con al vento la chioma.
La fanteria stava a Mantova, i bersaglieri sul Po.
Attenzione:
fanteria calabrese, i bersaglieri di Rho.


E chi era Nicotera, ministro dell'interno?
Sole di sette croci e fuoco dell'inferno.
All'Opera il Barbiere, cannoni a Mergellina.
Attenzione:
spari capestri e mazze da sera alla mattina.


Di pietra non è l'uomo
l'uomo non è un limone
e se non è di pietra
non è carne per un cannone.

Cavallo di re
la figlia di un re
l'ombra di un re
e la voglia di un re.
Soltanto chi è re
può contrastare un re.

Il gioco dei potenti
è di cambiare se vogliono
anche la corsa dei venti.

E i limoni a Palermo? Pendevano dai rami,
coprendo d'ombra il sangue di poveri cristiani.
Chi era Pinna? Un questore, a Garibaldi amico.
Attenzione:
fucilazioni in massa, dentro al castello antico.


E la tassa sul grano? Tutta l'Emilia rossa
s'incendia di furore, brucia nella sommossa.
Stato d'assedio, spari, la truppa bivacca.
Attenzione:
lento scorreva il fiume da Cremona a Ferrara.


Che nome aveva l'acqua trasformata in pantano?
Macello a sangue caldo di popolo italiano.
Un'intera brigata decimata sul posto.
Attenzione:
i soldati legati agli alberi, agli alberi del bosco.


L'uomo non è di pietra
l'uomo non è un limone
poichè non è di pietra
neppure è carne da cannone.

Quando la vecchia
carne voleva
il macellaio
fu presto impiccato;
e un re da cavallo
è anche sbalzato
e in mezzo al salnitro
precipitato,
come al tempo
del grande furore
quando il vecchio imperatore
a morte condannava
chi faceva l'amore.

Sei le colonne in fila, il gioco è terminato.
Nel bel prato d'Italia c'è odore di bruciato.
Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende.
Attenzione:
dentro ci siamo tutti, è il potere che offende.


venerdì 14 settembre 2012

Sonni tranquilli


Stamani, come al solito, ci siamo svegliati con delle galere.

Le galere sono quelle cose che tolgono il sonno a parecchi, a cominciare naturalmente da chi viene svegliato all'alba, prelevato e portato via.

Però, stavolta, tutti sembrano dormire sonni parecchio tranquilli.

Dormono sonni tranquilli (**), ad esempio, i veri anarchici, quelli col copyright della sigla, quelli delle belle rivistine in carta patinata, quelli che si sono subito chiamati fuori, quelli che non hanno aspettato nemmeno un momento per tirare bastonate con tutta la nonviolenza di cui sono capaci, quelli della delegittimazione a gogò, quelli il cui primo pensiero (e anche il secondo, e poi pure il terzo) è stato che si trattasse di questurini.

Dormono sonni tranquilli i militanti, e si ronfa beatamente all'Askatasuna e da qualche altra parte, da dove sono piovute scomuniche a base di avanguardismo, lezioni magistrali sul cui prodest, analisi profonde più dell'abisso Vitjaz e selve di ditini puntati.

Dormono sonni tranquilli i famosi blogger con l'hobby della grafica, quelli che da due scarabocchi decidono che tutto deriva dal simbolo di Casapound; e anche quelli con l'hobby della galera, quelli che tre minuti dopo l'arresto per il lancio di uova, o per il sassolino tirato agli sbirri in Valsusa, o per la rete tagliata, o per la camionetta o il bancomat incendiati un quindici ottobre di duemila anni fa, o per qualche altro stracatacazzo di cosa per cui si finisce al gabbio in questo periodo, sono già in pista con la solidarietà e i liberi tutti.
Il problema è che, stavolta, i due che hanno arrestato non hanno lanciato uova. Non hanno tirato sassi e tagliato reti. Non hanno nemmeno incendiato una camionetta o un bancomat. No, hanno sparato. E quando c'è qualcuno che ha sparato, è necessario starsene a dormire belli tranquilli.

Di fronte allo sparo, si comicia prima con il rinchiudersi nelle proprie belle gabbiette, che non di rado sono più ermetiche, che so io, di una galera.

La solidarietà nei confronti di chi va in galera per aver sparato è, del resto, sempre a scoppio parecchio ritardato. Esprimerla poche ore dopo degli arresti può essere parecchio pericoloso, non ci fosse bell'e pronto il Gip o il Procuratore che pensa subito male. 

La solidarietà nei confronti di chi ha sparato deve aspettare dieci, venti, trent'anni. In questo paese ci sono parecchi che hanno sparato, mirando sovente ben più in alto e con maggiore precisione di un disoccupato e di un tipografo. Allora si può esprimerla tranquillamente, dopo belle dormite, magari quando gli sparatori sono già sortiti dal carcere da anni. Si fanno i ricordi commoventi quando muoiono per qualche malattia, si continua a tuonare contro la galera, si scovano torturatori e torturati, si leggono avidamente i libri su chi certe azioni le ha pagate non solo con la galera, ma con la vita.

Ma tutto questo accade sempre un bel po' dopo.

Del resto, i due arrestati di Torino non hanno in realtà tutta codesta attrattiva. La avrebbero avuta, forse, se stamani, invece di essere volgarmente arrestati, fossero stati ammazzati tutti e due. Chi compie certe azioni può sperare in un po' di solidarietà soltanto se muore male o si suicida (magari in galera). E questo non sarebbe possibile, dato che in realtà sono già stati copiosamente ammazzati proprio da coloro che, in teoria, avrebbero dovuto esprimere loro solidarietà.

(Se se ne volesse una controprova, basta andare a controllare in Rete quante attestazioni di solidarietà siano state e siano formulate a una prigioniera viva come Nadia Desdemona Lioce, fra le altre cose sottoposta al 41 bis; molto più facile trovarne per Diana Blefari Melazzi, che però ha dovuto essere suicidata).

E continuano i sonni tranquillissimi.

Stavolta, a far dormire tutti benissimo, ci pensa persino Giancarlo Caselli; lui sí che è sveglio.

Dichiara subito, infatti, che i due anarcoinsurrezionalisti arrestati di Torino, Cospito e Gai, non hanno nulla a che fare con il movimento NO TAV, sebbene vi siano alcune "contiguità di linguaggio"; Caselli non poteva non approfittare di questa occasione per fare il magistrato democratico confermando ciò che già dicevano (anzi, imploravano) disperatamente anarcazzi vari, movimenti, pacifistole anali, scomunicatori e quant'altri. Con noi non c'entrano niente! Bene, ora che con loro non c'entrano niente glielo dice pure Caselli; così sono tutti contenti, i violenti non abitano qui e si può ricominciare tranquilli a sdraiarsi sui binari e sulle autostrade, facendo però attenzione a non arrampicarsi sui tralicci inseguiti dai rocciatori, perché anche quello può essere un po' troppo controproducente o avanguardista.


E così, dopo una bella dormita, si può ricominciare a fare quel che più ci piace.

Esprimere vagonate di solidarietà agli arrestati a Rovereto, a Città del Messico, a Lahore, a Wellington, a Teramo, a Sarcazzo di Sopra; basta che si siano guardati bene dal pigliare una pistola in mano troppo di recente, quella vale soltanto se l'hai presa nel 1978. E le pistole del '78, oramai, sono un ammasso di ruggine.

Continuare, se possibile, l'opera di distruzione; esseri solitari, individualisti, poveri deficienti, invasati, fuori dal mondo, nemici del movimento e dell'organizzazione; magari con qualche bel però, che ci sta sempre bene. Faccio un esempio classico: Sì, certo, sono in galera, libertà, abbattere le galere, lìbbberi tutti, solidarietà a chiunque va in carcere, però...

Però, va da sé, la pistola in mano non dovevano pigliarla. Va bene il sanpietrino, la mazza da baseball, il Pinocchio di legno, l'estintore, persino la molotov; ma la pistola no. La pistola serve a una cosa sola; cosa avete capito, serve a eliminare la solidarietà e a far ribadire accoratamente cose del tipo che la FAI è una sola. Lungi da me dire che serve a sparare addosso, sennò mi tocca ritirar fuori quel controproducente avanguardista isolato e antimovimentista di Gaetano Bresci. Oppure il Malatesta che se ne andava nel Matese a dire ai contadini i fucili e le scuri ve li avimo dato, i curtelli li avite, se vulite facite, sennò vi futtite. Oppure quelli che si sgolano coi Monti di Sarzana scordando forse cosa aveva tentato di fare il Lucetti da cui aveva preso nome il battaglione.

Ma questi qui non sono mica Bresci, Malatesta o Lucetti. Sono un disoccupato e un tipografo con una pistola che, fra l'altro, non si trova. Se la saranno mangiata, chissà.

Poi non hanno mica sparato al re d'Italia o a Mussolini, e nemmeno sono andati a sollevare i contadini meridionali; hanno, almeno così dicono, sparato a un'insignificante stronzetto di manager. Vuoi mettere con tirare un uovo o un petardo a Bonanni, ché, poi, ti mandano in galera lo stesso ma facendo il pieno di solidarietà.

Nel frattempo sono in galera da stamani, e tutti quanti dormono saporitamente.

Per forza, domattina c'è da fare il trekking a Chiomonte e bisogna riposarsi.

Però il sottoscritto, disgraziatamente, soffre d'insonnia cronica.

Alfredo libero. Nicola libero.

(**) Con la sola eccezione, almeno per ora, degli Anarchici Pistoiesi. Ma non me ne stupisco affatto.

giovedì 13 settembre 2012

Roma: cel ce s-a întâmplat lui Michela ne priveşte pe toate


Quel che è successo a Michela, la sex worker rumena aggredita e bruciata a Roma, riguarda tutte e tutti. Vorrei dirlo in un modo che possa essere anche di qualche utilità, traducendo in lingua rumena un breve articolo proveniente da Femminismo a Sud. L'originale in italiano si trova qui. Anche un modo, spero, per esprimere a Michela una vicinanza profonda.

Chestiunea prostituţiei nu este ceva care poate să ne fie străin. Este un rol curativ, ca şi pentru îngrijitoare, care se inserează într-un târg în care femeile acestea sunt criminalizate şi există spaţiu pentru exploatare, şi discriminare dacă sunt străine.

Cel ce s-a întâmplat la Roma este foarte serios şi, aşa cum noi am zis oricând am luat umbrele roşii şi am demonstrat împreună cu muncitoarele sexuale, chestiunea ne priveşte pe toate.

Michela nu este numai o prostituată românească. Nu-i o problemă de ordin public. Nu reprezintă degradarea în capitală. Degradarea sunt politicianii care profită de aceste tragedii pentru a continua propaganda împotrivă străinilor (românilor) şi pentru a stigmatiza şi a marginaliza pe prostituate.

Michela este toate noi. Şi lui Michela îi facem cele mai bune urări şi îmbrăţişări sperând să supravieţuiască şi încă să respire.

La FemBlogCamp la Livorno (http://feministblogcamp.noblogs.org/) se va face între alte lucruri un laborator pe un SlutWalk. Pentru ce, în Italia, un SlutWalk e de folos. Pentru Michela şi pentru toate nouă.

mercoledì 12 settembre 2012

Ultras, Cavalli, Cristi, Imperatori, Rivolte


1. Introduzione

È la mattina dell' 11 gennaio dell'anno 532 nell'Ippodromo di Costantinopoli.

Una folla enorme è assiepata sugli spalti dell'enorme circo bizantino, la cui costruzione era iniziata, si dice, sotto il regno di Settimio Severo. Le corse dei carri sono, a quell'epoca nell'Impero Bizantino, ciò che per noi è adesso il calcio: sport e droga al tempo stesso, catalizzatrici di interessi economici di entità spaventosa, commistione profonda e totale con le fazioni politiche e religiose. I migliori conduttori di carri sono strapagati e contesi a vagonate d'oro nonché, naturalmente, idolatrati come semidei. Il passaggio di un auriga di grido alla fazione rivale è visto come un tradimento da lavare, se necessario, col sangue. Come si può vedere, i meccanismi attuali sono tutti già presenti; cambia soltanto lo sport, ma la cosa è di secondaria importanza. A Costantinopoli, sembra, vengono redatte ben due ἐφημερίδες dedicate alle corse dei carri, che vengono affisse ai muri e in spazi appositi creando ovunque assembramenti; l'importanza di tale sport è tale, che l'Ippodromo, situato nella parte meridionale della penisola costantinopolitana, non lontano dall'imbocco del Corno d'Oro, comunica direttamente con l'allora Palazzo dell'Imperatore, che allora non si era ancora trasferito alle Blacherne. E' stata, questa, una novità voluta proprio dall'attuale Imperatore, vale a dire Giustiniano. L'Imperatore e la sua corte possono passare immediatamente dal Palazzo alla tribuna imperiale dell'Ippodromo. Non lontano, sorge la principale chiesa della città e dell'intero Impero: la basilica di Santa Sofia. Dedicata non ad una santa, ma alla Divina Saggezza (Ἀγία Σοφία), si tratta in realtà della seconda costruzione che aveva preso il posto di quella primitiva, la "Grande Chiesa" (Μεγάλη Ἐκκλησία) inaugurata e consacrata il 15 febbraio 360 sotto il regno di Costanzo II dal vescovo ariano Eudossio di Antiochia. Nel secolo successivo, l'imperatore Teodosio II la fa ampliare e, in pratica, rifare; la nuova basilica, progettata dall'architetto Rufino, viene consacrata il 10 ottobre del 415 e ha un tetto in legno.

La costruzione della "Seconda Basilica" di Santa Sofia dal codice di Manasse.

Le fazioni ultras in cui la Polis era divisa erano in origine quattro, e prendevano nome, come più tardi nel Calcio Fiorentino, dal colore delle casacche indossate dagli aurighi durante le corse: Verdi (Πράσινοι), Bianchi (Λευκοί), Rossi (Ῥούσσοι) e Azzurri (Βένετοι). Quest'ultimo nome corrispondeva con quello dei Veneti (Vénetoi). Col tempo, le due fazioni dei Verdi e degli Azzurri avevano eliminato le altre; nel 532 Costantinopoli era in mano a queste due fazioni.

2. Azzurri e Verdi.

Le due fazioni degli Azzurri e dei Verdi, come ogni fazione ultras, si contrapponevano fisicamente all'interno dell'Ippodromo, con scontri violentissimi che venivano sedati a fatica dalle Guardie di Palazzo; ma, a differenza di adesso, le corse coi carri non erano affatto un evento quotidiano a Costantinopoli. Se ne tenevano soltanto dieci o undici sessioni all'anno, che duravano una giornata intera a partire dal primo mattino; in questo, anche per la loro solennità e attesa spasmodica (e anche per la loro natura), il paragone più immediato è forse col Palio di Siena. A nessuna delle sessioni mancava la coppia Imperiale.

Ben presto, le fazioni cominciarono ad essere associate alle dispute religiose, e già nella prima età bizantina avevano assunto una forte connotazione politica e si erano, di conseguenza, militarizzate. Va da sé che, altrettanto presto, erano state utilizzate pesantemente nella vita politica di Costantinopoli; in cambio, avevano specialissime agevolazioni e ricevevano compensi notevoli e incarichi di prestigio, a cominciare dall'ambito degli spettacoli. Insomma, nulla che non abbiamo ancora adesso sotto gli occhi.

I Verdi parteggiavano per il Monofisismo, vale a dire la forma cristologica (formulata nel V secolo da Eutiche, patriarca di Costantinopoli) secondo la quale la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina, e quindi in lui era presente soltanto la natura divina. Politicamente, i Verdi radunavano i sostenitori di due nipoti di Anastasio I, che erano diventati i capi di una forte opposizione legittimista; in pratica, formavano una fazione Aristocratica, detta dei Contribuenti.

Gli Azzurri, o "Veneti", venivano detti i Miserabili e formavano, in pratica, il Partito Popolare. Erano forti sostenitori dell'Imperatore Giustiniano, dal quale erano coccolati, blanditi, utilizzati e, soprattutto, protetti con la più totale impunità nei loro numerosi atti di violenza. Giustiniano e la moglie Teodora erano stati loro capi, e avevano addirittura sfruttato le turbolenze di piazza (da loro spesso fomentate) per ascendere al potere. Come spesso accade, una volta conquistato il trono si erano proclamati immediatamente "sovrani di tutti" e avevano deciso di porre un freno all'indipendenza delle fazioni. 

La stessa imperatrice Teodora veniva direttamente da quell'ambiente; era figlia, infatti, del guardiano degli orsi dell'Ippodromo, una modestissima carica che il padre aveva ottenuto proprio perché legato alla fazione dei Verdi. La madre era invece una danzatrice che recitava in spettacoli osceni; la si potrebbe paragonare a una danzatrice del ventre o, come si dice ora, a una lap dancer. Alla morte del padre, la madre di Teodora si risposò, convinta che i Verdi avrebbero fatto ottenere anche al nuovo marito il posto di guardiano degli orsi; l'impresario addetto si lasciò però corrompere a suon di soldoni, e affidò il posto ad un altro. I Verdi ignorarono le proteste di Teodora e della madre, le quali si rivolsero agli Azzurri, che le appoggiarono. Teodora fu quindi legatissima agli Azzurri; il patriarca Timoteo di Alessandria, la convertì al Monofisismo.

Giustiniano era fautore di una politica del tutto lassista nei confronti degli Ultras, che facevano letteralmente quello che volevano. I Verdi erano "specializzati" in azioni di gruppo, attaccando la fazione rivale in formazione militare; gli Azzurri, invece, compivano anche delitti e vendette personali. Costantinopoli era divenuta la città più violenta del mondo, e veniva letteralmente devastata. Come è assolutamente logico e del tutto moderno, i Verdi e gli Azzurri avevano preso a distinguersi anche nell'aspetto esteriore e nell'abbigliamento; gli Azzurri portavano i capelli alla maniera dei Barbari, con la frangia sulla fronte, le tempie rasate e la chioma lunga sulla nuca (che veniva detta "alla Unna", κατὰ τῶν Οὑννῶν); tenevano inoltre barba e baffi alla maniera persiana. Quanto agli abiti, tenevano le maniche serrate sul polso e rigonfie sulle spalle. Quando si vedono ora, negli stadi e fuori, gruppi di Ultras calcistici chiamarsi Barbarians o cose del genere, esiste quindi un preciso e antichissimo legame storico; tra i "Barbari" e gli Ultras sportivi deve sempre essere stata avvertita un'identità. Ovviamente giravano tutti armati, con pugnali a doppio taglio legati alla gamba ed altre armi nascoste nei mantelli; ce lo raccontano non storielle, ma uno storico del calibro di Procopio di Cesarea nella sua Historia Arcana. Di notte, le fazioni si riunivano in bande e percorrevano strade e vicoli della città rapinando tutti coloro che incontravano e ammazzando chi li aveva riconosciuti e poteva denunciarli. Poiché gli Azzurri, appoggiati dall'Imperatore, godevano della più larga impunità, molti Verdi, per comodità e per paura, avevano cambiato bandiera; a Costantinopoli era diventato pericolosissimo essere un Verde, a rischio spesso della vita.

3. Sale la rivolta.

Giustiniano, come detto, essendo l'Imperatore di tutti e desiderando porre un freno al degrado della città, nella quale non c'era la benché minima sicurezza e che era suddivisa in quadrilateri della paura (un giornale come "La Nazione" avrebbe imperversato nella Costantinopoli dell'epoca...), diede ordine di agire al prefetto, che non era però Paolo Padoin o roba del genere. Il prefetto si chiamava Eudemone (Εὐδαίμων), nome che potrebbe tradursi con "Felice", il quale agì con zelo e fece compiere un'autentica retata di Ultras delle due fazioni. Sette di essi erano colpevoli di omicidio, e Eudemone li fece appendere per il collo (alcuni direbbero: impiccare) nel sobborgo di Sika, sul Corno d'Oro, sabato 10 gennaio dell'anno 532.  Due di essi, però (un Verde e un Azzurro), si erano miracolosamente salvati; in pratica, la corda si era spezzata. Si rifugiarono immediatamente nella chiesa di San Lorenzo, appoggiati dai titolari, i monaci di San Conone. Vigeva allora la consuetudine della clemenza riservata a chi si era rifugiato in date chiese; in particolare, il condannato che riusciva a chiudersi in Santa Sofia non poteva essere toccato. I soldati del prefetto Eudemone li attendevano fuori dalla chiesa, e le fazioni rivali rivolsero all'Imperatore una richiesta congiunta di clemenza, che Giustiano però ignorò totalmente.

La mattina della domenica successiva, l'11 gennaio 532, iniziarono le corse dei carri previste nell'Ippodromo; se ne dovevano correre ventiquattro nell'arco dell'intera giornata. L'atmosfera, visti gli avvenimenti del giorno precedente, era pesantissima; ma con una novità assoluta. Le due fazioni dei Verdi e degli Azzurri, infatti, si erano coalizzate contro Giustiniano. I Verdi perché già a lui avversi, e gli Azzurri per il trattamento loro riservato dopo che lo avevano, letteralmente, piazzato sul trono. 

Non c'era soltanto questo, ovviamente; già prima dell'episodio del 10 gennaio, le due fazioni erano in agitazione per le vessazioni di due funzionari imperali, Triboniano e Giovanni di Cappadocia (quest'ultimo prefetto del pretorio e responsabile, quindi, della tassazione necessaria per il mantenimento della corte Imperiale e per i non pochi e costosissimi capricci dell'imperatrice Teodora). I due erano, peraltro, importanti giuristi; a loro si deve, ad esempio, gran parte della redazione del Codice Giustinianeo. Erano però accusati di fare mercato della giustizia, modificando le leggi a pagamento e per convenienza (non so come mai, ma mi ricorda qualcuno...) e distraendo nelle proprie tasche i fondi delle finanze pubbliche. Si riteneva che nulla di pubblico, oramai, potesse non essere pagato due volte; la tassa allo Stato e la "mancia" all'esattore, per evitare tassazioni maggiori o la minaccia di rigorosi controlli "ad hoc". Da tutte le parti si chiedeva la destituzione di Triboniano, di Giovanni di Cappadocia e del prefetto Eudemone; e Giustiniano rivelò qui tutta la sua debolezza. Dopo aver spinto infatti gli Azzurri per proprio tornaconto ed aver garantito loro l'impunità, all'improvviso passò al giro di vite e alla tolleranza zero. A questo punto, la rimozione dei funzionari sarebbe però stata un atto di debolezza e l'ennesimo voltafaccia; ma Giustiniano, spaventatissimo, non ci pensò due volte e li cacciò.

4. La rivolta di Nika.


In questa situazione, si arriva all'inaugurazione della sessione di corse ippiche dell' 11 gennaio 532. All'entrata dell'imperatore Giustiniano e di Teodora, onoratissima sposa che Dio gli aveva dato, si levarono fischi, proteste, slogan di ribellione e infine un solo grido, un solo allarme: Νίκα, νίκα. Si legge nika, nika, e in greco significa: "Vinci, vinci", o "conquista", imperativo presente del verbo νικάω. Era il grido con cui la folla incitava abitualmente i conduttori dei carri, ma in quel momento aveva ben altra valenza: era un grido all'unione per rovesciare l'Imperatore. Da allora, quella sollevazione è detta, per questo, rivolta di Nika. Il primo esempio nella storia di sollevazione popolare guidata dagli Ultras.

Giustiniano, vista la mala parata, sperimentò l'importanza del collegamento diretto tra l'Ippodromo e il Palazzo, e vi si barricò dentro con le sue guardie armate in assetto di guerra. La rivolta incendiò immediatamente Costantinopoli: scontri, incendi, saccheggi, uccisioni di massa. La parola greca per "barricata", ὀδόφραγμα, vale a dire "rottura della strada", ebbe origine proprio a Costantinopoli in quei giorni e quando i greci cantano la loro versione di A las barricadas, Pano sta odofragmata, forse non sanno che quella parola è stata pronunciata già millecinquecento anni fa. Anche la grande basilica di Santa Sofia, il tempio principale della Cristianità orientale, fu data alle fiamme; col suo tetto in legno bruciò in un attimo.

Dal Palazzo dove si era rinchiuso in preda a maleodorati flussioni corporali, il gran Giustiniano cominciò col promettere la riduzione delle tasse, minacciando prima i rivoltosi ma rimuovendo immediatamente i funzionari più odiati. Troppo tardi; la rivolta pretendeva la sua detronizzazione, e Ipazio, nipote dello stesso Giustiniano e capo Ultras degli Azzurri, fu proclamato Imperatore. Dopo cinque giorni di rivolta terrificante, furono abbattuti finalmente i cancelli del Palazzo e Giustiniano si preparò alla fuga, naturalmente non senza i soldi: in gran segreto fece caricare tutto il tesoro imperiale su una nave pronta a salpare.

5. Interviene Teodora. L'inganno e la mattanza.

In una drammatica riunione del Consiglio Imperiale, l'imperatrice Teodora prese però in mano la situazione, rivelandosi ben più decisa dell'augusto consorte in preda alla cacaiola più sfrenata. In un discorso rimasto celebre, affermò quanto segue: "Anche se con la fuga mi dovessi salvare, non vorrò vivere senza essere salutata da imperatrice, tanto vale morire qui; se vuoi, hai il denaro e la nave è pronta, vai pure; quanto a me, sapevo già che la mia porpora sarebbe stato il mio sudario, quindi non fuggirò con te, io resto!". Giustiniano si rese forse conto della grandiosa figura di merda che avrebbe fatto di fronte alla storia, e ordinò di riportare il tesoro Imperiale che fece distribuire ai capi rivolosti e al popolo, vale a dire a tutti coloro che erano ancora nelle strade.

A difesa del Palazzo Imperiale vi era il generale Narsete, privo di rinforzi e quindi in enorme difficoltà; fu lo stesso Narsete ad occuparsi della distribuzione di una parte del Tesoro ai ribelli della fazione Azzurra, ottenendo la loro riconciliazione e la garanzia che tutti i rivoltosi sarebbero stati fatti convergere dentro l'Ippodromo. Nel frattempo, il famoso generale Belisario era giunto alle porte della città, reduce dalla guerra Persiana e con un gran numero di mercenari.

I capi ultras Azzurri, allettati dal tesoro Imperale, fecero effettivamente convergere tutti dentro l'Ippodromo; si accorsero forse troppo tardi di quel che era stato preparato. Una volta dentro, gli ingressi furono sbarrati e, il sesto giorno della rivolta, cominciò il massacro.

Le truppe di Narsete e Belisario entrarono dai diversi ingressi dell'enorme Ippodromo, montate su cavalli che stavolta non erano affatto quelli delle corse sportive. Ammazzarono tutti. Ipazio, l'Imperatore dei rivoltosi, e suo cugino Pompeo furono arrestati e messi a morte da Giustiniano; secondo alcune fonti, nell'Ippodromo furono uccise trentacinquemila persone, ma altre fonti parlano di cinquantamila. Si tratta, a tutt'oggi, della più sanguinosa repressione mai avvenuta di una rivolta in un solo giorno; da far impallidire persino la mattanza franchista nella plaza de toros di Badajoz, o la strage dei minatori in sciopero alla scuola di Santa María de Iquique. Così fu schiacciata la rivolta di Nika. Belisario, va quasi da sé, fu decorato da Giustiniano e ricompensato con l'altissima carica di magister militum, che lo poneva a capo supremo dell'esercito bizantino; lo si potrebbe chiamare, fatte le debite proporzioni storiche, un "Bava Belisario", anche se Giustiniano non trovò nessun Kaietanos Breskios o roba del genere. Il paragone non è del tutto fuori luogo, dato che durante la rivolta di Nika lo stesso Giustiniano ebbe a dire che Costantinopoli era in preda all' ἀναρχία. E' un termine parecchio antico, quello di Anarchia.

Per ringraziare Iddio dello scampato pericolo, l'imperatrice Teodora ordinò la grandiosa ricostruzione della Basilica di Santa Sofia, affidandola al famoso architetto Isidoro di Mileto e al matematico Anteo di Tralle, che progettò l'incredibile e enorme cupola schiacciata. E' la basilica che, ancora oggi, in grandi linee domina la città di İstanbul, come i turchi presero a chiamare Costantinopoli storpiando il greco εἰς τὴν Πόλιν. Basilica che fu fatta moschea da Mehmet II alla conquista ottomana di Costantinopoli, il 29 maggio 1453 e, infine, sconsacrata da qualsiasi religione e trasformata in museo da Kemal Atatürk, con la proibizione assoluta di ritrasformarla in tempio. Però, anche in Turco, il nome è rimasto quello: Ayasofya.

6. Breve storia della Colonna Piangente.

Nella basilica di Santa Sofia c'è una colonna di marmo, che è detta la Colonna Piangente. E' un fatto che, davvero, la colonna trasuda acqua. Da millecinquecento anni circa si dice che le lacrime dei rivoltosi di Nika stillino da quella colonna, risalendo dal terreno dove furono massacrati; l'unica colonna al mondo che piange lacrime di Ultras in rivolta, di Azzurri e Verdi, e di persone che forse non c'entravano nulla con le corse dei cavalli e che si erano ribellate contro uno dei tanti poteri dispotici della Storia. In realtà, la pietra porosa della colonna assorbe per capillarità l'acqua presente in una falda sotterranea. Dell'Ippodromo di Costantinopoli non restano che poche rovine murarie; i colonnati che lo ornavano furono abbattuti, i cavalli bronzei finirono sulla facciata della basilica di San Marco a Venezia e si salvarono poche cose, un obelisco egiziano detto di Teodosio, una colonna e l'altra curiosa e inquietante Colonna dei Serpenti, che facevano parte dell'Euripos, la "spina", vale a dire il divisorio centrale che separava le corsie di gara. Al posto dell'Ippodromo sorge adesso la principale piazza di Istanbul, l' Atmeydanı. La memoria non si è persa, però:  Atmeydanı vuol dire esattamente, in turco, "Piazza dei Cavalli". Come quella di Piacenza, insomma, anche se leggermente più grande.


L'Atmeydanı con in primo piano l'obelisco di Teodosio. Sullo sfondo, Santa Sofia.

7. Conclusione.

Forse qualcuno si sarà chiesto, ascoltando una vecchia canzone di Francesco Guccini dedicata a Bisanzio, che cosa intendesse dire con il verso: Che importa a questo mare se era Azzurro o Verde?; e questa vecchia canzone parla, invece, proprio della rivolta di Nika, di Giustiniano (l'imperatore sposo di puttana; Teodora era nota per i suoi insaziabili appetiti sessuali), per non parlare dell'Ippodromo che vi si nomina espressamente. Dei nordici soldati non si conoscono bestemmie in alamanno o in goto, ma una sguaiata frase in lingua gotica (o. forse, vandalica) riportata da un poeta arrabbiato nell'Epigramma 285 dell'Anthologia Latina: Inter eils goticum scapia matzia ia drincan / Non audet quisquam dignos educere versus. "Tra gli hurrà in gotico e i 'procuriamoci da mangiare e da bere', nessuno ce la fa a comporre dei versi degni di questo nome". Skapjam matjan jah drigkan in grafia gotica wulfiliana. E le lacrime sono una falda acquifera, e le rivolte continuano.