venerdì 26 ottobre 2012

I mortincàrcere



Alla fine di ogni anno, diventano statistiche. Quanti sono stati? Cinquantatré, settantotto, centoventinove? Statistiche a confronto; una diminuzione rispetto all'anno precedente, oppure un aumento, che si facciano anche i grafici a torta? Statistiche, naturalmente, che accompagnano le usuali espressioni di indignazione, la strage continua che deve essere fermata e quant'altro. Di che cosa sto parlando? Ma dei mortincàrcere, naturalmente. Lo scrivo così, tutto in una parola, come dev'essere; la suddivisione delle parole presuppone non soltanto un'individualità, ma anche soffermarsi almeno un istante su quel che si dice, si ascolta o si legge. Chi muore in galera, invece, oramai si è trasformato (e da tempo, credo) in un exemplum fictum del tutto spersonalizzato, un artificio affinché si possa lanciarsi in ogni sorta di presa di posizione, di considerazione, di appello, di maledizione o quant'altro; il mortoncàrcere serve a questo. Alle critiche sull'istituzione-galera, ai desideri di abbatterle dalle fondamenta, ai discorsi sui proletari che sono gli unici a finirci, ai sovraffollamenti, agli inferni, alle canzoni, ai post sui blog. Alla fine, ciò che conta è la galera, e non chi ci sta dentro; chi muore, è duro ma necessario dirlo, serve a far numero. Quasi nessuno si premura di pensare che chi si ammazza in cella (perché il suicidio è la forma di morte più frequente in galera) oppure muore in qualsiasi altro modo, è una persona. Con la sua vita e la sua storia. Con il suo nome e il suo cognome. Con i suoi gesti, il suo respiro, i suoi sguardi. E si badi bene che non sto parlando di errori, o cose del genere; non ho nessuna intenzione, scrivendo questa cosa, di emettere sia pure il minimo giudizio. A quello ci pensano sia coloro per cui mandare in galera è una professione, sia quei tanti che, pur opponendosi anche radicalmente al carcere come istituzione, sentono spesso il bisogno di specificare che, comunque, ci si finisce perché “si è fatta” qualcosa. E, così, quando una persona muore in galera (con la relativa notizia, magari scarna), l'atteggiamento generale è quello degli “osservatori”, che in questo caso è il plurale sia di “osservatore” che di “osservatorio”. In realtà, non si osserva un bel nulla. Chi osserva davvero sta pure in galera, e non scrive o dice nulla; noialtri, invece, ci dedichiamo all'elaborazione di dati e al loro commento. Poi succede qualcosa, un giorno qualsiasi.

Succede che vieni a sapere che un mortoncàrcere, uno fra i tanti, lo conoscevi. Il destino te lo aveva messo sulla strada da qualche parte, senza calcare troppo la mano; una conoscenza non profonda, derivata da un luogo frequentato da entrambi. Un passaggio, qualche sera; poi, una vecchia automobile che non mi serviva più letteralmente regalatagli, la firma dei fogli davanti al notaio dell'ACI, una puntata a casa mia, una canna fumata assieme, una scatola di sigari cubani che mi aveva portato. Niente di più, ma non lo sto dicendo per schernirmi o allontanarmi; semplicemente, è stato così. Fosse stato diverso, non avrei avuto nessun motivo per non dirlo.

Succede che questa persona compie delle cose, e il destino non rinuncia mai ad essere un po' beffardo. Questa persona finisce in galera per stalking nei confronti di una ragazza; poco prima, sembra per una trasfusione di sangue, si era beccato l'AIDS. Conclamato. Le cose si vengono a sapere, se ne parla (magari sottovoce), vengono commentate. E qui devo fare un autentico sforzo per dominarmi, perché se seguissi la mia natura comincerei a raccontare tutto quel che so, per filo e per segno. Raccontare non significa né glorificare, né disprezzare; significa, o significherebbe, esporre i fatti relativi a questa persona, dato che almeno un po' si conosce la sua storia, e trarre delle conclusioni visto che, comunque, di questa persona si è scelto di parlare e non vi è nessuna esigenza giornalistica. L'esigenza giornalistica appare, ad esempio, in questo articolo del“Corriere Fiorentino” ripreso da “Ristretti Orizzonti”. Qui c'è tutta la cronaca, compreso il nome e il cognome di questa persona. Lo aveva un nome, e di cognomi ne aveva addirittura due. Vi è raccontata, la sua storia, così come cronaca vuole; segue il resoconto di un altro episodio accaduto nel carcere di Prato, e la consueta “analisi” (con tanto di “disagio” e di “iceberg”). Per quel che mi riguarda, scelgo invece di non commentare un bel nulla; non è questo che ho in mente mentre sto scrivendo.

O meglio, non commento la vita di questa persona e i suoi atti, perché non mi spetterebbe neppure se l'avessi conosciuta meglio di quanto ho fatto. E qui mi sorge una terribile contraddizione, perché so bene, anche e soprattutto qui dentro, d'aver commentato le vite e gli atti di parecchie altre persone da me mai viste né conosciute. Detto in altre parole: ho iniziato questo post con un ragionamento sulla riduzione di chi compie o subisce determinate cose (morire in galera, ad esempio) a categoria, ma in realtà sono il primo a categorizzare. E chiunque tende a farlo. Non ho, ovviamente, nessuna sorta di simpatia verso chi compie atti di stalking; mi sembra che quel che vado scrivendo da anni lo testimoni a sufficienza. Ma mi chiedo anche, se io non avessi mai conosciuto quella persona, come ne avrei parlato. Non si può sempre finire in carcere per belle cose che ti piacciono, per la lotta NO TAV, per aver tirato una sassata a uno sbirro, per aver compiuto comunque una “lotta”; ci si finisce anche per brutte cose che ti stanno sulle scatole, per aver molestato una donna ad esempio. Alcuni giorni fa ho scritto una cosa su Samuele Caruso, quel ragazzo palermitano che ha ammazzato la sorella della sua ex fidanzata; potrei ragionevolmente chiedermi che cosa avrei scritto se, putacaso, fossi stato un amico o un conoscente di quel ragazzo. E che cosa scriverei dei “disagi della mente”, io che fra le altre cose, in passato, pure ne ho avuti? Ad un certo punto, in alcuni casi, ci pensa la galera; la galera è quella cosa che compie una sola cosa, apre un portone e ti inghiotte. Per dei mesi, per degli anni, per sempre. Fa soltanto questo. Non fa cambiare, non guarisce, non “rieduca”; basterebbe quel solo articolo, quello sulla “rieducazione del condannato”, per far considerare la tanto decantata “Costituzione Italiana” per quello che invece è, una sequela di idiozie da pulircisi il didietro come ogni cosa concepita e messa (spesso falsamente) in atto dagli “Stati”. La galera chiude e ammazza, e fine della trasmissione. Chiude e ammazza anche persone che disapprovi. Anche persone delle quali diresti peste e corna. Anche persone delle quali hai saputo, da altri, cose non belle. Anche persone di cui desidereresti, al limite, la morte. Anche persone che, un dato giorno, cessano di essere “mortincarcère” per essere ricondotte, per quanto si può, alla condizione naturale di individuo, di parola, di gesto, di soffio vitale spento da muri invalicabili guardati a vista da altre persone, armate e pagate per questo.

Da tutto questo mi sono sentito obbligato; e, nell'assolvere a questo obbligo, provo tutti i disagi e le contraddizioni che è possibile provare. Rinunciare a parlare, ad esempio, di chi muore in galera e della galera stessa? Non mi sarebbe possibile, finché avrò un po' di fiato. Cercare di conoscere la storia e la vita di tutti? E come porsi davanti all'azione di chi pure conosci, e che magari ha fatto del male ad altre persone? Una serie di domande senza risposta, e lo so bene. Ma so anche bene che, oggi, non sarei nemmeno uscito di casa senza aver ricordato per un momento quella persona che, due giorni fa, in una galera ha deciso di mettere fine ai suoi giorni, per disperazione. Perché l'unica soluzione che ha individuato, l'unica via d'uscita, è stata il cavo di un televisore che si è avvolto attorno al collo, lasciandosi andare. Non intendo rivolgere a questa persona vuoti e retorici “saluti”, né altrettanto vuote espressioni di “pietà” soltanto perché, qualche volta, abbiamo mangiato insieme o gli ho regalato una vecchia Citroën scassata che gli serviva per il suo lavoro di spazzacamino. Non intendo ridurlo a “bravo tipo”; la morte sarà anche 'na livella, ma a me non è mai piaciuto livellare un bel niente e i morti sono soltanto dei vivi che non respirano più; ma resta tutto ciò che hanno fatto, nel bene e nel male. Così sarà anche per me, e per tutti. Se, domani, Samuele Caruso si ammazzerà in carcere (cosa che, chiaramente, non mi auguro affatto), resterà quel che ha fatto a quella povera ragazza, ma gli toccherà anche diventare l'ennesimo mortoncàrcere da infilare nelle statistiche annuali. Senza contare, naturalmente, quelli che in cancere non si ammazzano affatto, bensì vengono ammazzati da squadrette varie, da pestaggi, da umiliazioni, dalla burocrazia, da tutto un sistema che alla galera non rinuncerà mai.

Così ho scritto questa cosa. Per aver conosciuto una persona che si è ammazzata in una cella. Per averla vista, una volta, varcare la porta di casa mia e mettersi a sedere al mio tavolo. Per averla vista uscire ed averla salutata con cortesia, ciao, ci vediamo una di queste sere. Da qualche parte in un cassetto dovrò averci i fogli di trasferimento di proprietà della macchina, con la sua firma. Può darsi che questa cosa sarà letta da altri e altre che lo hanno conosciuto; altri e altre che gli hanno, chissà, voluto un minimo di bene o un minimo di male; altri e altre per cui, invece, è rimasto impantanato sui vari gradini dell'indifferenza. Per quel che mi riguarda, vorrei pormi da un'altra parte; quella di chi ritiene, sempre, di essere di fronte a persone. E, in questo caso, a persone in galera. Per qualsiasi cosa abbiano fatto, anche la più orribile. Per rivolgere loro qualcosa che non sia spazzata via, come sempre accade, dal vento. Per dare un nome e una storia, così come ha fatto chi è andato al cimitero degli ergastolani di Ventotene. Perché non esistano più “mortincàrcere”, ma soltanto persone umane che, un giorno, si sono accorte che l'unico volo possibile passa per un cavo di televisore. E anche perché, qualunque cosa accada, a nessuno può essere revocato lo status di persona; e questo sia il mio unico, vero saluto prima di consegnare tutto alla memoria. Per il resto, non ci saranno né inferni e né terre lievi; la terra, su chiunque, è soltanto pesante.