lunedì 3 settembre 2012

La bandiera del Napoli e la Quercia dell'Imperatore


Parecchi che, sovente, cianciano di galera, non solo non ci sono mai stati dentro; non ci sono mai stati neppure fuori, là sotto. Antonio Ginetti è stato sia dentro che fuori; dentro molti anni fa, la prima volta, e poi il 26 gennaio scorso, come ha raccontato in un libriccino autoprodotto che distribuiva sabato pomeriggio, intitolato Per la conquista della libertà - Cronaca dell'esperienza di un militante coinvolto suo malgrado nell'inchiesta per la criminalizzazione del Movimento No Tav. Antonio è fuori dai primi di giugno, dopo essere stato sei mesi tra la galera propriamente detta e quella domestica dei domiciliari; ma c'è chi è ancora dentro. Alessio Del Sordo, ad esempio; pochi giorni fa è stato trasferito nel carcere della Dogaia, a Prato; per chi non lo sapesse, la Dogaia è considerato un carcere punitivo, attrezzato per il 41 bis. Sorge (ma ritengo che "sorgere", in questo caso, sia un verbo errato; meglio ci starebbero cose come "violenta il terreno" o "metastatizza il paesaggio") letteralmente in mezzo ai campi, al limitare tra il comune di Prato e quello di Montemurlo, in una zona che si chiama Maliseti. Eravamo là sotto, sabato scorso, in una giornata infame. Pioggia intermittente a scrosci, fango, sprazzi di sole che all'improvviso ricordavano di essere ancora nel primo giorno di settembre, un'alternarsi di freddo e caldo, sudati e sporchi. Con una collezione di catorci impantanati in un viottolo di campagna, il generatore di corrente, le casse altoparlanti, la musica, il microfono. E, davanti, la galera. Color merda, cupa, due tetri blocchi di cemento, la cancellata altissima, i corrimenti con le torrette e le guardie armate in compagna di quei bravi ragazzi in borghese con giacchettine stupide, videocamere e borselli a tracolla. 

Quando si va sotto una galera a portare presenza, suoni e voci a chi è dentro, non è opportuno, a mio parere, fare nessun tipo di "cronaca" e raccontare episodi. Il fuori e il dentro si confondono, e non possono che confondersi. Chi poco prima era dentro, come Antonio (ma non soltanto lui) adesso è fuori per qualcun altro che è a sua volta dentro; chi adesso è fuori, sa bene che potrebbe finire dentro in qualsiasi momento, a seconda di come giri all'illustrissimo signor Procuratore dott. De Servis (modello volutamente tale nome sulla falsariga di De Tormentis).  Si è, quindi, là sotto sì per Alessio, chiedendosi in quale cella stia e se potrà sentire; ma si è la anche per tutti gli altri che sono dentro, senza nessuna esclusione, e ancora si è la per noi stessi, per chi vive la militanza anticapitalista e antirepressiva come parte imprescindibile della propria vita. Per tutti coloro che intendono abbattere realmente quei muri, e cominciano con quello della solitudine e dell'oblio. Perché in galera si è soli, sarà bene non scordarselo mai anche se si intende semplicemente parlarne. Si è soli e alla mercè di persone il cui compito istituzionale è quello di annientarti a comando. 

Mi viene da pensare che non pochi intrepidi "rivoluzionari" se la farebbero addosso semplicemente nel ritrovarsi davanti a una galera come quella della Dogaia; e quando dico "davanti", dico a ridosso della cancellata, con le guardie a pochi metri e con la DIGOS piazzata agli incroci degli stradelli dissestati di campagna, in mezzo alle distese di erba medica. La Dogaia è una di quelle galere che fanno considerare esteticamente preferibile persino Sollicciano; finito il tempo delle carceri in centro città, quando, in un certo senso, facevano parte -pur restando certamente nient'altro che prigioni- del tessuto sociale, politico e umano. Si diceva a Firenze, ad esempio: In via delle Murate c'è uno scalino e chi non l'ha salito non è fiorentino. Ora le galere non appartengono più alla città; Sollicciano è "Firenze" soltanto per l'appartenenza amministrativa al territorio comunale, e la Dogaia non è "Prato". Le galere sono state fatte diventare, e se ne capisce perfettamente il perché, mondi del tutto a parte; isolate in luoghi desolati, riproduzioni di isole inaccessibili, non-presenze per evitare che la popolazione vi stia a contatto quotidianamente, architetture il cui filo conduttore è la creazione della disperazione totale. 

Diventa quindi fondamentale abbattere il muro dell'isolamento, nell'impossibilità oggettiva di abbattere i muri fisici, perimetrali. Una prima recinzione in rete metallica, la "terra di nessuno", la cancellata, il corrimento; al di là, ancor prima che venga collegato l'impianto acustico al generatore, si vede già ogni sorta di cosa sventolare dalle finestre delle celle. Asciugamani, magliette, lenzuoli, pezzi di stoffa che non si riesce a identificare; e dietro ad ognuno di quegli stracci, c'è una persona. C'è un proletario, perché in galera ci finiscono soltanto i proletari, gli immigrati, i nessuno. E ci finiscono i colpevoli di opposizione allo Stato; ci finiscono Antonio Ginetti e Alessandro Della Malva, ci finisce Alessio Del Sordo, ci finisce Massimo Passamani, ci finisce Tobia Imperato. Solo per dirne alcuni, naturalmente. Noto che non importa neppure iniziare a spandere voce e musica per l'aria al volume più alto possibile; lo sanno già che ci siamo, là dentro. Lo sanno e cominciano a battere sulle inferriate delle finestre. Nel suo libriccino, Antonio Ginetti racconta anche di una cosa del genere, quando era stato appena rinchiuso nel carcere di Pistoia; troppo lontano per sentire, ma con la notizia che c'era "gente là fuori che faceva casino" per lui, portatagli da un secondino. Quando c'è gente là fuori basta saperlo per scaldarti un po' la vita e per capire di non essere stati lasciati soli; non importa neppure sentire. E se non te lo dice un secondino, lo vieni comunque a sapere. 

Qualcuno va al microfono a parlare, e questo fa parte di quella "cronaca" da non dire; la musica è importante. Mi occupo di canzoni da tutta la vita, si può dire, e conosco bene che cosa siano capaci di dire e di suscitare. Ce n'è una che non manca mai, quando si va sotto una galera per qualcuno e per tutti: Nella mia ora di libertà di Fabrizio De André. Sono certo che qualsiasi tipo di potere sparerebbe volentieri a quella canzone che parla di un passaggio dimensionale e di coscienza, dall'individuale al collettivo, dalla rassegnazione alla rivolta. Ci avviciniamo alla recinzione metallica e cominciamo a batterci sopra con qualsiasi cosa, sassi, pezzi di tubi metallici trovati abbandonati, uno persino col "triangolo" di un'automobile; piove a dirotto per tre minuti e poi si apre uno squarcio di sole, bagnati fradici d'ogni cosa, un gruppo di compagne e compagni che si spostano in mezzo a un campo, nel niente, per tentare di farsi vedere meglio dalle celle. Poi l'altoparlante attacca con delle canzoni napoletane, addirittura "neomelodiche", e tra di esse, una che si chiama 'O latitante; e dalla finestra di una cella spunta fuori una bandiera del Napoli.

L'ho vista sventolare per parecchio, quella bandiera bianca e azzurra di una squadra di calcio. E mi ha detto e fatto capire parecchie cose. Ha parlato alla perfezione. Per questo motivo racconto soltanto di questo gesto, senza nessun tipo di ulteriore commento; lascio a chiunque stia leggendo questa cosa la sua interpretazione, che ovviamente necessita di un minimo sforzo di ragionamento politico e sociale. Spero soltanto che l'abbia vista anche Alessio Del Sordo; oppure che, in qualche modo, gli arrivi qualcosa di queste righe che sto scrivendo. Che veda e che senta, anche se magari non poteva, quella bandiera calcistica e tutti gli altri colori alle finestre, le magliette rosse e nere, i lenzuoli bianchi, il fango scuro; che gli arrivino i rumori e il battere della pioggia, le grida di "tutti liberi", che gli arrivi il senso profondo di quel Fuori i compagni dalle galere, dentro nessuno, solo macerie! E che gli arrivi, soprattutto, la volontà che tutti hanno di non arrendersi mai. Arrivi a lui e arrivi a tutti, perché sotto una galera non ci sono distinzioni. Non ce n'erano tra anarchici e CARC, perché, come scrive Antonio Ginetti a conclusione del suo libriccino, bisogna ricordare che non le grandi gesta di pochi, ma il piccolo contributo di milioni di formiche possono abbattere la Grande Quercia, gloria dell'Imperatore. Aggiungo che, quella Quercia, può contribuire a abbatterla anche una bandiera del Napoli che sventola da una cella. La Quercia è l'isolamento, la divisione imprendibile tra un dentro e un fuori, l'annullamento insonorizzato, lo stillicidio del tedio senza speranza; non eravamo, certo, in quel campo che pochissime formiche; nemmeno trenta. Eppure, stavamo abbattendo la Quercia, e quelli là dentro lo sapevano e lo capivano benissimo. E i guardiani, con le loro videocamere, ci riprendevano, ci riprendevano, ci riprendevano; finché qualcuno non ha ricordato loro, con un discorso assai pacato e ponderato al microfono, e dopo matura riflessione, di cacciarsele nel culo, le telecamere. Ne è seguita una risata enorme, una di quelle che danno finalmente un senso a quel famoso vecchio slogan.