giovedì 20 settembre 2012

Dieci canzoni italiane. (2) Ma chi ha detto che non c'è di Gianfranco Manfredi.



Non mi ero dimenticato delle "dieci canzoni", né loro si erano dimenticate di me; ecco la seconda.

Fortunatamente non siamo in un anno da anniversario; né dieci, né trenta, né quaranta. Il 1977 è passato da degli assai poco attrattivi trentacinqu'anni, trentacinque sembra al massimo il numero di un autobus di periferia e, quando poi l'anno buono arriverà, sarà probabilmente troppo lontano. Allora, in una sera di 35 anni dopo, senza nessuna scadenza, è possibile e doveroso immaginare di sovvertire il tempo; ecco, questa canzone, ad esempio, non è stata scritta trentacinque anni fa, ma sarà scritta fra trentacinque anni. Sarà scritta domani. Il suo titolo, per ora, è Ma chi ha detto che non ci sarà.

Inizia ora un uso spericolato del congiuntivo.

Quell'anno là, del resto, appartiene di diritto al futuro, e persino a un futuro remoto. Immaginarsi un paese, assieme sue città, dove la questione non fosse stata un rifritto cambiamento (una sostituzione di strutture, un fasullo rimescolamento di ordini per produrre poi altro ordine) bensì un passaggio al differente (un superamento autentico, uno scavalco, una corsa verso un ignoto che, invece, si percepiva chiaro), non puo, e non sia potuto mai, attenere al passato. Inutile, a questo punto, andare a interrogare chi ci fosse stato; bisognerebbe una buona volta eliminare le testimonianze, concetto per metà giuridico e per metà ecclesiastico. Occorrerebbe, invece, spostare. Disassare. Disarticolare. Sarebbe necessario applicare la lezione di quel lontano futuro. Ne siamo stati ben lungi; siamo tornati alla normale ripartizione del tempo, dimodoché arriviamo persino a dire -per esempio- che Guy Debord "aveva" ragione. Guy Debord, casomai, avrà ragione; o, meglio ancora, Guy Debord avesse avuto ragione. 

Gianfranco scriverà questa canzone.

Gianfranco Manfredi scriverà, e forse canterà, questa canzone quando tutti noi avremo cessato di aver paura di distruggere. Nel tritacarne andrà messa, per prima cosa, la costruzione forzata con la sua dittatura, col suo fascismo; "non si può distruggere senza sapere che cosa costruire" è la morte di tutto. Bisogna accettare anche l'evenienza del niente, del vuoto, dell'esplosione non ricoperta di cattolicamente appiccicosa speranza. Della semplice distruzione come fondamento necessario del passare oltre. E, infatti, Gianfranco Manfredi scriverà, fra trentacinque anni o quando gli parrà, una canzone squisitamente distruttiva, una fotografia di quel tempo in cui la demolizione sarà finalmente avviata; leggendone il testo e ascoltandola (ché si tratta di un futuro che non ha regole, nemmeno quella di dover essere atteso per la conoscenza), se ne colgono i cardini, i pilastri da abbattere. 

Peccato e Stato.

La parola "fine", chiara e senza ritorno, è riservata a due entità: al Peccato e allo Stato. Il Peccato verso l'inizio della canzone, lo Stato verso la sua conclusione; quasi a voler racchiudere il tutto. Il Peccato e lo Stato sono fatti della stessa pasta; si potrebbe dire che il Peccato è lo Stato di se stesso, un insieme di convenzioni, regole, burocrazie, tasse da esigere e da pagare, imposizioni, scuole, polizie, impieghi e erogazioni che, per tramite di apposite Agenzie (dette perlopiù "religioni" o "chiese", ma non sono detentrici di esclusiva), fungono da capillare apparato di controllo e di repressione dell'individuo. Lo Stato ne è chiaramente l'estensione e l'applicazione (arbitrariamente) collettiva, ma i suoi meccanismi sono identici; il loro legame è pressoché inestricabile. Mettere in discussione e eliminare il Peccato (con le sue morali, i suoi valori, i suoi precetti) mette automaticamente in crisi anche lo Stato; mettere in discussione e eliminare lo Stato (con le sue istituzioni, le sue costituzioni, la sua legalità) mette automaticamente in crisi anche il Peccato. Vengono quindi messi all'opera i tribunali di ogni genere, terreni e ultraterreni; non è quindi opportuno stupirsi più di tanto che, in alcune parti del mondo, siano al potere delle cosiddette teocrazie. Laddove Stato e Peccato sono tutt'uno, anche nella pratica ufficiale, altro non si è giunti che a sancire un dato di fatto che è, in realtà, presente ovunque. Un movimento che voglia realmente operare la distruzione di questo stato di cose dovrà quindi tenerlo presente sempre.

La farcitura del panino.

Quando scriverà questa canzone-sandwich, Gianfranco Manfredi (attualmente, sembra, un vivace bambino di Senigallia che urla alla mamma, di continuo, non è una malattia! anche ricoperto di varicella), una volta tagliate le due fette di pane, occuparsi della farcitura; e sarà una farcitura parecchio ricca, per accompagnare le due fette di pan distrùzio. Altrimenti si eliminerebbe sì, ma con poco gusto; ora, certo, c'è chi dice che il semplice gusto del pane è il migliore che ci sia, ed è indubbio che abbattere il Peccato e lo Stato, di gusto, ne abbia parecchio; però, càspita, un po' di companatico saporito non può starci male e, inoltre, forma l'intero, l'amalgama, l'armonia. Come non metterci una bella ragazza (o un bel ragazzo) senza nessuna limitazione, senza nessun istinto di possesso, senza nessun contratto predefinito? In quella prima strofa (che, peraltro, sembra ripresa quasi di peso dal Cantico dei Cantici, che sarebbe stato uno dei testi basilari della Fine del Peccato se non lo avessero neutralizzato infilandolo nella Bibbia) c'è il primo elemento della farcitura; ci sono poi il sogno, il mitra, la rabbia...e tutta l'espressione, minuziosa, della distruzione. 

Il sogno realizzato

Si può, sicuramente, ascoltare questa canzone come se fosse già stata scritta (e lo sarà, non se ne dubiti, lo sarà); oppure, dato che tra i suoi vari abbattimenti presenta anche quello dei piani di fruizione, la si può immaginare in tutti i suoi elementi costitutivi. In pratica, la si può sognare; un sogno, però, che non sia fine a se stesso. Un sogno che comporti un tentativo di realizzazione ad ogni livello; ed esistono forse sogni la cui realizzazione possa prescindere da un mitra? Come ebbi una volta a dire ad un amico privo di patente di guida e che, spesso, recita un divertente monologo in cui dice che la rivoluzione arriverà in bicicletta: sì, d'accordo, però accanto alla bicicletta un paio di carri armati muniti dei più moderni optionals e qualche veloce automobile col bagagliaio pieno di AK 47 potrebbe dare una mano non indifferente. Può prescindere, la realizzazione del sogno, dalla rabbia come espressione, al tempo stesso, di liberazione e di coscienza? La gabbia (che va generalmente sotto il nome di galera, in tutte le sue possibili accezioni) può restare in piedi in un sogno del genere? E' possibile sognare, e sognare di realizzare, con una scuola che è, di per sé, anticipo della galera e preparazione alla schiavitù del lavoro? Ed è possibile osservare generazioni intere che piangono, strepitano, geremizzano e si addannano per reclamare schiavitù, non accorgendosi (o fingendo di non accorgersi) che niente passa e può passare dalla sua cadavericamente eterna riproposizione, mentre tutto dovrebbe e potrebbe passare dal suo categorico rifiuto? Dalla cessazione della produzione capitalistica? E le mille paure e i diecimila terrori in cui ci hanno ingabbiati come nell'ennesima galera? Il sogno da realizzare passa anche dalla distruzione totale della paura, dall'aprire la porta perché la porta è la mente e la mente spara quanto un mitra lucidato, se ben caricata e ben usata.

Millenovecentosettantaquarantadue

In quest'anno millenovecentosettantaquarantadue, trentacinque anni prima della sua composizione, questa canzone di Gianfranco Manfredi ci racconta anche di talpe che lavorano; si sarà probabilmente riferita, la canzone, ai simpatici e normalissimi animaletti campestri e non a certi complessi ed enormi macchinari che dovevano scavare, nel nostro tempo che allora sarà allora, gallerie nelle montagne per inutili treni superveloci. Tra trentacinque anni vigerà, del resto, il principio della superlentezza; e si vedrà Enzo Del Re tirare un colossale sbadiglio, svegliarsi dopo una favolosa dormitona, chiedere un caffè bello carico e pigliare la sua sedia. Nessun rumore di fabbrica all'intorno; in qualche museo verranno esposti gli scheletri ricostruiti di feroci animali preistorici, il Marchionnes Pulloverovestiens, il Camussus Pomilianus Vulgaris e il Phornerosaurus Plangens. Tutto appare chiaro e declinato: si tratta di una storia del futuro. Lo si dice espressamente nel testo della canzone, indicando a noialtri, titolari di un presente senza storia, alcuni efficaci ed opportuni metodi per arrivarci sul serio, a tale futuro;  prendersi la merce e quanta ce ne serve, al tempo stesso liberando spazio utile per l'amore e liberandoci dall'economia di merda; avere la pelle sempre più nera, da oppore al pallore mortale dei razzisti schifosi di ogni tipo; essere sempre più devoti a S. Pietrino, magari cercando di allenarsi e migliorando sempre la mira; dare fuoco a Milano, magari un diciassette d'aprile in via Mancini; prendere i gipponi a pietrate ben assestate; e ricominciare a fare la bùa a fasci, fascistelli e fascistoni vari, intendendoli magari nel senso più lato possibile. Non soltanto, insomma, quelli iconografici e quelli del "terzo millennio" (ricacciandoli casomai nel terzo millennio avanti Paperinik). Però non bisogna star lì a aspettare che accada tra trentacinque anni, e che il bimbo di Senigallia cresca; bisognerebbe darsi da fare, immediatamente. 

Quasi una conclusione.

Ma chi ha detto che non ci sarà? Io, queste cose, comincio a non capirle davvero più; e mi ci sto dannando l'anima, realmente. Comincio a desiderare di buttare le nostalgie in un pozzo assieme ai loro sacerdoti, e ad aver voglia costante di pagine bianche. Ha funzionato la memoria? O, piuttosto, non è stata, sì lei, costretta in un bugigattolo proprio da coloro che dicono di preservarla? Il loro bugigattolo guardato a vista, dove si entra solo con estrema difficoltà e previo accurato esame di idoneità? In cui l'esserci stato è un discrimine invalicabile? Quando questa canzone sarà scritta, non dovrà produrre angustezze, ma aperture. Mai una porta chiusa. Starà nel fondo dei nostri occhi e sulla punta delle nostre labbra; e ci sarà. Sì che ci sarà. E, forse, c'è già e ce ne siamo dimenticati, oppure abbiamo preferito appiccicarle sopra un'etichetta con un numero scordando che i numeri non hanno mai fine.

Sta nel fondo dei tuoi occhi
sulla punta delle labbra
sta nel corpo risvegliato
nella fine del peccato
nella curva dei tuoi fianchi
nel calore del tuo seno
nel profondo del tuo ventre
nell'attendere il mattino

Sta nel sogno realizzato
sta nel mitra lucidato
nella gioia nella rabbia
nel distruggere la gabbia
nella morte della scuola
nel rifiuto del lavoro
nella fabbrica deserta
nella casa senza porta

Sta nell'immaginazione
nella musica sull'erba
sta nella provocazione
nel lavoro della talpa
nella storia del futuro
nel presente senza storia
nei momenti di ubriachezza
negli istanti di memoria

Sta nel nero della pelle
nella festa collettiva
sta nel prendersi la merce
sta nel prendersi la mano
nel tirare i sampietrini
nell'incendio di Milano
nelle spranghe sui fascisti
nelle pietre sui gipponi

Sta nei sogni dei teppisti
e nei giochi dei bambini
nel conoscersi del corpo
nell'orgasmo della mente
nella voglia più totale
nel discorso trasparente.

ma chi ha detto che non c'è
ma chi ha detto che non c'è

Sta nel fondo dei tuoi occhi
sulla punta delle labbra
sta nel mitra lucidato
nella fine dello Stato

c'è, c'è. sì che c'è.
ma chi ha detto che non c'è.