mercoledì 22 agosto 2012

Caput Liberum e i marò


Il paese di Capoliveri, sull'Isola d'Elba, non è nuovo a questo blog; c'è, anzi, fin dai suoi primordi. Quattro giorni esatti dopo la sua nascita, infatti, mi era venuto di raccontare la storia del tedesco che vi portò la luce elettrica. Era il diciotto di maggio del 2007; pochi giorni dopo sarei andato all'Elba per una piola, l'ultima che sia mai stata fatta, e avevo pensato di scrivere una specie di "viatico" per tutti i partecipanti. Ora non è nemmeno che mi vada gran ché di spiegare che cosa siano state le piole e chi vi abbia preso parte; nella stragrande maggioranza, si tratta di persone, di cose, di luoghi e di vicende che sono consegnate ai ricordi, belli o brutti che siano. Capoliveri è un antico paese dell'Isola; qui sotto ve lo faccio vedere in bianco e nero.


Che Capoliveri sia stravecchio, non v'ha dubbio alcuno; probabile che il suo primo nucleo lo abbiano già visto gli Etruschi che lavoravano il ferro delle immediate vicinanze, e che avevano spinto i greci a chiamare l'Elba l'Isola delle Scintille (Αἰθαλία), o "dei Mille Fuochi" come la chiamò in un suo oramai introvabile libriccino del 1968 un ammiraglio di marina, Antonio De Giacomo, presso il quale mia zia andava a servizio. Erano le scintille e i fuochi delle fornaci per la fusione del minerale ferroso; il nome di Capoliveri, però, è romano. È il latino Caput Liberum, "capo libero", e in questo nome sembra che già nell'antichità si riconoscesse il carattere delle persone che vi abitavano. I capoliveresi, all'Elba, sono sempre stati noti per essere indipendenti e refrattari; in una parola, anarchici. Una razzaccia di insoumis, di minatori e di mezzi matti che hanno riempito l'Isola di storie di ogni genere, che mi piacerebbe conoscere un po' meglio per raccontarle a modo mio; mi devo però contentare delle poche che so, come quella del tedesco, e magari di scovarmene di nuove per conto mio. Però almeno un cenno è dovuto al barbiere Nicola Quintavalle, che sul piroscafo Gascogne in navigazione da New York a Genova, nel maggio del 1900, viaggiò in compagnia di due anarchici come lui. La prima si chiamava Emma Quazza, e era di Biella; il secondo, invece, era di Coiano di Prato e si chiamava Gaetano Bresci. Quest'ultimo, come si venne meglio a sapere alla fine di luglio del medesimo anno, andava a fare una certa cosa a Monza; orbene, il barbiere anarchico Quintavalle con cui viaggiò assieme era, indovinate un po', di Capoliveri. E per il semplice fatto di essersi ritrovato a traversar l'Oceano assieme a Bresci ebbe non poche noie, come è lecito del resto attendersi.

Ve li ricordate i marò, altresì detti i "nostri ragazzi"? Con l'appellativo di "nostri ragazzi" vengono usualmente definiti quelli del famoso articolo 11 della "Costituzione", vale a dire i militari professionali italiani che vanno all'estero per le altrettanto famose "missioni di pace". In pratica vanno a fare la guerra, ed è per questo che li chiamo "quelli dell'articolo 11"; "L'Italia ripudia la guerra" eccetera eccetera. Come ripudio non dev'essere però gran ché, visto che questi qui, ordinariamente, ammazzano e vengono ammazzati come in ogni guerra che si rispetti; ed è, oltretutto, un "ripudio" che costa fior di miliardi all'anno, tra "rifinanziamenti", "impegni internazionali", armamenti, logistiche e quant'altro. E per queste cosucce, notoriamente, guai a parlare di tagli. Guai a parlarne; però tengo oltremodo a dire che questi qui non sono affatto i "miei ragazzi". Se li tengano interamente loro, come "ragazzi", e non usino l'aggettivo possessivo inclusivo. Se li tengano, paghino loro gli stipendi, ci facciano sopra le fiction e i reportages encomiastici, se li seppelliscano quando tornano in una cassa da morto tricolorata e non mi rompano i coglioni. Sono i loro ragazzi, non i miei; i miei hanno altri nomi. Si chiamano Sole e Baleno, i miei, e non hanno le solite mogliettine incinte.

Tra i loro ragazzi ci sono, per l'appunto, anche i due marò di un certo episodio accaduto mesi or sono in India. Sì, proprio quelli là, quelli che hanno sparato a due pescatori scambiati per "pirati", e che sono stati presi e ingabanati dalle autorità indiane per omicidio. Ah, non si può fare questo ai loro "nostri ragazzi"; e così è partita la campagna per la loro riconsegna all'Italia. Proviamo per un istante a immaginare se due militari indiani avessero sparato a due pescatori italiani al largo di Sorrento o di Mazara del Vallo, ammazzandoli; sì, proviamo davvero a immaginarlo, e traiamone le conclusioni. Però per i due marò in India si sono scomodati ai massimi livelli, è partito Staffan de Mistura, e le piazze italiane, dalla grande città al paesino, sono state riempite di gigantografie e striscioni firmati da varie forze politiche (non necessariamente di destra) che chiedono accoratamente la "restituzione" dei due militari. Gigantografie e striscioni che, sembra, sono arrivati persino a Capoliveri, a cura di tale "PDL". E qui entrano in ballo i capoliveresi, quelli del Caput Liberum

A qualche capoliverese questa cosa non deve proprio essere andata giù; e ho avuto modo di vederne, coi miei occhi, la dimostrazione pratica. Una dimostrazione che, devo dirlo, non mi era mai capitato di vedere altrove; eppure di striscioni e manifesti per la "restituzione dei marò" ne avevo incontrati un po' ovunque. Indimenticabile quello che pendeva, enorme, su piazza della Loggia, a Brescia, proprio nei giorni dell'anniversario della strage fascista. Da un lato della piazza il porticato nel quale, il 28 maggio 1974, era scoppiata la bomba nera; dall'altro lato gli stessi fascisti di merda che invocavano la liberazione dei "loro ragazzi", con le loro facciazze e le divise. E mai nessuno che si fosse premurato di ricordare quei due poveri cristi indiani che stavano pescando e che si eran ritrovati morti ammazzati dai ragazzotti armati fino ai denti che proteggevano il cargo dai pirati.

Un capoliverese ha fatto una cosa elementare, che poi è anche un esercizio perfetto di democrazia diretta. Ha preso un foglio di cartoncino bianco, lo ha affisso alla porta di casa sua (sulla circonvallazione del paese) e ci ha scritto sopra una cosa, del tutto ragionevole, per nulla "estremista" e dettata esclusivamente da un po' di umanità e di discernimento. Una cosa, vale a dire, lontanissima dalle grancasse, dalle retoriche, dalle versioni ufficiali, dai regimi e dai tromboni. E' quella che vedete nella foto sotto il titolo, e che voglio trascrivere:


"Da alcuni giorni fuori al Comune c'è un manifesto 'Salviamo i nostri marò'. Non mi è piaciuto per vari motivi. Innanzi tutto, ammesso che quei marò siano veramente 'nostri', io, prima di 'salvarli' vorrei sapere come hanno agito; se sono colpevoli di aver ucciso due pescatori, o se si sono difesi da due terroristi; nel primo caso non credo meritino l'appellativo di 'nostri', nel secondo caso potrebbero esserlo. Inoltre, questo aggettivo 'nostri' cosa significa? Sono italiani e dunque sempre 'nostri' e sempre da 'salvare', qualunque cosa facciano?
Fra un italiano delinquente  (ladro, assassino, pedofilo) e uno straniero onesto e lavoratore io non ho dubbi su quale dei due sia più vicino a me e a tutti noi.
Fra italiani con il mitra e indiani con la rete, quali sono i 'nostri'?
Leonardo."

A questo Leonardo di Capoliveri, Isola d'Elba, credo dovrebbe essere rivolto un ringraziamento e un abbraccio.
Anche perché non si è limitato a demolire con un semplice manifesto scritto e pennarello, e affisso all'uscio di casa sua, tonnellate di stupide idiozie e di protervia; sotto il manifesto ha attaccato due altri pezzi di carta, invitando i passanti a firmare per la rimozione del manifesto del "PDL". E, come si può vedere, i passanti hanno risposto. Cazzarola, se hanno risposto!

Mi sarebbe davvero spiaciuto lasciare lì quel manifesto  senza farne parola. Con l'invito, se passate da Capoliveri, a andarlo anche voi a firmare. E Leonardo di Capoliveri, lui sì, è un "mio ragazzo"; mio, e di tutti coloro che ancora non si lasciano fregare.