martedì 31 luglio 2012

Dieci canzoni italiane. (1) Marta di Antonello Venditti.


Come preannunciato qualche giorno fa, inizia questa specie d'avventura a giro per alcune canzoni in lingua italiana. Per le prime nove, lo schema sarà fisso: il video YouTube, il commento e il testo della canzone. Buona lettura.
 
Io, Marta, l'ho conosciuta di persona; solo che non si chiamava Marta. Si chiamava Viviana, aveva 15 anni e stava dalle parti dell'Appia Nuova, nel 1978. Era il ventidue ottobre di quell'anno, una domenica; a Roma abitava un'amica d'infanzia di mia madre, col marito e la figlia; ora il marito è morto da un subisso di tempo, e le due donne stanno vicino a Udine. 

Da quattro giorni esatti mi era come cambiata la vita, ma non lo sapevo ancora; ero un ragazzino altissimo, sporco e con dei capelli assurdi. S'andò a Roma, quella domenica, a trovare quelle persone, che anch'io conoscevo da sempre; la loro figlia aveva un anno più di me. Nel primo pomeriggio mi propose d'uscire, si doveva vedere con una sua amica che stava là vicino; e fu quella domenica pomeriggio che mi accorsi di Roma, e di quella Roma là. La sua amica si chiamava Viviana, aveva quindici anni come me, era parecchio carina e i miei dieci secondi di sogni cessarono all'istante quando si mise a parlare der fidanzato. Già fidanzata "in casa" con un ragazzo di diciott'anni, li probblemi, gli occhi chiarissimi che ci aveva, l'autobus linea 671 che, a me, abituato a Firenze che si fermava al 52 domenicale Piazza Stazione-Stadio, faceva impressione. E Roma che non finiva più, sotto un cielo plumbeo. S'andò persino a finire in una specie di discoteca, io che non c'ero mai entrato nemmeno mezza volta; e i ragazzi della mia età d'allora, la metropoli, una collezione d'inquietudini che coglievo solo in parte e un senso di inadeguatezza che non sapevo da dove potesse venire. Alla fine, salutai tutte due le ragazze e mi azzardai a prendere una serie di autobus dell'ATAC da solo per tornare verso l'Appia Nuova. Mi ricordo che aprii bocca, a un certo punto, con tre ragazzi con le sciarpe giallorosse; sentito il mio accento, si diventò amici per sette o otto minuti. Non c'era acredine tra fiorentini e romani, allora; s'era tutti contro 'a Juve

Marta l'ho conosciuta così, intuendola senza saperne nulla. Non l'ho mai più vista, anche se ogni tanto domandavo alla mia amica, la figlia dei conoscenti dei miei, come stava. Ci avrò scambiato quindici parole in tutto; e me la ricordo ancora, come fosse ieri. Me la ricordo e mi ricordo quella Roma mezza in guerra, brulicante. Mi ricordo d'essere entrato per un pomeriggio in quel miscuglio di sterminatezza, di fidanzate, di strade, di ragazzi e ragazze qualsiasi, di fumi d'ogni giorno, di domeniche in discoteche atroci, di mezzi pubblici strapieni. Di famije, di ascensori cigolanti di legno che funzionavano con le dieci lire, di scale B e scale A. Di quartieri divisi da muri, e di non so cosa; ancora ci ripenso. Però, quando sentii per la prima volta la canzone di Marta, non passò nemmeno un secondo che mi misi subito a pensare a quella domenica pomeriggio, alla Viviana, a tutto il resto passato in quell'ordinario periodo della mia squinternata adolescenza. Come ci fossi stato sbattuto dentro con giusto il tempo di afferrare qualcosa di vago, ma che non mi ha mai più lasciato. E cominciò da allora il mio tira e molla con Roma, che mi avrebbe riservato tutto e il contrario di tutto.

Dell'autore di Marta, a dire il vero, si sa molto poco. Sarebbe potuto essere tranquillamente uno di quei ragazzi incontrati sull'autobus, che parlava della sua vita e di quella di tutti; le cronache, chiamiamole così, ci dicono che era un giovane proletario romano che finì sotto un camion sulla Tiburtina, nel '76. Naturalmente non deve essere confuso con un suo famoso omonimo, quello poi preso per i fondelli da Corrado Guzzanti e che ebbe, a suo tempo, il singolare record di farsi fregare la moglie da Maurizio Costanzo; no, dico, va bene se la moglie te la frega George Clooney o Richard Gere, ma farsi mettere le corna da Maurizio Costanzo è da suicidio. Comunque, ce ne importa abbastanza poco; è chiaro che una canzone come Marta viene da un altro mondo e spiace veramente che del suo autore rimanga poco o nulla. 

Rimane questa canzone. Ci sono canzoni che incitano direttamente a cambiare uno stato di cose (anche perché non è affatto vero che a canzoni non si fan rivoluzioni; anzi, direi che a canzoni si fanno, sovente, le rivoluzioni più vere e profonde); ci sono quelle pronte da consumare per un dato momento, e ci sono quelle dove si vorrebbe salire verso altezze sublimi o scendere ad abissi infernali. Ci sono poi quelle, e non sono molte, dove si descrive un mondo intero; Marta è una di quelle, per me. E' tutta quella Roma degli anni '70, dove si crepava per le strade, dove ci si rivoltava per la casa a San Basilio, dove si bruciava e dove si metteva l'erba nella pipa di Lama; ma non se ne parla, di queste cose. E' quella stessa Roma, però, anche se presa da un'altra angolazione. Quella di chi c'era comunque, nella massa, nelle domeniche grigie; quella di un proletariato alle prese con la solita sopravvivenza, quella di fatiche e amori, quella delle delusioni perché faticare non te le risparmia di certo. Mi scuso per tutta questa confusione enunciativa; è perché, mentre scrivo, ho ancora in mente quel che vedevo domenica 22 ottobre 1978. 

Marta la canta un ragazzo che è, palesemente, innamorato di lei. Di quel tale, Venditti Antonello detto "Nello" (come il fratello della mia amica romana), non si conoscono immagini in vita; ma tutto lascia immaginare che la canzone sia largamente autobiografica. Ci si figura quindi facilmente la sua timidezza estrema, la sua cucina con la lampadina a 40 candele e le piastrelle gialline smunte, la mamma casalinga e il babbo impiegato di quart'ordine in qualche ufficio pubblico; e l'amica Marta che sta con uno che non va, e che di giorno va a fare la commessa e poi segue le scuole serali per prendere quella licenza che le servirà per il concorso. Ci sarebbero tutti gli ingredienti, detto fra noi, per una bella canzone del cazzo, tipo quelle dell'altro Venditti, quello famoso. Invece, qui, si rovescia ogni cosa. Si comincia con la preghierina d'ordinanza, per mettere subito in chiaro che non c'è nessun Dio che risponderà; prima mattonata. Le preghiere non servono a un bel nulla, e la "libertà" che sembri avere è falsa. Era bravo, quel ragazzo che scriveva canzoni, a sparare subito colpi precisi; dalle scarse testimonianze di chi lo conobbe e lo vide a volte suonare in posti improbabili, sembra che avesse una grande predilezione per le figure femminili, specialmente in anni duri e strani come quelli in cui la condizione della donna stava cambiando rapidamente anche in Italia. E con questo ritratto di una giovane proletaria alle prese con tutte le difficoltà e le durezze della vita quotidiana e della famiglia, con il padre che le prende i soldi e poi le chiede pure della pagella, Nello Venditti ci ha dato una cosa indimenticabile. E una cosa che ha contribuito parecchio a spiegarmi quel che avevo visto a Roma, quella lontanissima domenica d'ottobre. 

Colpi precisi, dicevo. Nessuna indulgenza. Marta, stai attenta: smettila di biascicare preghiere, e ribèllati. Lotta, Marta, non pregare. C'è una parola, nella canzone, per la quale passa ogni cosa; una parola che non si spiega agevolmente, sulle prime. Come mai il padre che chiede il salario prima e la pagella poi, lo fa per la sua complicità? Che cosa nasconderà? Che diavolo succedeva (e succede) nelle famiglie qualsiasi, appartamento 41 al sesto piano scala C? Ci ho pensato tante volte, figurandomi a mosaico quella giornata di Marta col viso della Viviana, ché un viso bisogna sempre darlo. E come mai tutte 'ste preghiere? Ma ci pensa l'amico Nello, quello che se ne sta sempre tappato in casa senza avere il coraggio di far nulla, a lanciarle un messaggio nella bottiglia dei pensieri. Digli di no, Marta, non ci stare. Non pregare dèi inutili, e chiudi i pugni urlando la tua vita. Lo stavano facendo, là fuori, migliaia di ragazzi e ragazze che si accingevano ad essere sterminati di galere e di eroina; il prezzo dell'affermazione della vita di fronte al padre-stato che, magari per la sua complicità, esigeva salari, pagelle e sangue.

Quante volte mi sarò ricantato, da ragazzo e da uomo, quell'ultima parte della canzone; una delle mie preferite in macchina, da solo. Io, io non sono niente, ma ho vissuto come te. Sempre chiuso nello specchio aspettando un altro me. Accidenti a quel camion di merda, putain de camion come scrisse Renaud Séchan; poteva schiacciare Eros Ramazzotti mentre andava a scuola, no; macché. Avete presente che cosa vuol dire dichiarare a qualcuno (non importa se una ragazza, un gatto o una pietra colorata) la propria identità unita al male di vivere, che nell'adolescenza fa ancora più male (l'età più bella un accidente)? Oppure dire a qualcuno che la propria vita non esce da una camera di ragazzo ammobiliata di risulta, in quei quartieri di palazzoni, salsamenterie, fermate dell'autobus e terreni incolti? E intanto scoppia tutto quanto. E se esci una sera, Marta, dopo aver detto finalmente di no a quel pezzo di merda di tuo padre, tenendoti il salario, magari vienimi a bussare. Toc toc.

Ce n'erano di speranze, e speranze da amare; in quel fumo che portava via ragazzi e ragazze come noi, che ne avessimo coscienza o meno, si poteva forse pensare che il nostro tempo avrebbe vinto. Ci ritroviamo, ora, a scorrere lentamente verso una deriva con dentro la testa una vita intera sempre chiusi nello specchio. Marta avrà magari finito per sposare il ragazzo che non va, che non sarà magari andato ma ci aveva un buon impiego; alla parrocchia dell'Immacolata, con quel Dio che continuava a non rispondere ma davanti al quale le parlavano di morte finché non vi separi. Pranzo da Baffo er Bisteccaro alla pineta di Maccarese e viaggio di nozze a Venezia, con primo ceffone coniugale al seguito. Poi li pupetti....e lui, il suo amico, con qualche ripiego e una vita intera passata a pensare a lei; ma con la consapevolezza, una data sera alle 19 mentre si sentivano i primi rumori del secondo tempo registrato della partita e la voce di Nando Martellini, di averle rivolto la più alta dichiarazione d'amore che si possa immaginare. Quella dove non si dice di legarti, ma di scioglierti. Quella dove due niente si uniscono nel rifiuto e nell'abbandono di una strada già tracciata. Quella della ribellione.

Sì, certo, ora mi sono fatto decisamente prendere la mano. Ho fabbricato l'immancabile telenovela senza lieto fine. Quasi mai, del resto, sono a lieto fine queste storie. La classe tra il proletariato e l'infima piccoloborghesia non riserva generalmente sorprese; e raccontarne le storie non è peraltro semplice. Non si ha di solito nulla da raccontare, se non sogni di rivolte che non passano il portone del condominio, e speranze andate a puttane come va a puttane un tredici al totocalcio svanito a poco dalla fine per l'inopinato pareggio del Pescara; ma, non si sa mai perché, il Pescara pareggia sempre. Ciao Marta, ciao Viviana che da trentaquattr'anni le presti quel tuo viso di quindicenne che quindicenne resterai per sempre. Continuo, però, imperterrito, a voler amare le vostre speranze, anche con questa canzone d'un ragazzo tritato da un autoarticolato, e dal tempo. Il nostro tempo non ha vinto, ma magari qualcosa, a una Marta di ora e a un suo amico, si può ancora dirla.

Prega, Marta, nella sera
nessun Dio risponderà.
Ogni giorno una preghiera,
e una falsa libertà.

La giornata è stata dura,
piena di contrarietà
il lavoro e poi la scuola
e un ragazzo che non va.

Urla, Marta, non pregare
se tuo padre chiederà
il salario o la pagella
per la sua complicità
digli di no,
digli di no,
digli di no.

Io, io non sono niente
ma ho vissuto come te
sempre chiuso nello specchio
aspettando un altro me.

Lotta, Marta, nella sera,
io sarò vicino a te
amerò le tue speranze
il tuo tempo vincerà
anche per me,
anche per me,
anche per me.

domenica 29 luglio 2012

112 anni e non sentirli !


Alto, diritto, elegante; un solo colpo, preciso, nel cuore del porco. Dice un vecchio proverbio che si danno le perle ai porci, ma la storia dice che, più spesso, si danno loro corone e troni.
Succedeva quando si marciava sulla testa dei re, quella cosa per la quale dovremmo essere nati.
Succedeva poi di essere mandati a morire su un'isola, incatenati, privati d'autorità anche del proprio nome su una tomba.
Ma il nome di Gaetano Bresci non gli è mai stato privato. Non ce l'hanno fatta. Nemmeno centododici anni dopo!

sabato 28 luglio 2012

Forse hanno capito male

Secondo me hanno frainteso. Le suore di clausura che vogliono firmare il "referendum anti casta", non si saranno semplicemente stufate della castità forzata, e talmente tanto da pigliare il primo referendum di qualche demente di "grillino" o dell'Italia de' Calori e firmarlo...? "Ehi sorelle, finalmente c'è chi vuole abolire la casta...! W la Monaca di Monza, che fra l'altro è pure vicina a Bergamo...!!!"

venerdì 27 luglio 2012

Dieci canzoni in lingua italiana (Introduzione)


Nei prossimi giorni, probabilmente per tutto il mese di agosto, ho deciso (viaggiando assieme a una cara amica per un'isola che non vi dirò) di parlare di alcune canzoni italiane. Dieci, per l'esattezza. Non rappresentano né una "top ten" personale, o roba del genere; sono soltanto dieci canzoni di cui mi è venuta la voglia di parlare. 

Ho ripensato per due minuti, ma soltanto per due, che sono "nato alla Rete" proprio come parlatore di canzoni; l'ho fatto per anni in alcuni luoghi oramai pressoché scomparsi, o ridotti allo stato vegetativo. E' la loro fine naturale; sono posti che, prima o poi, si trasformano in qualcosa di parecchio simile a un manicomio, con tutti i loro pazzi di ordinanza. Ciò non significa che io rinneghi il mio esserci stato; anzi, probabilmente, questo mio improvviso desiderio di tornare a parlare di canzoni ha una sua ben precisa componente nostalgica. Nostalgia non significa irrealismo; in effetti, non tornerei più in posti del genere (newsgroup Usenet, mailing list, forum) nemmeno con una pistola puntata alla tempia, a prescindere che siano pressoché defunti. Si saranno, con tutta probabilità, trasferiti su Facebook e, perché no, anche su qualche altro blog che ignoro.

In quei luoghi, naturalmente, era d'uopo il confronto. In tali confronti, a volte interminabili, ho letto al tempo stesso le cose più belle e intelligenti scritte su delle canzoni e sui loro autori, e quelle più brutte, stupide, ignobili. Questo per stabilire una differenza fondamentale con quel che sto per fare: essendo questa una rete asociale, che non ammette volutamente né confronti, né interventi o commenti di alcun genere, mi accingo a parlare di alcune canzoni esclusivamente per conto mio. A me stesso. Certo, pur sempre in pubblica visione; ma senza nessuna preoccupazione per un'approvazione o una critica, per un entusiasmo o un biasimo. Tornando a parlare di canzoni, intendo sfruttare appieno le possibilità date dalla libertà della perfetta solitudine.

E' un periodo, questo, in cui faccio un'estrema fatica a seguire le vicende, i fatti, gli eventi che mi circondano; naturalmente, sono ben cosciente di questo mio limite che, periodicamente, si manifesta. In tale caso, torno alla mia condizione di osservatore defilato, sotterraneo. Oppure di parlatore solitario di cose che ne potrebbero, però, sottintendere altre. Le canzoni sono tra queste cose.

Almeno stavolta ho intenzione di obbedire a una specie di programma. Dirò quindi in anticipo quali saranno le canzoni di cui mi è venuta voglia di parlare nei prossimi giorni:

1. Marta di Antonello Venditti.
2. Ma chi ha detto che non c'è di Gianfranco Manfredi.
3. La notte di Salvatore Adamo.
4. Canzone quasi d'amore di Francesco Guccini.
5. Il dilemma di Giorgio Gaber.
6. Letto 26 di Stefano Rosso.
7. Straniero di Alessio Lega.
8. Anche per te di Lucio Battisti.
9. La domenica delle salme di Fabrizio De André.
10. Symphoitetés Oudenós di Riccardo Venturi.

Qualcuno si potrà forse un po' stupire dell'ultima canzone, che non è molto nota; ma ci vuole pur sempre un "gran finale", no? Quanto alle altre, sono canzoni di cui posso aver parlato già in passato, oppure no; ve ne sarà forse qualche traccia in Rete. Questo è del tutto irrilevante; quel che vado a fare è come un riempimento di pagine del tutto vuote. A presto, naturalmente per chi vorrà.

lunedì 23 luglio 2012

Qualcuno era capitalista


Qualcuno era capitalista perché era nato povero.
Qualcuno era capitalista perché, da piccolo, voleva il deposito di zio Paperone.
Qualcuno era capitalista perché lavorando duro.
Qualcuno era capitalista perché lavorando niente.
Qualcuno era capitalista perché si era sentito dotato per gli affari dopo aver venduto la figurina di Pizzaballa a un compagno di scuola per tremila lire.
Qualcuno era capitalista perché gli avevano inculcato solidi valori.
Qualcuno era capitalista perché la scuola lo esigeva, lo sport lo esigeva, la società lo esigeva, la chiesa lo esigeva...lo esigevano tutti.
Qualcuno era capitalista perché leggeva “Il resto del Carlino” al bar, quasi ogni mattina.
Qualcuno era capitalista perché la natura umana è competitiva.
Qualcuno era capitalista perché i sindacati hanno rovinato l'Italia.
Qualcuno era capitalista perché rinunciava al ghiacciolo alla menta e metteva le cinquanta lire nel salvadanaio.
Qualcuno era capitalista perché a vent'anni era un rivoluzionario.
Qualcuno era capitalista perché rispondeva che non c'era alternativa al capitalismo anche quando gli chiedevano che tempo faceva.
Qualcuno era capitalista perché c'erano i capitalisti buoni.
Qualcuno era capitalista perché c'erano i capitalisti poco buoni.
Qualcuno era capitalista perché il comunismo era crollato e aveva trionfato il mercato.
Qualcuno era capitalista perché tutti si viveva al di sopra delle proprie possibilità.
Qualcuno era capitalista perché c'era la Milano da bere, e invece Milano stava bevendo lui.
Qualcuno era capitalista perché era un fan di Everardo Dalla Noce.
Qualcuno era capitalista perché Luna Rossa, il Moro di Venezia, le strambate, le boline.
Qualcuno era capitalista perché bisognava avere per essere felici.
Qualcuno era capitalista perché Gesù disse a Pietro che su quella pietra avrebbe edificato la Banca Cattolica del Veneto.
Qualcuno era capitalista perché Berlusconi gli aveva comprato Gullit e Van Basten.
Qualcuno era capitalista perché chi a vent'anni non è di sinistra è senza cuore, e chi a cinquant'anni è di sinistra è senza cervello.
Qualcuno era capitalista perché erano morte le ideologie e le classi non esistevano più.
Qualcuno era capitalista perché gli avevano costruito a cento metri da casa il più grande centro commerciale del Molise.
Qualcuno era capitalista perché aveva vinto trecento milioni azzeccando il numero esatto dei fagioli nel barattolo di Raffaella Carrà.
Qualcuno era capitalista perché eravamo la quinta potenza industriale.
Qualcuno era capitalista perché si era potuto finalmente fare la seconda casa in val di Stava.
Qualcuno era capitalista perché aveva partecipato alla marcia dei Quarantamila.
Qualcuno era capitalista perché era crollato il muro di Berlino.
Qualcuno era capitalista perché era crollato il muro del suo vicino di casa albanese, seppellendo lui e la sua famiglia.
Qualcuno era capitalista perché i fratelli rumeni si erano liberati dalla tirannia.
Qualcuno era capitalista perché quegli stronzi di rumeni ci sarebbe ancora voluto il tiranno per farli restare a casina loro.
Qualcuno era capitalista perché l'uomo, per natura, è egoista.
Qualcuno era capitalista perché gli piaceva mettere il prefisso “vetero-” davanti a ogni cosa.
Qualcuno era capitalista perché era di Roma, e Roma è la capitale.
Qualcuno era capitalista perché era nata la new economy e si facevano soldi con un clic.
Qualcuno era capitalista perché s'era scordato alla svelta d'avere avuto fame.
Qualcuno era capitalista perché glielo aveva detto quel maestro di giornalismo di Indro Montanelli.
Qualcuno era capitalista perché si sentiva appartenente al “mondo libero”.
Qualcuno era capitalista perché ci vuole una mentalità imprenditoriale.
Qualcuno era capitalista perché sì ci avrà dei difetti ma sistema migliore non ne hanno inventato.
Qualcuno era capitalista perché non la penso come te, ma sarei disposto a morire per difendere le tue idee.
Qualcuno era capitalista perché ogni tanto il papa si oppone dal balcone, poi va a cena con Marcinkus.
Qualcuno era capitalista perché la storia ha dimostrato che il capitalismo ha vinto.
Qualcuno era capitalista perché diceva di essere un imprenditore anche se aveva una ditta individuale di pulizia ditali usati.
Qualcuno era capitalista perché gli piaceva prendere per il culo chi ancora diceva di essere comunista, o anarchico, o qualcosa di diversamente sopravvissuto.
Qualcuno era capitalista perché alla sua Cinquecento avevano messo tutti gli òpscionals.
Qualcuno era capitalista perché avevano fatto bene a sparargli addosso a Genova.
Qualcuno era capitalista perché anche l'amore è capitale.
Qualcuno credeva di essere capitalista e invece era solo un povero imbecille qualsiasi.
Qualcuno credeva di essere capitalista e invece era solo un povero.
Qualcuno era capitalista perché aveva bisogno di credersi ciò che non era e non sarebbe mai stato, perché aveva volentieri abdicato ad ogni cosa per amore di un denaro che stava cessando inesorabilmente di esistere, perché si riempiva di cose inutili e quelle cose lo stavano uccidendo, perché suo figlio lo avrebbe ammazzato per fregargli tutto, perché le “grandi opere” gli stavano togliendo la storia e la geografia, perché riempivano le galere di gente che gli avevano detto di odiare, di considerare nemica, di eliminare.
Qualcuno era capitalista e ora preferisce suicidarsi invece che ribellarsi, perché non ce la fa più a riconoscere che questa non è una crisi “economica”, ma di sistema.
Di un sistema intero che sta implodendo dentro la sua vuotezza e la sua disumanità, ma che ancora vuol darci a bere ogni sorta di panzane, la ripresa, la “crescita”, la “democrazia”, la “legalità”.
E ora? Anche ora si fa un passo avanti e tre indietro. Abbiamo voluto sicurezza e polizia, e ce le ritroviamo davanti in tutta la loro ferocia di servizio. Abbiamo voluto delegare tutto, e questo delegare ci ha uccisi.
Massacrati sulle porte dell'ipermercato mentre rivolgiamo un ultimo pensiero all' iPad che non potremo comprare e desiderando che davanti alla nostra bara i parenti e gli amici in lacrime leggano il discorso di Steve Jobs.

L'Isola di Fuori



Più vado avanti, e più penso che la cosiddetta memoria obbedisca più alla distanza, che al tempo.

La memoria e la lontananza. La memoria e i chilometri. I chilometri contano più dei morti, oltre -naturalmente- che dei vivi; ma sarà normale. Del tutto normale.

E, poi, un anno fa, su quell'isola c'erano persone che, abbiamo il coraggio di dircelo, ci attenevano abbastanza poco. Giovani cittadine e cittadini di un paese benestante e freddo. Cinque venuti persino dal nord del nord, dalle isole Svalbard, ottantun gradi di latitudine; morto, tra di loro, un ragazzino di quattordici anni. Si chiamava Johannes Buø. 

Aveva l'isola nel suo nome; quella " ø " finale. Øya è la forma con l'articolo determinato. L'Isola Finale. L'Isola di Fuori.

No, non erano come noialtri. Non li avremmo nemmeno considerati, se non fosse arrivato da Oslo l'Uomo col Gommone. I giovani del Partito Socialista norvegese, che noi chiamiamo più volentieri "Socialdemocratico". Sono denominazioni, queste, che a noialtri antagonisti, critici radicali e quant'altro fanno venire quasi il voltastomaco; ci ricordano, se abbiamo qualche anno in più, Craxi, Martelli, Nicolazzi. Ci ricordano governi e pentapartiti. Corruzione e monetine.

Ragazze e ragazzi che non "anarcavano". Che non sapevano neppure che cosa fosse, in qualche lontano paese, un centro sociale. Che non avrebbero mai visto né subito una mecelleria messicana. Che non erano mai stati a una manifestazione violenta. Che non avrebbero mai lanciato un sampietrino. Chitarre, canti, dibattiti e discorsi. Qualcuno di loro, magari, avrebbe fatto pure carriera nel partito; qualcuno di loro la farà. 

Come fosse il campus estivo, stabilite le debite differenze, del PD o del Partito Socialista francese. Non so, forse anche per questo ci è passata alla svelta la memoria. Per durare più a lungo, ci sarebbe stato magari bisogno che fosse stato il campus della Gioventù Rivoluzionaria norvegese; ma quale rivoluzione si vorrebbe fare, in un paese che ha la pancia piena. Che gode di diritti invidiabili. Che non ha una polizia assassina. Che galleggia sul petrolio e dove non si vede neanche l'ombra della crisi.

Sostengo invece che, quelle, sono state decine di vite spezzate; e che vite spezzate a quel modo siano identiche, sull'Isola di Fuori come a Gaza. In piazza Alimonda come in piazza Dalmazia. Nel villaggio afghano come nel cinema di Denver. E che nessuno abbia il diritto di pensare ai chilometri e alle idee.

È arrivato l'Uomo sul Gommone, e si è messo a sparare. Dopo mezz'ora eravamo tutti, anche qui, a discutere di brodi di coltura, a fare paragoni, ad ammonire, a dire che non era pazzo ma che veniva da un ben preciso retroterra. Per giorni, il nome di Breivik è stato noto anche ai sassi; per giorni. 

Oggi, sui giornali, quel 22 luglio di un anno fa occupa qualche sparuto trafiletto secondario. Non vedo sui blog che seguo, e non sono pochi, nemmeno una parola. Due giorni fa ho voluto ricordare, come tanti, Carlo Giuliani; ritengo naturale voler ricordare anche quelle decine di ragazze e ragazzi ammazzati come cani da un lucido fanatico.

E lo faccio proprio perché mi sento e continuerò a sentirmi lontano da loro, e non soltanto come distanza chilometrica. Mi sento, assieme a loro, su quell'Isola di Fuori dove è calata la Cancellazione. Dove è calato il maglio dell'Uniformità. Rispondo con questo, e mando alla memoria di quei ragazzi e di quelle ragazze un saluto non soltanto da un paese, ma da un mondo lontano. Da una storia remota. Da un'idea inconciliabile. 

E un ricordo che non scomparirà dalla mia Isola di Dentro.


venerdì 20 luglio 2012

Camicie bianche, cravatte rosse



Il presente blog si fa notare per la voluta e generale assenza di Americhe, occidenti, nord/sud del mondo e quant'altro. Oltre a non ritenere di essere non dico un esperto, ma neppure un appassionato di politiche sociologiche, scontri di "civiltà" e quant'altro (sono rimasto fermo agli scontri di classe, mi perdonerete), proprio non sarei all'altezza e neppure alla bassezza. Inoltre sono ferocemente contrario alla dittatura dei punti cardinali.

Ciononostante, sentendo e leggendo dell'ennesima strage a casaccio (a casaccio?) avvenuta in uno degli Stati Uniti d'America (il Colorado, per la precisione), dove un tizio è irrotto armato fino ai denti in un cinematrografo alla prima di un film sul personaggio di Batman, sparando all'impazzata e commettendo un massacro, qualche breve considerazione mi viene stavolta da farla. Probabilmente, tali considerazioni hanno molto più a che fare con il modo in cui tale episodio viene presentato dai media che con il fatto in sé; ma altro, forzatamente, non si potrebbe fare.

Vediamo dunque queste considerazioni, effettuate senza nessun commento. Sono, quindi, considerazioni riprese direttamente dalle notizie, e niente più.

1. Dell'autore del massacro al cinematografo, tale James Holmes, anni 24, viene immediatamente declinato un importante dato: quello di essere un bianco. L'immagine reperita è quella di un giovane comune, apparentemente vestito in modo cosiddetto classico: camicia bianca, cravatta rossa. Si intravede una giacca scura. Una faccia pulita, curata. Naturalmente questa è soltanto un'immagine tratta dalla vita di James Holmes; per il resto, avrebbe potuto avere mille altri aspetti, come ognuno di noi. Anche il qui presente si è messo a volte (poche) in giacca e cravatta.

2. James Holmes viene quindi presentato come studente fallito (in medicina, per la precisione). Si sarebbe ritirato all'improvviso, qualche tempo fa, dalla sua facoltà universitaria. Se ne evincono due cose: che per essere dichiarato fallito bastano ventiquattro anni di vita (e, forse, ancora meno) ed un ritiro dall'università. Si badi bene: ritiro, non espulsione o cose del genere. La vita umana, come sempre, viene scandita da termini prettamente commerciali: fallisce James Holmes come fallisce un'azienda o la Grecia intera. Individui e collettività in default.

3. La "prima" di un film sul sig. Batman (The Dark Knight Rises, "Il cavaliere oscuro - Il ritorno" nella versione in volgare toscano) è un avvenimento per il quale alcune persone sono disposte a pagare cento dollari per un biglietto (dollari, euro o qualsiasi altra valuta, dato che si tratta di una contemporanea mondiale). James Holmes si presenta non soltanto armato, ma vestito come il "cattivo" del film (tale sig. Bane; si tratta di un antichissimo termine, di origine scandinava, che attualmente significa "disgrazia, causa di sventura"  o anche "veleno"; ma originariamente significava "uccisore, assassino", cfr. la ballata medievale danese Torbens datter og hendes faderbane  "La figlia di Torben e l'assassino di suo padre"). Tant'è che, sembra, sulle prime gli spettatori credono automaticamente che si tratti di una "trovata" organizzata dalla produzione o dal cinematografo stesso. Chiaramente nessuno, nemmeno negli Stati Uniti, si aspetta che andando al cinema arrivi qualcuno a compiere un massacro; non siamo mica in un liceo o in una facoltà universitaria (a proposito).

4. Il presidente, sig. Barack Obama, invita immediatamente a pregare. Anche il suo sfidante alle elezioni presidenziali di novembre, sig. Mitt Romney, invita immediatamente a pregare. Si attiva, come di consueto, il preghierificio; e su questo c'è ben poco da considerare. La cosa interessante è un'altra: i due, infatti, decidono anche di far sospendere (in segno di "lutto") gli spot elettorali televisivi dove si attaccano ferocemente a vicenda, ma soltanto nello stato del Colorado. Negli altri stati, invece, il "lutto" non ha il potere di sospendere un bel niente, e Obama e Romney possono continuare a darsi legnate a vicenda. Nel contempo, il governatore del Colorado, John Hickenlooper, ci tiene a dichiare che il suo stato è "sicuro"; e non c'è motivo di non credergli. Anche Bologna era sicura fino alle 10.25 del 2 agosto 1980. Anche Firenze prima delle 1.27 del 27 maggio 1993. Anche Beirut prima della mattina del 13 aprile 1975. Anche Sarajevo prima delle ore 15 del 6 aprile 1992.

5. La casa produttrice del film, la Warner Bros., decide di annullare la prima a Parigi, con tanto di red carpet. La prima si svolge al cinema "Gaumont-Marignan" sugli Champs Elysées. Gli Champs Elysées sono lontanissimi da Aurora, Denver, Colorado; ma non si sa mai. Anche a Parigi ci sarà pure un sig. Pierre Dupont, fallito a ventiquattr'anni, pronto a procurarsi delle armi per fare un po' di cinema da qualche parte. Il cast del film (Morgan Freeman, Christian Bale, Anne Hathaway) si dichiara "sotto choc": si avverte quasi, da parte della produzione e degli attori, un senso di colpa. Come dire: E' anche colpa nostra, con tutte 'ste violentissime cazzate che propiniamo magari ai bambini. Altrimenti non si spiegherebbe tutto questo choc; ma se il sig. Holmes fosse penetrato in una banca, in un beauty farm o nella sala di un consiglio comunale non sarebbero stati così sconvolti e avrebbero passeggiato sul tappeto rosso, a Parigi.

5. Tra le vittime della strage vi sono molti bambini. Il bambino ha, nelle stragi di qualsiasi genere, uno status particolare (sovente unito a quello della famiglia, anche perché sarebbe ben difficile che lo mandassero al cinema da solo, a mezzanotte oltretutto). Il bambino va a divertirsi, a mangiare i pop corn, a entusiasmarsi per il film, e invece viene ammazzato crudelmente dal sig. James Holmes, fallito a ventiquattr'anni e vestito da sig. Bane. Tutto questo, naturalmente, quando la strage avviene, poniamo, nel cinema di Aurora (Denver). I bambini ammazzati in altre circostanze (tipo, che so io, a Gaza, in Afghanistan, in Siria, in Iraq...) non hanno invece questo status; più sovente, anzi, hanno quello di "vittime collaterali" o, al massimo, di "vittime civili". Ho una modesta proposta: quella di estendere l'appellativo di "vittime civili" (e anche "collaterali") anche ai bambini ammazzati nel cinema di Denver. Anche a quelli ammazzati dai paparini, separati o meno, assieme alle loro mamme. 

6. Una delle vittime della strage al cinema, la sig.na Jessica Ghawi, poco prima di essere inopinatamente uccisa dal sig. James Holmes, spedisce un tweet (o, come si dice qui, twitta). Una cosa banalissima: fa sapere al mondo che il film non comincerà prima di una ventina di minuti. Un tempo lo si sarebbe telefonato a chi lo si voleva far sapere (il fidanzato, gli amici, la famiglia...); in tempi ancora precedenti lo si sarebbe tenuto per sé, dato che è abbastanza normale che un film non cominci che a una data ora. In dieci minuti la notizia fa il giro del mondo, con tanto di immagini della pagina Twitter della povera ragazza: l'ultimo tweet di Jessica. Dopo due minuti si sa tutto di lei: sogni, speranze, aspirazioni. Le nostre ultime parole famose non verrano più pronunciate nei rantoli dell'agonia, ma twittate. Penso, che so io, al sig. Wolfgang Goethe che, in punto di morte, twitta: "Mehr Licht!". Dopo dieci minuti tutti sapranno che voleva fare lo scrittore e ci aveva qualcosa in testa su un giovane, tale Werther, probabilmente fallito. Si dice che volesse farlo entrare in un teatro di Bonn, alla prima di un'opera, armato di schioppo.

7. Dell'autore della strage, il sig. James Holmes, però non si riesce -cosa inaudita- a reperire una pagina Facebook. Niente. Non un profilo, non un panino amato, non un film preferito (ma, a questo punto, mi permetto di dubitare che sia quello su Batman). La cosa appare talmente fuori dall'ordinario che tutti i giornali la mettono in risalto. Una pagina Facebook la hanno tutti, persino Breivik e il Casseri. Ne consegue che la polizia non sa che pesci pigliare, perché un tempo brancolava nel buio quando non trovava delle volgarissime prove (e ci pensavano Sherlock Holmes -ops, un altro Holmes!-, Nero Wolfe o Ellery Queen), mentre ora è alle perse se lo stragista non annuncia qualcosa su Facebook. E ne consegue anche che la mancanza di una pagina Facebook è un simbolo definitivo di fallimento e di pericolosità sociale. State attenti, voialtri, perché non ce l'ho nemmeno io. Se mi vedete entrare in un cinema, cominciate a preoccuparvi. Scherzo, eh! (forse).

8. Scoppiano le consuete polemiche sulle armi libere negli Stati Uniti, quelle che si vendono al supermercato. La polizia entra nell'appartamento del sig. James Holmes, e pare che la trovi piena di bombe. Disgraziatamente, la polizia di solito non twitta  e quindi non se ne sa di più. In realtà, le armi sono libere ovunque e qualsiasi cosa può essere un'arma; negli Stati Uniti al supermercato si comprano i fucili mitragliatori, e in Italia le forchette. E non mi dite che a forchettate da cucina non si possono compiere stragi, anche negli USA: Charles Manson insegna. I coniugi LaBianca furono trovati afforchettati a morte, no? Ed ecco partire le guerre sulla NRA, sulle potenti lobbies, su Charlton Heston, su tutto e sul contrario di tutto; ma credo che le cose stiano un po' diversamente. Anzi, parecchio diversamente. E che le armi, "libere" o "regolamentate" che siano, restino armi. E che, ad esempio a casa nostra, avvengono quotidianamente stragi orrende con "armi regolarmente detenute", spesso da chi le detiene per lavoro. Tipo il papà carabiniere che ammazzò a revolverate la figlia tredicenne perché gli aveva disubbidito e stava troppo su Facebook. E la ragazzina non fece nemmeno in tempo a spedire il suo ultimo tweet.

9. Torna il cavaliere oscuro. Ne tornano parecchi, ogni giorno, in questa luminosa società capitalista. Quella dei falliti a ventiquattr'anni, dei tweet , dei tappeti rossi e di tutto il resto. Fine delle considerazioni. Buona visione del film, domani; in fondo, il sig. James Holmes gli ha fatto una discreta pubblicità, anche se durerà lo spazio di un paio di giorni. Con la sua camicia bianca, con la sua cravatta rossa.

Carlos Julián


Dicono che abbia cambiato nome, ma solo leggermente. Dicono che ci sia stata una fuga. Dicono che lo cercano ancora per fargliela pagare. Dicono che è ovunque; dicono che l'ovunque è in lui. Dicono che riesce a nascondere tutti. Dicono che undici anni fa c'era già tutto. Dicono che a Madrid lo si è visto in mezzo alla rivolta. Dicono che è sceso nelle fosse asturiane, e che ne è risalito con il piccone e la dinamite. Dicono che ora non è più un ragazzo. Dicono che qualcuno, ogni tanto, lo riconosce, gli sorride e prosegue. Dicono che ogni venti di luglio se ne va, da solo, a bersi qualcosa alla salute di chi non si sa; ma per due minuti scarsi, senza tristezza, beffardo. Dicono che abbia dormito anche nella plaza de toros; dicono che sia stato lui a dire ai bomberos di togliersi le mutande. Dicono che, ogni tanto, lo si sente al telefono parlare con un tale Dax; dicono che sia arrivato al porto di Palos su un gommone nero, ma che non sia ripartito a scoprire continenti. Dicono che, là dov'è ora, sono gli stessi; gli stessi scudi, gli stessi ordini, gli stessi servi. Dicono: no los creáis. Serena dice che la rivoluzione non la fanno i morti, e lui non è morto. Non sono morti. Non possono essere morti. Non saprebbero, mai, essere morti.

martedì 17 luglio 2012

Facemistade






Che ci fanno queste pagine
stracolme di offese,
queste facce divise,
le parole fraintese,

andé-a-oo,
andé-a-oo

Le chattate di ghiaccio,
la frase malintesa,
ché il nemico virtuale
ti costringe alla resa

andé-a-oo
andé-a-oo

Due gruppi assetati di sangue
si insultano a stesa,
e per tutti taggare quegli altri
è la normalità.

Si accontenta di grandi scemenze
la guerra di Facebook,
il messaggio lasciato da Piero
a Gèssica in basso

Si soddisfa di corti spietate
sul piccì di casa,
una flame di sangue,
un'amicizia rifiutata per cena.

E a ogni request qualcosa, ogni giorno
si domanda fortuna.

Che ci fanno le mie figlie
sulla page di Gianni,
che forse è un falegname
di cinquantatré anni

andé-a-oo
andé-a-oo

E mio figlio col nick
Bombarolo incazzato”,
qualcosa non mi torna,
ero io l'impiegato

andé-a-oo
andé-a-oo

E una vita stravolta a cliccare
su facce di merda,
fra filmini, canzoni, viaggetti
ed ex fidanzate

Diecimila amicizie in bacheca
e scoprire che invece
sei solo come un cane, anzi un cane
per te avrebbe pietà.

E poi spegni quel coso
e la Gèssica non te la dà.

Quattro disamistadi
ed un post che da un mese dura,
per trovarsi schedato da solo,
meglio che in questura.

Che ci fanno queste pagine
stracolme di offese,
queste facce divise,
le parole fraintese.

Il video della "Disamistade" originale è corredato da immagini tratte dal film "La destinazione". "Facemistade" può pronunciarsi, a scelta, "feismistàde" o, alla sarda, "faccemistàde". So comunque che qualcuno dirà "feismistèid".

lunedì 16 luglio 2012

Magnifici perdenti



Massimiliano Larocca è sicuramente magnifico. Nel 2011 diceva che il suo nuovo album sarebbe uscito nel 2012, e ora che siamo nel 2012 dice che uscirà nel 2013. Non c'è di che aversene; qui non si sta parlando di Springsteen che riempie gli stadi, ma di gente che combatte per la propria musica e per le proprie parole. Di gente che riempie il teatrino di Cento (Ferrara), il pub di Brenno (Como) e il “Chille de la Balanza” nell'ex manicomio di San Salvi, a Firenze. E' un po' di tempo che non lo vedo e non lo sento, il Larocca, e, sicuramente, la mia (sempre maggiore) avversione nei confronti di Facebook ci avrà messo del suo; però, poi, capita che una domenica mattina qualcuno mette un vecchio cd nello stereo, e si capisce che è arrivato il momento, magari, di fare una telefonata o di mandare un piccione viaggiatore. O un messaggio nella bottiglia. Mi sembra d'aver sentito dire che il Larocca, fra poco, andrà sposo; o forse si tratta soltanto d'una ventata mista a un sogno all'alba. Sì, ve lo avevo detto che è magnifico, e magnifiche sono le canzoni che scrive e che conoscono i frequentatori di pub, di teatrini, di improbabili feste del partito riformista o rivoluzionario, e di manicomi. Chissà che fra un paio di giorni non ci s'incontri sull'autobus o vicino alla ferrovia mentre passano i treni; e intanto, le canzoni già volano per l'aria.

Questa qua si chiama Magnifici perdenti; anche il nuovo album, quello che si dice uscirà nel 2013, si chiama così. Mi sembra d'aver già sentito qualcosa del genere, anche se non era una canzone; era un romanzo, scritto però da uno che con le canzoni ci aveva qualcosina a che fare, tale Leonard Cohen. Beautiful Losers, mi par che si chiamasse. Non avendolo mai letto, non so se questa canzone ci abbia qualcosa a che vedere; so soltanto che al Larocca, nello scriverla, dev'esser passata qualcosa dentro, e passata in ogni direzione. Passata mentre si rivedeva, chissà, in tutti quei postacci dove qualche volta ci siamo beccati, stando bene e stando male, stando in piedi e stando chini, a volte ubriachi come madonne che piangono tequila, a volte con quelle donne che sembrava che non andassero e che invece sono partite, a volte a guardare le macchine passare per la strada; posti che ci sono ancora o che non esistono più, e amicizie finite nell'odio, e pezzi di strada che son terminati, e chissà cos'altro. E siamo ancora in piedi a prendere botte, a giocare al coltello... qualche sogno in tasca, e con queste facce che proprio non cambiano mai. Per questo, credo, il Larocca ha scritto questa canzone. Che può parlare di lui stesso come di me. Che può parlare di te come di nessuno. Che ora vi faccio ascoltare, ché sul Tubo ce ne sono ben tre video, per un totale di ben 218 visualizzazioni. Ci ha più visualizzazioni il video del cagnolino scemo o di tuo figlio che caca sul vasino, dei Magnifici Perdenti del Larocca; non va mica bene.



Siamo ancora in piedi
a prendere botte, a giocare al coltello,
qualche sogno in tasca
e con queste facce che proprio non cambiano mai...

Gettati in queste strade,
con poche premesse, da una mano invisibile
restare a testa alta
per chi corre controcorrente è impossibile...

Dacci un tuo segnale
o dimentica per sempre,
se cerchi ancora un nome
puoi chiamarci in mezzo ai denti
magnifici perdenti.

Dietro al fumo dei motori
si consumano i migliori,
siamo come tanta gente
o come cani in mezzo al niente...

Sempre in cerca di un riparo
o in ritardo per il cielo,
c'è chi vince, c'è chi prende,
c'è chi infine poi si arrende...

Tutti in fila al sabato
a inseguire il paradiso,
quando l'alba spezzerà la notte
noi saremo ancora assenti,
magnifici perdenti.

Siamo ancora in piedi,
a prendere botte, a giocare al coltello,
qualche sogno in tasca
e con queste facce che proprio non cambiano mai...

sabato 14 luglio 2012

Di fascisti, futuristi, millenni &c.


Mi scuso con l'amico Alsalto per avergli "preso in prestito" il ritrattino del Dvcetto di Casaclown da lui opportunamente chiosato. Era già perfettamente confezionato, e io sono notoriamente pigerrimo.

Nel commentare senza pretese il gustoso episodietto di Viterbo, in cui il coraggioso intellettuale futurista finiano è stato arrovesciato a manate nel muso dal fascista del terzo millennio Gianluca Iannone, sono invero un po' combattuto.

Da un lato, sarei tentato almeno per una volta di sganasciarmi dal ridere di fronte al trucido fascistone dall'aspetto mangiafuochesco che va a fare la spedizione punitiva al festivaletto del lindo giòvine neanchepiùfascista; poi, però, mi viene a mente che il tizio di cui sopra era pure il Führer di quel signore che dalle montagne pistoiesi andava a sparare addosso ai senegalesi al mercatino. E le risate mi muoiono in bocca.

Dall'altro, mi viene pure a mente che il capetto (o "referente") del signor Filippo Rossi, vale a dire l'oggetto delle manate dello Iannone, è uno il cui cognome ce lo ritroviamo, che so io, su una certa legge che di immigrati ne ha contribuiti a ammazzare ben più del Casseri in piazza Dalmazia. Il suo nome e quello di un altro, uno che ci ha la family e il primogenito laureato in Albania.

Oppure ce lo ritroviamo in certe vecchie immagini, mentre stava in cabina di regia alla questura di Genova, giusto giusto undici anni fa. Ora fa sapere che il mondo di Iannone è lontanissimo dal suo, ma allora non era così lontano, tutt'altro. Era particolarmente vicino a quello di Augusto Pinochet, a quello dei celerini e dei carabinieri assassini, a quello dei funzionari che massacravano di botte i quindicenni.

Terminati i rovelli interni e placate le pur comprensibili risate, non posso fare a meno di pensare anche alle altre "spedizioncine" organizzate da Casaclown. C'è chi la definisce, non senza ragione, poco più di un'operazione di marketing, un punto vendita di gadgettini e quant'altro; ma sarebbe bene anche non liquidarla con troppa sufficienza un po' blasée.

Tanto più che, come accaduto recentemente nella stessa Firenze, le si concedono sedi in pieno centro, e addirittura a pochi metri dalla QVESTVRA. C'è chi pensa che, addirittura, non ne sia altro che una filiale, una sede distaccata.

Perché con questi qui, fra futuri, millenni eccetera, si va come per magia & incantamento sempre a finire lì: fra i questurini. Che siano lindi e democratici, che siano truci e fascistoni old style, verso la sbirraglia hanno sempre un'attrazione fatale. Passata, presente e futura.

Sì, la tentazione di farsi grasse risate al pensiero che si prendano a ciaffate a vicenda è forte. Poi, però, ci ritroviamo sempre quella legge, e quei CIE, e quei ricordi d'un pezzo di merda a dirigere la mattanza.

Oppure ci ritroviamo Samb e Diop, ci ritroviamo le femministe di Massa in mezzo alle grida "speriamo che ti violentino e tu abortisca", i centri sociali incendiati e tutto il resto. 

Ci ritroviamo, e come dubitarne, anche la solidarietà di Roberto Saviano; e con questo il panorama è completo. Non manca nessun tassello. Con il desiderio sempre più forte di una scopa che li spazzi via tutti: fascisti, futuristi e anche i millenni. Tutti nella spazzatura dove dovrebbero stare, magari in compagnia di Saviano (che non perderebbe occasione, va da sé, di esprimere solidarietà alla discarica). 

venerdì 13 luglio 2012

mercoledì 11 luglio 2012

Otium. Ὁ Σάρδος πατριώτης.


Non senza un granello di ragione (che, comunque, mai ricerco o, peggio, esigo) ritengo che l'otium, nel senso classico del termine, sia una delle principali strategie rivoluzionarie attuali. La mia situazione "lavorativa" è pessima, non godo di ottima salute (e, con uno squisito paradosso, non sono mai stato meglio in vita mia) e potrei arrivare a servire un'insalatina di aconitus napellus a chi mi nomini la parola "futuro". "Bisogna che tu ti dia da fare!", mi dicono; e, infatti, a partire dal 23 aprile scorso mi sono dato moltissimo da fare. Per tradurre Su patriottu Sardu a sos feudatarios (noto anche cone Procurad' e moderare, barones, sa tirannia) in greco. Lo conoscete tutti, no, il famoso inno libertario scritto alla fine del '700 dal giurista di Ozieri Francesco Ignazio Mannu? No? Beh, pazienza. Tempo fa, mi sembra, addirittura ne fu accennata qualche strofa da Francesco Guccini assieme a un gruppo di Tenores, che non mi ricordo se erano di Bitti, di Neoneli, di Orgosolo o di Abbiategrasso (questi ultimi, probabilmente, non ci sono; però immaginarsi dei Tenores di Abbiategrasso mi riempie di composta letizia). Dico "qualche" strofa, perché il testo originale completo consta di quarantasette ottave fitte come rèna. Quando il mio rivoluzionarièrrimo otium m'ha comandato, perfido, di sagrificare il tempo-denaro (ed anzi di mandarlo letteralmente in culo) per ellenizzarlo, mi son detto che non sarebbe stato autentico se mi fossi limitato a metterlo nel greco d'oggi; l'inno è del 1794, e quindi bisognava farlo nel greco del 1794. Il quale era un bizzarro idioma, un miscuglio di forme moderne e classiche, un "pot pourri" nel quale ognuno poteva metterci del suo assolutamente certo di non essere capito praticamente da nessuno. Non potevo perdere un'occasione del genere per aggiungere anche questa alle già tante cose totalmente inutili della mia vita. Perdere il gusto e il culto dell'inutilità più totale mi condurrebbe a rapida morte. E così mi ci sono voluti quasi tre mesi, dovendo oltremodo comporre il testo con tutti i necessari "spiriti" e con il sistema politonico (acuto, grave e circonflesso). Eccolo qua, il "Procurad'e moderare" in greco tardo-settecentesco, che vorrei dedicare ad eventuali amici sardi e greci. Le cose che vi si dicono sono comunque assai degne e senza tempo, e la tirannia del tempo è un'altra cosa che dovrebbe essere abbattuta senza pietà. Buona lettura a chi lo desidera.

Ο ΣΑΡΔΟΣ ΠΑΤΡΙΩΤΗΣ ΕΙΣ ΤΟΥΣ ΦΕΟΥΔΑΡΧΟΥΣ
ΠΡΟΣΕΧΕΤΕ ΝΑ ΜΕΤΡΙΑΣHΤΕ
, ΒΑΡΟΝΟΙ, ΤΗΝ ΤΥΡΑΝΝΙΑΝ

1.
Προσέχετε νὰ μετριάσητε,
ὦ βαρόνοι, τὴν τυραννίαν,
ἀλλιῶς, διὰ τὴν ζωή μου,
θὰ πᾶτε κατωχώρι!
Κηρύσσεται ὁ πόλεμος
κατὰ τῆς αὐθάδειας
καὶ ἀρχίζει ὁ λαός
νὰ χάσῃ τὴν ὑπομονήν.

2.
Προσέχετε, ποὺ ἀνάβεται
κατ' ἐσᾶς ἡ φωτιά,
προσέχετε, ποὺ δὲν εἶναι
παιχνίδιον ἀλλὰ πράγμα
καὶ ἀπειλὴ θυέλλας.
Ὦ ἄνθρωποι ἀπερίσκεπτοι,
ἀκούστε τὴν φωνήν μου.

3.
Πάψτε νὰ σπηρουνίσητε
τὸ ἄλογον το πτωχόν,
ἀλλιῶς μέσα 'ς τὸν δρόμον
θὰ ἀφηνιάσῃ ἐπὶ τέλους.
Προσέχετε, ποὺ κουρασμένον
δὲν τὸ ἀντέχει πιά,
καὶ τελικὰ θὰ ῥίξῃ
ἀνάποδα τὸν καβαλάρη.

4.
Ὁ λαὸς ποὺ εἶχε πέσει
εἰς βαθὺν λήθαργον,
ἐξύπνησε ἐπὶ τέλους
καὶ βλέπει τὰ δεσμά του
καὶ πληρώνει τώρα
τὴν παλαιάν του νωχέλειαν.
Φέουδον, ἐχτρικὸς νόμος
πάσης καλῆς φιλοσοφίας.

5.
Ὡς ἂν νὰ εἶναι ἀμπέλια
ἢ κάμποι ἢ χωράφια
ἐπούλησαν τὰ χωριά
δωρεὰν ἢ εὐτελῶς,
ὡς ἂν εἶναι πράγματι
κοπάδια προβάτων
ἐπούλησαν ἄνθρωπους
καὶ γυναῖκες μὲ τὰ παιδιά των.

6.
Δι' ὀλίγων χιλιάδων φράγκων
καὶ ἐνίοτε δι' οὐδενός
ζοῦνε 'ς τὴν σκλαβιά
τόσον πολλοὶ πληθυσμοί
καὶ χιλιάδες ἀνθρώπων
τοῦ τυράννου 'ναι σκλάβοι.
Τὸ ἀνθρώπινον εἶδος το πτωχόν,
καὶ πτωχός ὁ Σάρδος λαός!

7.
Δέκα ἢ δώδεκα οἰκογένειαι
διένειμαν τὴν Σαρδηνίαν
καὶ ἀναξίῳ τρόπῳ
ἐκυριεύσαν αὐτήν,
διένειμαν τὰ χωριά
'ς τὴν σκοτεινὴν αρχαιότητα,
μὰ 'ς τὴν σημερινὴν ἐποχήν
ὄλα θὰ τὰ ἐπανορθώσωμε.

8.
Γεννιέται ὁ Σάρδος ὑποταγμένος
εἰς χιλιάδες ὑποχρεώσεων,
εἰσφορὰς καὶ φόρους πρέπει
νὰ τους πληρώσει 'ς τὸν ἀφέντη
εἰς ζωικὸν καὶ σίτον,
εἰς χρήματα καὶ εἰς εἶδος
καὶ πληρώνει διὰ βοσκήν
καὶ διὰ καλλιέργειαν γῆς.

9.
Πολὺν χρόνον πρὶν ὑράρξωσι
τὰ φέουδα, ὑπῆρχαν τὰ χωριά
καὶ αὐτὰ ἐκτῶντο
τὰ δάση καὶ τοὺς κάμπους.
Πῶς ἐσᾶς, ὦ βαρόνοι,
ἐπερνοῦσε ἡ ἰδιοκτησία;
Αὐτὸς ποὺ σᾶς ἔδωκέ την
δὲν ἠδύνατο νὰ σᾶς δώσῃ.

10.
Εἶναι ἀδιανόητον
ποὺ παραιτήθη ὁ πτωχός
ἀπὸ τὴν ἰδιοκτησίαν του.
Συνεπῶς εἶναι ὁ τίτλος
παράνομη οἰκειοποίησις,
καὶ οἱ χωριάτες ἔχουσι
τὸ δίκαιον ν' ἀντιτίθενται.

11.
'ς Τὴν ἀρχὴν τουλάχιστον
φόρους ἀπαιτούσατ' εὐτελεῖς,
ἀλλ' ἔπειτα τους ἔχετε αὐξήσει
ἡμέραν μεθ' ἡμέρας
ὥστε μὲ τὴν αὔξησίν των
ἐγίνατε παραπλούσιοι,
καὶ μὲ σπατάλην χρήματος
πᾶσαν οἰκονομίαν ἀμελούσατε.

12.
Εἶναι ἀνώφελον νὰ ὁμιλεῖτε
δι' ἰδιοκτησίαν παλαιᾶς ἐποχῆς
ἀπειλοῦντες φυλακήν
ποινὰς καὶ τιμωρίαν,
δεσμὰ καὶ ἀλυσίδες.
Τοὺς πτωχοὺς ἀγενεῖς
τους ἐξαναγκάσατε νὰ πληρώσωσι
ὑπέρογκους φόρους.

13.
Ἄν τουλάχιστον τὰ χρήματά σας
τα χρησιμοποιήσητε ὑπὲρ τῆς δικαιοσύνης
καὶ νὰ τιμωρεῖτε τὴν μοχθηρίαν
των κακοποιῶν τοῦ τόπου!
Οὔτω, τουλάχιστον, οἱ τίμιοι
θὰ εἶχαν παρηγορίαν
καὶ θὰ δυνηθοῦν νὰ πᾶνε καὶ 'ρθοῦνε
ἥσυχοι 'ς τὸν δρόμον.

14.
Αὐτὸς εἶναι ὁ σκοπός
ποὺ μόνον τὸν ἔχουν οἱ φόροι
νὰ ζοῦμε ἥσυχοι
καὶ ἀσφαλεῖς ὑπὸ τοῦ νόμου
ἀλλ' αὐτὸ μᾶς στεράει
ὁ βάρονος διὰ φιλαργυρίας.
'ς Τὰ ἔξοδα ὑπὲρ τῆς δικαιοσύνης
μόνον κάνει οἰκονομίαν.

15.
Ὁ πρῶτος ποὺ παρουσιάζεται
ἐκλέγεται λειτουργός,
ἂς πράξει ἄσχημα ὡραῖα,
ἀρκεῖ νὰ μὴν ἀπαιτήσῃ μισθόν·
ἐπίτροπος ἢ συμβολαιογράφος,
ὑπερήτης ἢ λακκές,
λευκὸς ἢ μαῦρος,
εἶναι ἀρμόδιος νὰ κυβερνᾶ.

16.
Ἀρκεῖ ν' ἀγωνίζεται
γιὰ ν' αὐξήσῃ τὸ εἰσόδημα,
ἀρκεῖ νὰ γεμίσῃ
τὸν σάκκον τοῦ ἀφέντη,
νὰ βοηθήσῃ τὸν ἐπικεφαλήν,
νὰ εἰσπράξῃ ταχέως,
κι ἂν ὑπάρξωσι ἀπειθεῖς
νὰ τους βάλῃ ἐνέχυρον.

17.
Ὡς ἂν εἶναι ὁ φέουδαρχος
ἐνίοτε ὁ παππᾶς κυβερνᾶ,
μὲ τὰ χωριά 'ς ἕνα χέρι
καὶ τὴν ἄδεια 'ς τὸ ἄλλο.
Φέουδαρχε, σκέψου
ποὺ δὲν ἔχεις τοὺς ὑποτελεῖς
μόνον διὰ ν' αὐξήσῃς τὰ χρήματά σου,
μόνον διὰ νὰ τους γδάρῃς.

18.
Τὴν περιουσίαν και τὴν ζωήν
διὰ νὰ προασπίσῃ, ὁ χωριάτης
πρέπει νὰ μένῃ νύκτα καὶ ἡμέραν
μὲ τ' ἄρματα 'ς τὰ χέρια·
ἀφοῦ ἔτσι ἔχουν τὰ πράγματα,
διότι νὰ πληρώσωσ' τόσας φοράς ;
ἐπειδὴ δὲν ἀποδίδουν ὀφελόν
εἶναι τρέλα νὰ τας πληρώσωσι.

19.
Ἐάν ὁ βάρονος μὴν ἐκπληρώσῃ
τὰ καθήκοντά του πρὸς ἐσένα,
δὲν ἔχεις, ὑποτελά,
καθήκοντα πρὸς αὐτόν·
αἱ φοραὶ, τὰς ὁποίας
σοῦ ἀπέσπασε μὲ τὸν χρόνον
εἶναι χρήματα κλεμμένα
καὶ πρέπει νὰ σοῦ τα ἐπιστρέψῃ.

20.
Τὰ εἰσοδήματα τοῦ χρησιμεύουσι
μόνον νὰ συντηρεῖ ἐρωμένας,
δι' ἀμάξας και στολάς,
δι' ἀνώφελας ὑπηρεσίας,
νὰ τρέφῃ τὰ βίτσια του,
νὰ παίζῃ μπασέτα
καὶ νὰ ἐξεσπάσῃ ἐκτὸς τοῦ οἴκου
τὰς ὀρέξεις του.

21.
Καὶ νὰ ἔχῃ εἴκοσι εἰδῶν
ἐδέσματα ἔτοιμα 'ς τὸ τραπέζιον,
νὰ δύνηται ἡ μαρκησία
να ὑπάγῃ πάντα μὲ τὸ ὄχημα,
μὲ σφικτὰ ὑποδήματα
ἡ καημένη κουτσαίνει,
θίγουσ' αἱ πέτραι παρὰ πολύ,
δὲ δύναται νὰ βαδίσῃ.

22.
Μόνον νὰ φέρῃ γράμμα
ὁ υποτελής ὁ καημένος
κάνει ἡμερῶν δρόμον
ἀμισθωτός μὲ τὰ πόδια,
ξυπόλητος, ἡμιγυμνός
κακοκαιρίᾳ ἐκτεθειμένος,
καὶ ὅμως ὑπομένει
καὶ ἀμίλητος σιωπᾶ.

23.
Ἰδοῦ σὲ τί χρησιμεύει
ὁ ἵδρως τῶν πτωχῶν!
Τόσην ἀδικίαν, Κύριε,
πῶς δύνασαι νὰ φέρῃς ;
ᾮ θεῖα Δικαιοσύνη,
ἐπανόρθωσε τὰ πράγματα,
ῥόδα ἐκ τῶν ἀγκαθιῶν
ἐσὺ μόνον δύνασαι νὰ γεννήσῃς.

24.
ᾮ πτωχοὶ τῶν χωριῶν,
δουλεύετε καὶ δουλεύετε
νὰ συντηρεῖτε 'ς τὴν πόλιν
τόσους ὡραίους ἵππους,
ἐσᾶς ἄχυρον ἀφήνουν
κι αὐτοὶ παίρνουν τὸν σῖτον
καὶ σκέπτονται βράδυ πρωί
μόνον πῶς νὰ πλουτίσωσι.

25.
Ὁ κύριος ὁ Φεουδάρχος
ἐξυπνᾶ 'ς τὲς ἕνδεκα·
ἀπ' τὸ κρεββάτι 'ς τὸ τραπέζιον,
ἀπ' τὸ τραπέζιον 'ς τὸν τζόγον
κι ἔπειτα νὰ διασκεδάσῃ
μὲ τὰς ἐρωμένας του
κι ἔπειτα ὡς τὴν δύσιν
θέατρον, χοροὶ, χαρά.

26.
Πόσον διαφορετικῶς
περνᾶ τὸν καιρὸν ὁ ὑποτελής!
Πρὶν τῆς αὐγῆς
εἶναι ἤδη 'ς τοὺς κάμπους.
Φυσᾶ ἤ χιονίζει 'ς τὰ ὄρη,
καίει ὁ ἥλιος 'ς τὴν πεδιάδα,
καὶ πῶς δύναται ὁ καημένος
νὰ ἀντέξῃ τόσον ἐπὶ μακρόν;

27.
Μὲ σκαπάνην καὶ ἄροτρον
ἀγωνίζεται ὅλην τὴν ἡμέραν
καὶ γύρῳ εἰς τὸ μεσημέριον
μόνον τρέφεται μετ' ἄρτον.
Καλύτερα τρώγει ὁ σκύλος
τοῦ βαρόνου εἰς τὴν πόλιν,
ἐὰν αὐτὸς εἶναι τοῦ εἴδους
ποὺ τὸν φέρνουνε 'ς τὴν τσέπη.

28.
Φοβουμένη μὴ πέσωσι
ταραχαὶ τόσον μεγάλαι
μὲ σκευωρίας καὶ δόλον
ἐπέμβηκε ἡ Αὐλή
καὶ ἐσκόρπισε καὶ διέλυσε
τοὺς ἐπιμελεστάτους πατρίκιους
λέγουσα ὄτι ἦσαν αὐθάδεις
καὶ ἀντετίθεντο τὴν μοναρχίαν.

29.
Εἰς τοὺς ἀγωνισθέντες
ὑπὲρ τῆς πατρίδος,
εἰς τοὺς τὰ ὅπλα λαβόντες
ὑπὲρ τοῦ κοινοῦ ἀγῶνος
ἤ θελειὰν εἰς τὸ λαιμόν
ἠθέλανε νὰ βάλωσι,
ἤ ὡσὰν Ἰακωβινούς
ἤθελαν νὰ τους σφάξωσι.

30.
Ἀλλ' ἐπροστάτευσε ὁ Θεός
τοὺς καλοὺς φανερῶς,
γκρέμισε τοὺς ἰσχυρούς
κι ἀνέβαλε τοὺς πτωχούς.
Ἐδηλώθη ὁ Θεός
ὑπὲρ τῆς πατρίδος μας
κι ἀπὸ πᾶσαν ἀπειλήν
θὰ μᾶς σώσῃ.

31.
Δόλιε φέουδαρχε!
Ὑπὲρ ἰδιωτικοῦ κέρδους
ἀνοικτὸς προστάτης
εἶσαι τῶν Πιεμοντέζων·
μ' αὐτοὺς συνεφώνησες
εὐκόλως μάλιστα,
αὐτοὶ τρῶνε 'ς τὴν πόλιν
κι ἐσὺ 'ς τὰ χωριά.

32.
Ἡ Σαρδηνία δι' αὐτούς
ἦσαν γῆ τῆς ἐπαγγελίας·
ὡσάν ἡ Ἱσπανία 'ς τὰς Ἰνδίας
μένανε 'δῶ οἱ Πιεμοντέζοι.
Ἀκόμα κι ὁ ὑπηρέτης
διῷκει μᾶς διὰ τῆς ῥάβδου,
εἴτε χωριάτης, εἴτ' ἄρχων
ἔπρεπ' ὁ Σάρδος νὰ ὑπακούσῃ.

33.
Ἀπὀ τὴν γῆν μας
ἔκλεψαν ἑκατομμύρια,
ἦρχοντο γυμνοί
καὶ ἔφευγαν πλούσιοι.
Εἴθε νὰ μὴν ἦρχοντο ποτέ,
γιατὶ μᾶς ἔκαψαν ὅλα!
Καταραμένη νά' ναι ἡ χῶρα
ποὺ τέτοιαν γενιὰν γεννᾶ.

34.
Αὐτοὶ ἔκαμαν ἐδῶ
συμφέροντα προξενιά,
δι' αὐτούς αἱ εργασίαι,
δι' αὐτούς αἱ τιμαί
καὶ τὰ ὑψηλότατα ἀξιώματα
ἐκκλησιαστικά, δικαστικά, στρατιωτικά·
καὶ εἰς τὸν Σάρδον μόνον ἔμεινε
τὸ σκοινὶ νὰ κρεμασθῇ.

35.
Μᾶς ἔστειλαν τοὺς χειρότερους
διὰ τιμωρίας καὶ ποινῆς,
μὲ μισθὸν καὶ σύνταξιν,
μὲ λειτούργημα καὶ ἄδειαν.
Εἰς τὴν Μοσκόβαν τέτοιους
τοὺς στέλνουν 'ς τὴν Σιβηρίαν,
ἀλλὰ νὰ πεθάνουν εἰς πενίαν,
ὄχι νὰ κυβερνᾶνε.

36.
Καὶ εἰς τὴν νῆσον μας
ἀρκετοὺς νέους προικισμένους
μὲ πολλὰ και μεγάλα χαρίσματα
τοὺς ἀφήνανε εἰς τὴν ἀεργίαν,
καὶ ἐὰν κάποιους ἀπησχολοῦντο
τότ' ἐζητοῦντο τοὺς ἠλίθιους
διότι σ' αὐτοὺς τους συνέφερε
νὰ διαθέτουν βλακώδεις.

37.
Ἐὰν, εἰς ὑποτακτικὰς ἐργασίας,
κάποιος Σάρδος ἔκανε προόδους,
νὰ κάνῃ δῶρα δὲ τοῦ ἦσαν ἀρκετόν
νὰ ἐξοδέψῃ τὸ ἥμισυ τοῦ μισθοῦ του.
Εἴχαμεν νὰ στείλωμεν
ἵππους ράτσας εἰς Τορίνον
καὶ κιβώτια ἐξαιρετικοῦ οἴνου,
Καννονάου καὶ Μαλβαζίας.

38.
Νὰ διαβεβαιωθῶσι εἰς τοὺς Πιεμοντέζους
ὁ ἄργυρος καὶ ὁ χρυσός μας,
εἶναι τῆς κυβερνέσεως των
ἡ ἀρχή ἡ κανονική.
Τὸ βασιλεῖον τῆς Σαρδηνίας
δὲ τους ἐνδιαφέρει τίποτα,
καὶ μάλιστα, πιστεύουσι
ὅτι δὲν πρέπει νὰ εὐημερᾶ.

39.
Τῆν νῆσον κατέστρεψαν
οἱ νόθοι αὐτοί,
καὶ μᾶς ἤρπασαν
τὰ προνόμια ποὺ εἴχαμεν,
ἐκ τῶν ἀρχείων ἔκλεψαν
τὰ σημαντικότατα μας ἔγγραφα
καὶ ὡς ἀνώφελα γραπτά
τὰ παρέδωσαν εἰς τὰς φλόγας.

40.
Ὁ Θεός ἐν μέρει μᾶς ἐλευθέρωσε
ἀπὸ τούτην τὴν συμφοράν,
οἱ Σάρδοι ἐδίωξαν αὐτόν
τὸν μισητὸν ἐχθρόν.
Καὶ σὺ εἶσαι ὁ φίλος του,
ἀνάξιε Σάρδε βαρόνε,
καὶ ἀγωνίζεσαι
νὰ κάνῃς νὰ ἐπιστρέψῃ!

41.
Δι' αὐτὸ ἀναιδῶς μάλιστα
παρακαλεῖς τὸν Πιεμοντέζον.
Ὑποκριτή σημαδεμένε
τῆς προδοσίας τῷ στίγματι!
Τόσον πολὺ αἱ θυγατέρες σου
τιμᾶν τόν ξένον ὥστε
καὶ νἆναι λουτροπλυντῆρ
ἀρκεῖ νὰ μὴν εἶναι Σάρδος.

42.
Ἐὰν ὑπάγῃς εἰς τὸν Τορῖνον,
ἐκεῖ πρέπει νὰ φιλεῖς
τοῦ ὑπουργοῦ τὰ πόδια,
κι ἄλλων τὸν πρωκτόν.
Ν' ἀποκτήσῃς ὅ,τι θέλεις
πωλεῖς τὴν πατρίδα σου
κι ἴσως προσπαθήσῃς κρυφῶς
τοὺς Σάρδους νὰ 'ξωφλήσῃς.

43.
Ἐκεῖ ἄφησες τὰ χρήματά σου
και ἐπέστρεψες μὲ σταυρόν
ὡς παράσημον ἐπὶ τοῦ στήθους,
καὶ μὶα κλεῖδα 'ς τὸν πισινόν.
Διὰ νὰ κτίσῃς τὸν στρατῶνα
τὸν οἶκον κατέστρεψες
καὶ ἐκέρδισες τὸν τίτλον
κατασκόπου καὶ προδότου.

44.
Ἀλλ'ὁ οὐρανὸς δὲν αφήνει
πάντα τὸ κακὸν νὰ θριαμβέψῃ·
πρέπ' ὁ κόσμος τὰ πράγματα
νὰ ἐπανορθώσῃ ἃν ἄδικα.
Αδύνατον νὰ διαρκεῖ
αὐτή ἡ φεουδαρχία,
βεβαίως θὰ τελέσῃ
τῶν λαῶν ἡ πώλησις.

45.
Ὁ ἄνθρωπος ποὺ τὸ ψεῦδος
τὸν εἶχε ταπεινώσει
φαίνεται ὡς παλαιάν
ἀξιοπρέπειαν ἐπανακτεῖ,
καὶ ὡς πάλιν διεκδικεῖ
τὴν θέσιν του 'ς τὴν κοινωνίαν.
Ὦ Σάρδοι μου, ἐξυπνᾶτε
αὐτῇ τῇ ὁδηγίᾳ!

46.
ᾮ λαοί, ἔφθασε ἡ ὧρα
τὴν ἀδικίαν ν' ἀφαιροῦμεν!
Κάτω ἡ κακοηθία,
κάτω οἱ δεσπόται!
Πόλεμον εἰς τὸν ἐγωισμόν,
πόλεμον εἰς τοὺς τύραννους!
Τούτους τοὺς ἀνίκανους
πρέπει νὰ ταπεινώσωμεν.

47.
Ἀλλιῶς, μίαν ἡμέραν
θὰ δαγκώσητε τὰ χέρια σας,
νῦν ποὺ ἔχετε τὸ ἐξύφασμα
χρειάζεσθε νὰ ὑφαίνητε.
Προσέχετε νὰ μὴν γίνῃ
άργά ἡ μεταμέλεια,
ὅταν καλὸς ἔλθῃ ἄνεμος
πρέπει νὰ ἀλωνίσωμεν.

martedì 10 luglio 2012

Di Siria e quori


Sono una persona limitata.

Ad esempio, non ho viaggiato molto. Ora, poi, ho cessato del tutto. Ho vissuto per qualche tempo in un paio di paesi vicini, vale a dire la Francia e la Svizzera; ho visto, sì, situazioni differenti che mi hanno pur lasciato qualcosa dentro, e qualche volta non erano facili. Ma si trattava pur sempre di cose fondamentalmente non dissimili da quelle del paese dove sono nato e cresciuto. Anche per questo, non sono mai stato e non sarò mai uno spregiatore “a priori” dell'Italia. Non “spregio” niente e nessuno di questo mondo, e il “mondo intero” che canto tanto esser mia patria va dal cortile di via dell'Argingrosso fino all'Isola Elefante nell'Antartide. Mi fanno schifo i razzismi e gli autorazzismi, e trovo singolare e indicativo che gli italiani siano, ultimamente, specialisti in entrambi le cose. Ma forse sono soltanto le classiche due facce della stessa medaglia. La xenofobia e l'endofobia.

Non sono e non voglio essere né il “superesperto”, né uno che ha da dire sempre di tutto su ogni cosa. Tutt'altro. Continuo imperterrito a considerarmi un limitato, uno che parla di poche cose e di poca gente, e a cercare di osservare il mondo da una posizione defilata e sotterranea. Forse perché ho acquisito, finalmente, la piena coscienza che quel che dico e scrivo non riveste un'importanza fondamentale, e che i miei pareri, le mie “analisi”, le mie considerazioni e tutto il resto sono soltanto mie. E se le “condivido”, ad esempio dalle pagine di questo blog, restano mie lo stesso e non desiderano mai esser prese per verità assolute. Non ho e non voglio avere né “occidenti” né “orienti”, e cerco di sfuggire come posso al fascismo dei punti cardinali; quanto ai “paladini della verità”, non so dire se mi facciano più schifo o paura. Specialmente quelli che amano dire che “la verità è rivoluzionaria”, dato che, nelle loro mani, diventa sempre, prima o poi, uno strumento di oppressione.

Ho parlato pochissimo, su questo blog, delle rivolte nei paesi arabi. Delle cosiddette “primavere”, per intendersi, e già queste espressioni giornalistiche mi stanno non poco sul gozzo. L'ho fatto una volta sola, per essere precisi, a proposito della Libia; e in un modo allegorico, parodistico. Poi non ho più profferito parola. Ancor meno della Siria di quel che, sembra, vi sta accadendo. Non ci ho mai messo piede, come nella maggior parte dei paesi del mondo. Così, seguo la situazione dai giornali e dalla rete, e mi tengo in bagno, che è strapieno di libri perché sul vaso ci “covo” per ore e ci sto benissimo, una vecchia guida “Lonely Planet” della Siria rimediata non mi ricordo come. Per vedere le fotografie e i posti, più che altro. Per sapere cosa viene distrutto in quel momento. Non ci ho messo mai piede, no, così come non l'ho messo in Libia e nemmeno in Tunisia, che pure è tanto vicina. Non parlo nemmeno dell'Egitto, e da limitato quale sono continuo a non porre neanche paragoni tra Chiessi e Sharm-el-Sheikh. E così mi ripieno, da un lato, di stampa di regime; e, dall'altro, di blogger “esperti”, delle loro analisi, delle loro “opinioni” e dei loro immancabili quori.

Tra di essi (ed anche tra le persone che, più o meno bene, conosco personalmente), ne ho di quelli che sono stati più o meno dappertutto; tutte le casistiche sono presenti. Cambi di vita e mentalità in Egitto, avventure in Asia Centrale, latti succhiati in Palestina e in Siria, lotte in Palestina e a Gaza, tutto. E altro non posso fare che leggerli, e vederli scannarsi a vicenda. Sono, indubbiamente, persone coinvolte a vario titolo, e ne prendo atto. Quanto al sottoscritto, è stato a suo tempo coinvolto nelle vicende della ex Jugoslavia, molti anni fa. Quando ancora non c'era Internet, o perlomeno la avevano in pochi “pionieri”. 1993 o giù di lì. Ne riportai delle impressioni dirette, c'era ogni cosa che mi coinvolgeva e ho sperimentato che cosa significa conoscere dei luoghi e delle persone in tempo di pace, e poi vedere quelle stesse persone e quegli stessi luoghi con una guerra terrificante passataci sopra. Quattro volte a breve distanza in Bosnia, in quell'anno che, oltretutto, per me era di durissima crisi personale. Avessi avuto allora, poniamo, il “blog”, avrei sicuramente scritto delle cose; ne ho raccontata una dove si parlava di compaesani serbi e croati che si sparavano addosso ad ore fisse, nell'entroterra dalmata, mentre un'ora prima si scambiavano rakija e sigarette e si chiedevano notizie delle famiglie. Poi una scarica di mitragliatrici, e l'innesco delle famose impressioni. Mi hanno domandato spesso perché, in fondo, una volta arrivata Internet e tutti i suoi ammennicoli, non ne abbia parlato di più. La risposta è che le mie impressioni erano tutte sbagliate. Il mio cervello, a un certo punto, si è rifiutato di fare a cazzotti col quore. Il tifo calcistico, ora in deciso regresso, l'ho riservato esclusivamente alla Fiorentina (ma con una grossa simpatia anche per il Genoa; ovvero due squadre le cui tifoserie sono arcinemiche), ma non è mai stato una cosa che ha improntato la mia vita e i miei (limitatissimi) pensieri. Quel che ho “visto” nella ex Jugoslavia in quell'anno disgraziato, non voglio utilizzarlo e non ha valore applicabile generalmente; allora ho creduto di “capire” delle cose, mentre invece non ci avevo capito nulla. Per capire non basta “esserci stati” e neppure essersi fatto, casualmente, sparare addosso. Ognuno aveva qualcosa da dire e da raccontare. La banda jazz che si era trasformata in banda di guerriglieri croati, i fornai serbi che continuavano a fare il pane la mattina presto e andavano a far la guerra a una data ora, il sindaco di Dubrovnik (Pero Polijančić, si chiamava) che mi faceva vedere la sua casa sventrata - e quella casa l'avevo già vista tre anni prima vicino allo Stradun; la vecchia Lijepe (“Bella” vuol dire) che le facevo avere i pacchi con le scatolette e le ciabatte di plastica. Ne avrei anch'io, di gente e di storie da raccontare; ma me le tengo e non le uso. E comincia a farmi schifo chi utilizza la propria vita, i propri “viaggi”, le proprie storie e i propri quori per le proprie meschine diatribe ideologiche o di altro genere.

Per questo mi rifiuto di dire alcunché sulla “Siria”. E non solo perché non so nemmeno come sia fatta. Non ho e non posso avere “verità” e “controverità”; e poiché sono del tutto certo che la stragrande maggioranza di coloro che ne sproloquiano giorno e notte (come di ogni altra cosa) sono nelle mie stesse condizioni, stasera mi è presa la voglia di parlarne per un'unica volta.

Non sono equidistante. Per natura e per convinzione, io sto sempre e comunque con chi si rivolta. Contro un regime, contro un governo, contro un'oppressione. Per me non può essere e non potrà mai essere altrimenti, e così spero di essere stato chiaro. Però le cose, come mi è capitato di sperimentare di persona, sfuggono anche quando “ci si è”; figuriamoci quando non ci si è affatto, e se ne parla soltanto basandosi sulle proprie sovrastrutture di ogni tipo. Invece, ciò cui sto assistendo (particolarmente in Rete) è tutta una serie di “scontri” vuoti di senso, di accuse sanguinose, di odi verbali, e di gran quori che si vogliono roboantemente messi a disposizione di qualche “causa”, e che invece sono ad esclusiva disposizione del proprio ego. Non parlo qui di coloro che, come me, non hanno mai vissuto in una data situazione e in un determinato luogo; facciano quel che vogliono, e come vogliono. Io taccio e ho i miei ben precisi motivi, accettando magari il rischio di essere preso per l'indifferente che non sono; chi non accetta questo rischio e vuole invece far sapere la propria posizione su ogni lotta e su ogni evento che si svolge nel mondo, accetti invece la possibilità di sparare una gran massa di cazzate, perché è sempre così (anche perché, non so se ve ne siete accorti, ogni puttanata ha la sua documentazione).

E così, ad esempio sulla Siria come, prima, sulla Libia, l'importante è dividersi in fazioni, che possono o meno riprodurre castelli “ideologici” e di altro genere, ma che lasciano costantemente la sensazioni di trovarsi di fronte a persone il cui interesse o la cui “passione” (il quore, insomma) siano verso ogni cosa, fuorché verso quel paese e la sua gente. E, qui, quelli che “ci sono stati” diventano fenomenali. Il primo passo è dichiarare “marmaglia” chi osa non pensarla come lui/lei. Chi esprime un'opinione differente, più o meno “documentata” ma, magari, ugualmente appassionata, viene immediatamente sottoposto al meccanismo di delegittimazione, ai sarcasmi, agli insulti, alle dichiarazioni di pazzia (la cosiddetta “psichizzazione dell'avversario”, in ultima analisi derivata dalle pratiche staliniste; ed il bello è che viene usata a piene mani anche dai cosiddetti “anarchici” e dagli “antagonisti”, specialmente tra di loro). Segue la determinazione delle fazioni avversarie; ed ecco spuntare i “rossobruni” da una parte, gli “occidentalisti” da un'altra, e chi più ne ha, più ne metta. Prima o poi, invariabilmente, ognuno diventa il “fascista” dell'altro; e pensare che mi sto basando soltanto su quello che vado leggendo nei blog. Non oso nemmeno immaginare che cosa accada nelle viscere di Facebook, sapete, quella cosa che “dipende l'uso che se ne fa”. Ci si mette una dose di quore inenarrabile, di quore e di qultura. Per che cosa? Per il niente. Per il vuoto pneumatico. Si raccontano storie, ci son sempre il bambino di Homs, la maestrina di Aleppo, il tranviere di Hula, le granaglie messe a seccare sull'aia, il negozietto di Damasco, il sottotenente di Latakia, i pomodorini sulle case di fango, la gente che soffre. Tutto l'armamentario, mentre scrivono e si attaccano, e mentre (soprattutto) con le loro “posizioni” impediscono a chiunque di esprimere un parere diverso. Parere che, peraltro, non è fondamentale; parere che non sposta un millimetro il corso delle vicende; parere che, qualora sbagliato, non verrà mai smentito. Si cercherà, anzi, di ricorrere a tutte le arti per ribadirlo, ai bizantinismi più astrusi, alle retoriche, alle finte “analisi distaccate”, ad ironie stucchevoli, a ossessioni, a ricerche di “originalità di giudizio” che riproducono invece schemi arcinoti e che di originale hanno soltanto la protervia. Gare di muscoli e di sopraffazione che potrebbero anche lasciare il tempo che trovano, se non fosse che in parecchi casi sono condotte sulla pelle degli altri.

Un giorno la Siria, quello dopo la Palestina, poi si passa ai Mapuche, poi ai morti in galera; lunedì la TAV, martedì i femminicidi, mercoledì gli arresti in Perù, giovedì il g8, venerdì l'antifascismo militante, sabato la recensione del filmino e la domenica si va al mare a ritemprarsi, che il giorno dopo s'ha da ricominciare con la poesia o la canzone “simbolica”, il martedì con l'incendio del centro sociale e il mercoledì con quella merda secca di Roberto Saviano (che è una merda secca a prescindere, sia ben chiaro). Giovedì solidarietà. Per il fine settimana si vedrà, magari un saggettone teorico o un arresto di anarchici nel Bhutan o di comunisti a Olevano Romano. Fagocitati dalla Rete e dalle sue pastoie; questo soltanto sappiamo fare. Per questo sta cominciando a farmi schifo, per questo sto sempre di più apprezzando chi vi si tira fuori e fa altro. A due metri da casa sua o in capo al mondo. Per questo vorrei distruggere questa finta “comunicazione universale” che non comunica un cazzo di niente a parte le proprie paranoie e le proprie storielle elette a paradigmi universali. Non riesco più a sopportare queste cose e i vostri quori del cazzo, compagni e compagnucci, anarchici o comunisti che siate. Le vostre “purezze”, le vostre “passioni”, i vostri ragionamenti, le vostre sacre convinzioni per le quali ognuno diventa passibile di essere messo alla berlina, calunniato, minacciato, cancellato. Fosse per la Siria, poi; bastano, sovente, una canzonetta, un libro, uno scrittorucolo. Vi interesserebbe, in fondo, assai di più che chiudesse il blog o la pagina Facebook del vostro “nemico virtuale”, piuttosto che Casapound.

Da limitato quale sono, cerco di avere oramai coscienza piena di tutto questo. Senza farmi forza delle “contraddizioni”, ché anche questo rischia di diventare un artificio retorico da pixel e nient'altro. Cerco di non scegliermi le mie rivoluzioni, o rivolte, e di prenderle come sono senza perdere di vista che ci potrebbero essere ragioni anche dall'altra parte ed in chi la propugna, senza considerarlo “marmaglia” (un termine che piaceva tanto, nella sua versione francese, a Sarkozy). Mi stanno bene anche la Vandea e i Sanfedisti, anche se sul blog ci ho la data del calendario sanculotto; ogni rivolta è gente che si ribella, e e la gente si ribella ha le sue ragioni anche se non piacciono ai nostri quoricini. Non ho da dire tutto su tutto, e se lo dico so che esiste la ben precisa possibilità che sia sbagliato. Non ho quori cui demando tutto, perché il “cuore” non esiste ed è soltanto una pompa (nel mio caso abbastanza malandata). Continuo a non aver chiare una marea di cose, ad esempio in Siria; e dovrei una buona volta smettere di leggervi tutti, perché l'unica cosa che sapete fare è mettere ulteriore confusione in testa generando così, e stavolta per davvero, nausea e indifferenza con le vostre reciproche stronzate. Ci avete tutti da “ricordare”, scordando che chiunque, in una guerra, può diventare un assassino anche se, quando c'eravate voi, vi ha offerto il teino o vi ha distillato qualche perla di saggezza antica che, volendo, ve la potrebbe distillare anche il barista all'angolo, se solo lo ascoltaste e ve ne fregasse qualcosa. Ci siete sempre stati, ma mai quando si ammazzano tutti, ribelli e lealisti. Potreste correre il rischio di essere, che so io, ammazzati anche voi come Vittorio Arrigoni, quello che chiamate “Vik” con tanta familiare partecipazione. O come Enzo Baldoni che non era andato a “vedere”, ma a ficcare il naso.

venerdì 6 luglio 2012

Dalla penultima galleria


Alessio Lega scrisse undici anni fa una famosa canzone su Genova. E' quella che si ascolta nel video sopra, tutti o quasi la conoscerete. Oggi credo che occorra fare un aggiornamento, che potrebbe fare così:

 
Dalla penultima galleria
undici anni, lacrime e parole,
le alluvioni col fortunale,
gli arrestati per la ferrovia

giù dai tralicci di una valle vedova
mi sveglio ora di soprassalto,
Porta Principe in un singulto,
rieccomi ancora a Genova...

Sono tornato a Genova, ed il caffè non è più zuccherato,
il piazzale della stazione per la partita imbandierato,
non c'è più un'ombra di dignità, c'è solo il senso di uno sprofondo
a testa alta o a testa bassa, lo stesso in questo schifo di mondo

Toccare il fondo fino a annegare, tirare la catena del cesso
per non dovere più affrontare la loro legge, il loro processo
fronti spaccate, facce schiantate, i corpi magri ossa di supplizio,
sbarre e galere, corde, sacchetti che soffocano nel precipizio,
che soffocano nel precipizio...

Siamo ritornati a Genova, ed è sempre la stessa galera,
ma quale onda, ci mangia il niente, ci annega come una dolcenera
non c'è più senso del presente, e la memoria si è presto schiantata
e la Genova del sessanta non è tornata, se n'è strafregata

Siamo ritornati a Genova, ma Genova se n'era già andata
per strade trasformate in fiumi, con la sua gente disperata
e noialtri che blateravamo di speranze e sentimenti
mentre stupravano la natura quattro o anche cinque elementi

Chi siamo noi? No, chi sono loro! I funzionari dei paradossi,
più hanno pestato, falsato, odiato, e più li avevano promossi
e poi ci dicono “giustizia è fatta” perché li hanno disoccupati
mentre là in valle fanno uguale nei non-cantieri militarizzati

Chi siamo noi? No, chi sono loro! Su, ora siamo di nuovo amici
ché ve li abbiamo per cinque anni “interdetti dai pubblici uffici”,
però domani vi condanniamo a cinquemila anni più le spese
come cantava qualche anno fa un anarchico genovese

Chi siamo noi? No chi sono loro! Però ora è finita la pacchia,
e state attenti ché ci vuol poco a fucilarvi ancora in via Fracchia,
dieci anni dopo l'Eroe in divisa si stupra una bambina quieto,
e noi si canta mentre s'inaugura il megastore di Bolzaneto

Chi siamo noi? No, chi sono loro! Ci mettono la parola “fine”
su un buio fitto che ora è più buio, carcere senza nessun confine,
il film, la Storia, democrazie, e Carlo in cento altri Carli muore
e il blocco nero si fa più nero, catene d'inutile dolore...

Così siamo tornati a Genova, così siamo ritornati a Genova,
così cammineremo Genova, così hanno affogato Genova...

Sono tornato via da Genova, il baracchino del caffè di rito
ha chiuso per un'equitalia, forse lo avranno già demolito
ed il dolore non si cancella, lo sputeremo ancora profondo
finché anche uno di quei maiali respirerà l'aria del mondo

E in una Genova incarcerata tra il fango viscido ed il ponte
si ripete la storia ogni giorno, dall'Emilia fino a Chiomonte,
non c'è fine palliativa, c'è ancora sangue nelle nostre mani,
il sangue di Carlo Giuliani

in Piazza Macellai Messicani.