venerdì 27 aprile 2012

Skanditschentum und Rassenhasse. Beiträge zur Theorie der wissenschaftlichen Gherikunde.


La foto sopra ritrae, in anni sicuramente più verdi, un curioso personaggio che forma l'oggetto di questo serissimo articolo scientifico (il quale, essendo tale, è stato vergato dapprima in lingua tedesca e poi adattato in italiano; ho voluto però mantenere il titolo originale per dare un'idea).

Inizio col dire che il personaggio in questione, che svolgeva -come si può ben vedere dall'immagine, l'attività di disc-jockey in discoteche ed altri locali consimilari- è per me titolare di un autentico mistero. Non discuto l'usanza, per chiunque svolga un'attività passibile di sviluppare una generica notorietà (da quella puramente locale fino a quella universale), di scegliersi uno pseudonimo (nome d'arte, nom de plume ecc.), che ha un po' la funzione del "marchio di fabbrica". Se il signor Gianfranco Corsi ha voluto essere noto come Franco Zeffirelli, oppure la signora Maria Ilva Biolcati come Milva, oppure ancora Mr Robert Allen Zimmerman come Bob Dylan, si tratta di procedimenti consueti, accettabili e dotati di loro precise logiche. Mettiamo però che al sottoscritto venga l'idea, per redigere questo blog, di scegliersi uno pseudonimo: certamente non gli salterebbe mai in testa l'idea di fabbricarlo invertendo il nome e il cognome. In pratica: invece di Riccardo Venturi, scrivere come Venturi Riccardo. Orbene, il signore nella foto si chiama Guido Gheri. Ed è noto come Gheri Guido. Tutto questo, sinceramente, mi sfugge. Non discuto il diritto del sig. Gheri a invertirsi tutto ciò che vuole, ma rimango perplesso.

Il sig. Guido Gheri, anzi Gheri Guido, è di Scandicci. Scandicci è un grosso centro dell'hinterland fiorentino, peraltro molto vicino a dove abito. Fino agli anni '20 o '30 si chiamava Casellina e Torri; poi è stato inscandicciato per motivi che non conosco e che saranno sicuramente spiegati a dovere su Wikipedia. Scandicci è noto a livello nazionale, purtroppo, per le tristi (anzi terribili) vicende del Mostro di Firenze, da alcuni definito Mostro di Scandicci non senza qualche ragione: il misterioso killer delle coppiette ha colpito infatti più volte in quel comune. Scandicci ha dato poi i natali a un parlamentare grasso e, appunto, a Gheri Guido. Credo siano pure abbastanza amici e sodali. Si tratta, storicamente, di un comune di sinistra perché in Toscana 'e s'è tutti di sinistra più o meno; Gheri Guido e il parlamentare obeso sono invece di destra. E su questo non c'è nient'altro da dire, perché la cosa afferisce alla libertà delle opinioni che forma il fvlcro della nostra δημοκρατία, termine greco che si rende in scandiccese con potere a i' pòpholo.

Gheri Guido, dopo avere espletato con successo l'attività di disc-jockey, ha fondato un'emittente radiofonica. Si chiama Radio Studio 54, e non so esattamente se quel "54" derivi dalla frequenza in megahertz, o chilocicli, o chissà che altro; dal numero civico della strada onde ha sede; oppure dal peso in chilogrammi del titolare. Radio Studio 54 esiste da un bel po' di tempo, e viste le idee politiche propalate da Gheri Guido, viene generalmente etichettata come radio di destra. Il suo palinsesto, però, non si distingue agevolmente da altre emittenti della zona etichettate in modo diverso, essendo basato fondamentalmente (come le altre) su:

1. Megatoni di pubblicità, che ovviamente permette l'esistenza eccetera;
2. Tonnellate di musica, generalmente di merda;
3. I' notizziàrio lohale, a varie ore;
4. Quintali di pallone, che va dall'ovvia Fiorentina fino alle squadrette delle frazioni, con resoconti dell'avvicente derby Triozzi-Sangiustese;
5. Attualità polìtiha e sociale.

Su quest'ultimo punto, Gheri Guido ha costruito le proprie fortune iscritte pienamente nell'alveo della Skanditschentum. In pratica, dai microfoni della sua Radio Studio 54 è diventato, a Firenze e dintorni, la voce della destra. Gli originali ingredienti sono stati: degrado, sihurezza, estrahomunitàri, delinguenza, crònaha, 'nterviste, la parola agli ascortathòri (le telefonate in diretta, insomma). Mi direte: ma scusa, questi sono sono anche gli stessi ingredienti delle attuali radio di sinistra? E dove sta la differenza? Non ho nulla da controbattere. Però Gheri Guido, come dire, ci ha messo uno stile "tutto suo", frutto evidente di precisi e rigorosi studi effettuati presso la discotèha Da Guartièro di S. Colombano a Settimo e d'i' bàrre I' ghepardo Viola di via della Pace Mondiale. E il successo lohale è stato forgorànte, madonna su' i' ciùho. Ben presto, Gheri Guido ha diviso Scandicci; finalmente un campione làvve e òrdere nella rossa cittadina. Un punto di riferimento, e non solo per gli scandiccesi; ad esempio, anche numerosi tassisti fiorentini lo hanno eletto a proprio eroe, sintonizzando fisse le radio di bordo sulla storica emittente.

Fatto sta che, ad un certo punto, l'ingresso in polìtiha di Gheri Guido è stato naturale. Φύσει. Ma uno come lui, che s'è fatto tutto da solo, non poteva certo accontentarsi di un partito istituzionale, sia pur corrispondende alla sua vertansciàunghe. No. Ha fondato la lista civica; e siccome la su' specialità in radio è sempre staha quella di fa' parlà i cittadini 'he si lamentano de' negri 'he pisciano su' muri, delle vecchine scippate da' delinguenti (ma ne scippassero un po' di più de 'ste befane, aggiungo io; oggi sono politihàlli scorrett), delle porverière 'he so' diventahi i 'huartieri, della paura, d'i' degràdo, dell'insihurezza, d' i' pallone e de' cinesi a Prào, la sua lista l'ha chiamata esattamente: Bòce a i' pòpholo. Ora, naturalmente, la sua denominazione è in italiano corrente; però preferisco renderla come effettivamente viene pronunziata da queste parti, perché 'e bisogna dà bòce a i' pòpholo, iohàne, e ascortà' icché 'e cià daddì' e tutti i probrèmi della gente reale stufa de' partìhi, de' negri 'he ci rubano i' laòro, degli zìngani 'he ci rubano l'aipòdde e ci rapìscano i bimbi, e tutto i'resto. Perché qui 'e s'è di sinistra, però la sinistra 'e unn'ha sapùho 'nterpretà (e io invece dico che lo ha fatto alla perfezione, perché in linea di massima i' sinistro toscano l'ha sempre pensata esattamente come il destro Gheri Guido, organizzando magari anche parecchie fiaccolatone anti-Rom dalle "case del popolo" o dai circoli dedicati a i' partigiano). 

Insomma, con la sua Boce a i' Pòpholo, Gheri Guido è riuscito addirittura a farsi eleggere in consiglio comunale a Scandicci. Carica che ricopre tuttora. Ad esempio, se putacaso 'e vu' fòssite fidanzàhi e vu' decidèssite di sposàvvegnene a Scandicci, 'e vi potrebbe sposà Gheri Guido. Sappiatelo. Una marcia inarrestabile, contro la quale a nulla sono valsi, ad esempio, gruppi Facebook intitolati "Odio Gheri Guido". Se qualcuno di voi mi trova un qualsiasi gruppo Facebook che abbia avuto qualche risultato pratico, mi faccia un fìstio. Portano anche sculo, secondo me: ogni qual volta se ne fabbrica uno per ritrovare una persona scomparsa, dopo due giorni essa viene ritrovata morta. Ci avete mai fatto caso?

Inarrestabile? Tsk tsk. Saltiamo all'oggi.

Sembra che ieri, i Regi Carabinieri si siano presentati alla sede di Radio Studio 54 muniti di un'ordinanza di Sequestro preventivo firmata dalla procuratrice di Karlsruhe Firenze, Christine von Borries e da un provvedimento esecutivo firmato dal GIP Angelo Pezzuti. Motivazioni delle ordinanze: diffamazione e incitamento all'odio razziale. Madonnarbùio. Passi per la diffamazione; ma l'incitamento all'odio razziale? E che siamo, a Scandicci o a Mississippi Bàrningh? Eppure ce n'è stato abbastanza per chiudere Radio Studio 54, storica emittente, e cancellarla dall'etere. Sigilli. Spranghe. Lucchetti. Cingomma nelle serrature. 'Gnihosa. All'improvviso, i tassisti e i' pòpholo 'e si so' ritrovahi privi della su' bòce; e Gheri Guido (assieme a un suo collaboratore), pure indagato dalla magistratura (e non con accuse di poco conto, debbo dire; tanto più che i reati contestati sono avvenuti a mezzo etere, quindi con un mezzo di pubblica e larga diffusione).

Ma che è avvenuto esattamente?
Lo si può leggere, ad esempio, da Repubblica (giornale che si distingue spesso per analoghe istigazioni, ma che è progressista e di sinistra), dalla quale riprendo l'intera notiziuola (con tanto di classico refuso nel titolo):

DIFFAMAZIONE E ODIO RAZZIALE
SEQUESTRARA RADIO STUDIO 54

I carabinieri hanno denunciato il titolare Ghido Gheri e il suo collaboratore Salvatore Buono. Hanno preso di mira un esperto i nsicurezza del lavoro e hanno continuato a bersagliarlo anche dopo una prima denuncia. Molte le frasi contro rom e immigrati in genere.

I Carabinieri di Scandicci hanno sequestrato le apparecchiature di trasmissione di Radio Studio 54, l’emittente creata da Guido Gheri, più noto come Gheri Guido, consigliere comunale a Scandicci per la lista civica Voce al popolo. Guido Gheri e il suo collaboratore Salvatore Buono sono accusati di diffamazione aggravata nei confronti di un esperto in sicurezza del lavoro, bersagliato via radio con gli epiteti più brucianti, e di istigazione all’odio razziale.

In gennaio Gheri e Buono avevano ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini per diffamazione ma, secondo le accuse, avevano continuato a ingiuriare per radio il loro bersaglio, ribattezzato Mistersicurezza. Per questo il pm Christine von Borries ha chiesto il sequestro preventivo della radio e il gip Angelo Antonio Pezzuti lo ha disposto. Riguardo all’odio razziale, Gheri e Buono sono accusati di aver pronunciato alla radio, nei primi mesi del 2011, frasi incendiarie contro gli extracomunitari. Sui rom: "Noi non si può accettare di avere per le strade questa gente che campa solo andando a rubare". Sugli immigrati: "Gli anni Sessanta erano un periodo bello. Non eravamo invasi da tutti questi clandestini extracomunitari. C’è stato un aumento impressionante di cose brutte da quando questi signori della sinistra hanno fatto arrivare cani e porci". Sui senegalesi che vendono oggetti nel parcheggio di Careggi: "Una bella scarica di legnate da una squadra del Calcio Storico". Sui tunisini fuggiti dalla guerra civile: "Abbiamo sul territorio moltissimi di questi tunisini scappati dalle galere. Confermo: questa m... e questa c... è arrivata in Italia".

Ora, non è possibile nutrire alcun dubbio (lasciando perdere la diffamazione dei confronti di "Mistersicurezza") che questa sia, effettivamente, la bòce d' i' pòpholo. Tutto si potrà dire di Gheri Guido, fuorché non abbia tenuto fede a quel che propugna. Ha dato la voce al popolo. Compreso sui senegalesi che vendono oggetti, per i quali ha proposto una vera e propria spedizione punitiva. Ma cosa mi viene a mente al riguardo...? O non c'è davvero stata, a Firenze, una spedizione punitiva nei confronti dei senegalesi....? O dov'è successa, che non me ne ricordo...? In una piazza....come si chiamava....piazza Slovenia...piazza Istria...ah no, ecco! Piazza Dalmazia

Tant'è vero, che il Gheri Guido e la sua radio hanno immediatamente incassato la solidarietà di alcuni diretti interessati alla cosa; non i calcianti storici, bensì, udite udite, quelli di Casapound. Chi meglio di loro può esprimere solidarietà? Insomma, perdiana, il Gheri Guido chiama alla spedizione contro i senegalesi, e Casapound provvede in maniera assai efficace; e non con una scarica di legnate, ma direttamente con una scarica di revolverate.

Si noti, peraltro, che nel suo comunicato di solidarietà a Gheri Guido, autèntiha bòce libera, i casalinghi di Elsa Pound hanno adoperato lo stesso procedimento sperimentato col Casseri Gianluca (qui, ora, si metterà sempre il cognome prima del nome): invocare la responsabilità personale rifiutando categoricamente quella politica. L'incitamento all'odio razziale, del resto, non è prerogativa esclusiva di Casapound o del Gheri Guido; è una responsabilità collettiva e generale di tutti i mezzi di "informazione" italiani e delle parti "politiche" cui fanno riferimento. Con le stesse motivazioni espresse dalla magistratura per chiudere una radiolina di Scandicci, si potrebbero agevolmente chiudere, che so io, Libero e Il Giornale. Oppure si potrebbe chiudere anche Repubblica, tranquillamente: ve la ricordate la "lettera del sig. Poverini"? Si potrebbe chiudere quel razzista schifoso di genovese, Beppe Grillo (e m'importasega se fa pure il "NO TAV"); si potrebbe chiudere mezzo Partito Democratico, tipo quella famosa sezione di Ponticelli che fece affiggere un certo manifesto sui muri della zona dopo il pogrom al campo Rom in seguito al finto "rapimento della bambina"; si potrebbe chiudere la Juventus Fùtboll Clèb, i cui tifosi sono stati autori di analogo pogrom a Torino in occasione di uno stupro inventato; si potrebbero chiudere fior di parlamentari di tutti gli schieramenti, che con le loro sicurezze hanno trasformato questo paese in un lager; si potrebbe chiudere il compagno Enrico Rossi, governatore di sinistra della Regione Toscana e fervido sostenitore dei CIE; si potrebbe chiudere il sindaco sgomberatore Matteo Renzi, per incitamento all'odio razziale nei cartelli "attenti agli abusivi" del Mercato di San Lorenzo, raffiguranti per l'appunto dei senegalesi; si potrebbe chiudere La Ladrònia, quotidiano della Lega in oro massiccio e platino Nord; si potrebbero chiudere parecchie cose.

Invece si chiude soltanto la radiolina del Gheri Guido, perfetto rappresentante, al tempo stesso, della Skanditschentum e della cosiddetta "italianità". Questa Theorie der Gherikunde è in realtà una Theorie des Italienertums; però è toccato a lui. Tranquilli; tornerà presto, Radio Studio 54, e tornerà alla svelta anche la Bòce d' i' Pòpholo. E torneranno anche i senegalesi stecchiti nei mercatini, con relative ondatone emozionali. Poi basterà sintonizzarsi sulla frequenza giusta: quella dell'odio a buon mercato. Quella dell'odio che produce. Quella del terrorismo. E' questo il terrorismo, quello vero. Capillare. Però se ne accorgono, ogni tanto, soltanto per una radiolina del cazzo guidata da un ex disc-jockey.

domenica 22 aprile 2012

Da ogni tempo, da ogni luogo

O mio buon Jean, mio collega
mi succede proprio una bella cosa.
Ma in che razza di mondo siamo?
O non mi hanno detto: Vattene, fannullone.
Ecco perché: nella fabbrica
Dove lavoro da quarant'anni
Il padrone mi guardava male.
Non dicevo nulla, i miei figli hanno fame
E anche se non facevo nessuna pausa
al lavoro lui non è contento,
al lavoro non era contento.

Oh, ne ho voluto sapere la causa
Dato che durava da troppo tempo.
Ieri alla fine ho perso la pazienza
E sono andato a vedere il padrone
E gli ho detto, a testa bassa:
"È perché non faccio abbastanza,
Pensate che lavoro troppo poco
E che non posso più contentarvi?"

"Incominci a esser vecchio",
Mi risponde squadrandomi tranquillo,
"Da un po' di tempo il tuo lavoro
è mal fatto e poi sei un fannullone.
Se ti ho tenuto fino ad ora
È per pietà, ma ora è finita.
Ti do ancora qualche giorno."
Credevo di svenire.

"Mi buttate via come uno straccio,
a me, che in centomila modi
mi sono chinato per arricchirvi."
Mi dice: "Non convieni più tanto,
Sei fiacco, vai piano sul lavoro,
Hai i capelli bianchi, ti sei ingobbito
E poi sei un fannullone, vattene, su,
E poi sei un fannullone."

Per ora non lo dico da dove vengono, e di chi sono, questi versi. Vengono da ogni luogo e da ogni momento della società industriale capitalista. Vengono dall'Inghilterra dell'inizio del XX secolo come dall'Italia degli anni '20 o del secondo dopoguerra. Vengono dagli Stati Uniti della Grande Depressione come dalle fabbriche tedesche della repubblica di Weimar. Vengono dalla Grecia e dall'Italia di oggi, dalla Spagna: Jean può chiamarsi Giovanni, Yannis, Juan. Può avere lottato oppure essersi piegato. Può avere avuto rigurgiti xenofobi cadendo nella trappola della contrapposizione tra sfruttati ("ci rubano il lavoro"). Può essere un lavoratore svedese perché non sono mai esistiti paradisi, come un immigrato su un'impalcatura. Può essere, in definitiva, chiunque di noi. E non si sa come va a finire la storia narrata nei versi; può terminare con una ribellione o con il suicidio. Può terminare nella rassegnazione o nella coscienza. Il termine di questa storia può essere ancora tutto da scrivere


La storia di quei versi proviene dalla Marsiglia degli ultimi anni del XIX secolo. I versi, scritti in dialetto occitano marsigliese (ora praticamente estinto) dal poeta Joan Lo Ribèca, sono del 1897 e si intitolano Feniant, che vuol dire: Fannullone. Sono stati messi in musica nel 2000 dal gruppo marsigliese dei Dupain, che hanno fatto come Mathieu Kassowitz nel cinema: un inizio folgorante, spaventoso, enorme. Dopo, il nulla o quasi. Il primo album dei Dupain è come il film La haine. Da togliere il fiato.

La Marsiglia degli anni tra il 188o e il 1910 vede, da un lato, l'immigrazione di un numero spaventoso di manodopera industriale e portuale straniera, soprattutto dall'Italia. E vede lotte operaie continue e represse nel sangue. La strategia padronale è la seguente: dividere i lavoratori su base nazionalistica. Francesi contro italiani, accusati di "rubare il lavoro". Sono gli anni delle stragi di italiani, come quella di Aigues Mortes del 1883; ma anche a Marsiglia, dove emigrano circa 250.000 lavoratori stranieri, non va diversamente.

Quando si leggono queste cose, si tende immediatamente a pensare che siano state scritte appena ieri, o roba del genere. Lo si pensa e lo si dice con un misto di finto stupore e di ipocrita meraviglia, quando si sa benissimo che i meccanismi del capitalismo, pur nella logica evoluzione degli eventi, delle tecnologie, degli sfondi politici e sociali e delle ideologie predominanti, sono sempre stati gli stessi e sempre lo saranno. Bisognerebbe accogliere tutto questo con coscienza ferma e con le idee chiare; quando si legge dei gesti di Dimitris Christoulas o di Savas Metoikidis è necessario pensare a tutti coloro che li hanno preceduti nella storia, e sono legioni oramai senza nome.

Nella Marsiglia di quegli anni, dopo un po', i lavoratori si accorsero in che modo i padroni giocavano con loro; cominciarono, prima timidamente e poi in modo deciso, le manifestazioni e gli scioperi in comune, fianco a fianco. Lavoratori francesi e immigrati italiani e di altri paesi. Fronte comune, e repressione che si abbatté su entrambi, ancora più feroce. Cominciarono a comparire cartelli come Vive la France, vive l'Italie, vive la lutte contre les patrons. E non a caso il poeta Joan Lo Ribèca scelse di scrivere in un linguaggio morente come l'occitano marsigliese; mediante quell'ultimo resto di un idioma antichissimo e glorioso, volle come utilizzare il simbolo di una lingua comune a tutti e senza tempo. La lingua della lotta è una sola. Viene da ogni tempo e da ogni luogo, e dovrebbe essere da tutti compresa. Come la comprende chi muore di lavoro, sotto ogni forma. Come chi muore di disperazione e di rabbia. Come chi muore per arricchire coloro che poi gli danno di "fannullone".

O moun bòn Joan, o moun coulèga
m'en arriva una que'm pega.
Mas de que paoun de mòun essian?
M'an pas dit vai t'en mal, feniant.
Veçì la causa: dins l'usina
Ount eri desprès quarante ans
Lou patroun me fesait la mina.
Desièu ren, mis pichouns an fam,
Maougar que je sitgi de paouva
Aou travailh, el n'ès pas countent,
Aou travailh, era pas countent.

O, querì ne saouper l'encaou,
Ca durà desprès trop loungtemps.
Hier enfin, ma paciença lassa,
Anèri veure lou patroun
E li diguèri, testa bassa:
"Ès-çi perqué n'en fai pas prou,
Trouvàs que travailh trop gaire,
Que podi plu vous countentar?"

"Coumençàs a venir dins l'atge",
Me respuent en me sussent plan,
"Desprès quelque temps vuest ouvratge
Ès mal fait e pues sias feniant.
Si vous ai gardat ientges qu'ara
Ès par pietat, n'ès finit.
Vous doni quelques journs encara."
Ieu cresièu de m'estavanhir.

"Coum un esfàs me jetàs,
Me, que de cent miles manieres
Pour v'enrichir m'essièu vourtat."
Me dis: "Me reportàs plu fuars,
Sias muelh, vas adaisou aou travailh,
às el pelh blanc, toun corps se tuort
E pues sias feniant, vai t'en, vai,
E pues sias feniant."

giovedì 19 aprile 2012

Fiore ha cento penne


Fiore, stasera, è piombata al CPA mentre infuriava la preparazione della "cena de' vecchi". Siccome il mercoledì c'è la cena de' giovani, il giovedì c'è quella de' vecchi; il fatto è che Fiore ha dodici anni e mezzo e fa la seconda media. Si chiama proprio così, Fiore; è entrata in cucina coi libri e i quaderni di scuola in mano, dichiarando che doveva studiare inglese e Tamara De Lèmpiha; e io subito a fare il pedante, e a dirle che bisognerebbe dire Lempìzka. E lei: "A me mi va bene Lèmpiha". E zitto te, Venturi.

Guardi la Fiore, che è figlia per l'appunto di un vecchio del CPA, e ti sembra di fare un salto indietro di qualche secolo. Viene direttamente da un quadro del Rinascimento. Altissima, filiforme, la grazia incarnata. Bionda, gli occhi chiarissimi, acquosi, di un colore indefinibile. Una bellezza di un tempo che non c'è più; e, al tempo stesso, una ragazzina d'oggi. Cava fuori il diario dove c'è scritto "Fiore" in tutte le salse; telefona a una compagna per chiederle chissà cosa; apre bocca e la bellezza rinascimentale si mischia alla Lèmpiha e a un modo di parlare da fare scompisciare, perché è di una simpatia unica.

Nel frattempo, bisogna che vi presenti il CPA, noto covo di terroristi e fucina di galere e arresti domiciliari, in una serata qualsiasi. Al tavolo c'è Giancarlo, un tambocchiolino di un metro e sessanta, con la chitarra e il suo quadernone dei testi. Spettinato in modo quasi artistico. Giancarlo, tutta la sua enormità l'ha messa nella voce; ha una canna di fiato da stiantà un bove. Si mette a cantare e lo sentono da Bologna. Più in là c'è il cantore popolare ufficiale del Centro: come si chiami per davvero se lo dev'essere dimenticato pure lui, visto che per tutti è Il Menestrello. Uno che nel suo repertorio mescola i canti partigiani col Tango di Piazza Piattellina, le canzoni politiche degli anni '70 con quelle da caserma; o che lo volete i' popolo? Le canzonacce da caserma, dice il partigiano Sugo, le cantavano a profusione anche lassù in montagna, con le armi in pugno a liberar l'Italia dai nazifascisti. Poi ci sono io che vago; a un certo punto mi metto a cantare assieme al Menestrello Fagioli 'olle 'otenne, noto "hit" livornese. Ci sono la Diàola e i' Diàolo, coppietta ovviamente diabolica; in cucina c'è un casino indescrivibile, affettamenti di cipolle, mescolamenti di lampredotto e trippa, asparagi che bollono, cortellàte su i' tagliere, bestemmie sanguinose, l'immancabile capannello col discorso politico serio, la gente che va e viene dalla "Biblioteca Majakovskij". E la Fiore che fa l'inglese e Tamara de Lèmpiha. Quand'ero in seconda media io, manco si sapeva che esisteva, quella lì; al massimo, ci si scambiavano le figurine e i giornalini dei Fantastici Quattro (io me li scambiavo sempre con un ragazzo che aveva, in assoluto, gli orecchi più sudici e merdosi che abbia mai visto; alla fine, un giorno, glielo dissi e ci rimase malissimo).


Poi è arrivato il partigiano Sugo, che ha un po' più di dodici anni e mezzo; e s'è messo a chiacchierare con la Cristina e con altra gente. Giancarlo spaziava da Bob Dylan a qualche improbabile gruppo militante còrso, sempre con quella sua voce da demolire i muri (e demolirli al CPA, a dire il vero, non sarebbe propriamente difficile). Io e il Menestrello s'ascoltava. Poi la Fiore ha chiuso i libri e ha preso un quaderno con sopra raffigurato un personaggio che non conosco, un giovanotto col ciuffo, sonasega chi gli è. Bisognerebbe avere dodici anni per saperlo, probabilmente; ma senza arrivare agli ottantasei anni del Sugo, anch'io appartengo oramai a un passato lontanissimo per quella ragazzina. Ha chiesto, la Fiore, se poteva cantare una canzone anche lei, e figuriamoci; Giancarlo le ha dato subito la chitarra. Perché la Fiore la sa strimpellare. Dico "strimpellare" con tutta l'invidia provata da uno come me, che non sa sa fare nemmeno mezzo accordo e che non ha mai imparato; e la Fiore ha cominciato a cantare, con una vocina bassa bassa. Talmente bassa che, all'improvviso, è calato il silenzio. Sul suo quadernetto col ragazzo ciuffato, sul quale ragionevolmente ci si aspetterebbero i tizianiferri o i giastinbìber, aveva trascritto una canzone partigiana. Il bersagliere ha cento penne.


Mentre la fiore cantava, è arrivato il Sugo come spinto da una molla; ma senza dire una parola. Io lì col braccio al collo del Menestrello. Giancarlo a bocca spalancata. Zitto perfino il Bellino che giocava a carte. In cucina, tutti fermi; mezzelune a mezz'aria, discorsi politici troncati, soffritti sospesi, le cipolle che forse ascoltavano anche loro prima di essere tritate. E la Fiore che andava avanti, con quelle sue manine raffaellesche, a suonare e a cantare del partigiano che di penne non ne ha nemmeno una e che riman lassù anche se venisse l'inferno. Il sugo in pentola che bolliva nel silenzio, e il Sugo partigiano che si era messo a piangere. Non sono esagerazioni; semplicemente ci s'ha da mettere nella testa di quel vecchio che sentiva cantare una canzone del genere da una ragazzina, dopo averla sentita nella sua vita chissà da chi. Anche perché lassù nei boschi di Fontesanta, col fucile in mano, era poco più grande di lei; aveva diciassett'anni. E Gogliardo Fiaschi, quand'era entrato in Modena liberata in testa ai compagni e portando la bandiera, di anni ne aveva quattordici e mezzo.

E la Fiore che attaccava l'ultima strofa di quella canzone, che è breve. Alzando un po' la vocina agli ultimi due versi, quelli che dicono: Perché se libero un uomo muore, Non gli importa di morir. Il padre, che è un ragazzone terroristicamente buono come il pane, con gli occhi lucidi. Mi scuserete questo profluvio di làgrime che vi farà sicuramente pensare chissà cosa; ma siccome un po' ce le avevo anch'io, che non sono particolarmente propenso alla commozione, dovete pigliare tutto per buono. Solo per la Fiore doveva essere una cosa normalissima; come no, a dodici anni e mezzo cantare una canzone partigiana anonima del 1944 in mezzo a un posto del genere, è roba da nulla. Anzi, talmente da nulla, che alla Fiore non glien'è fregato manco un po' nemmeno dell'applauso, che del resto non le è stato fatto. Ha avuto strette di mano e abbracci. Qua e là un pugnetto chiuso da qualcuno, ma senza farsi vedere troppo; per quelli veri e palesi, se lo vorrà lei, c'è tutto il tempo. Ora c'è la Tamara de Lèmpiha e l'inglese. Probabilmente, sul quadernetto col ragazzo ciuffato ci sono anche Tiziano Ferro e Justin Bieber; oppure, chissà, c'è qualche altro canto partigiano.

E son ricominciate non a fiorire le viole, in questo aprile novembrino, ma a soffriggere le cipolle oramai rassegnate al loro destino; del resto, fanno piangere e sicuramente era colpa loro. Son tornati mòccoli e urli, i discorsi seri, Giancarlo ha ricominciato a berciare Sindo Garay e Me and Bobby McGee; la Fiore deve andare a letto presto, domani c'è scuola e se n'è andata via col babbo. E io? Io là, a pigliarmi la pasticca di metformina in attesa di mangiare il risotto con gli asparagi e il brie. Mica si scherza al CPA, sulla cucina; come la chiamano, l'Enoteca Minchiorri. E qualcosa mi si formava in testa, perché suonare la musica non so, ma suonare le parole un pochino sí; e la Fiore se lo merita, perdiana, in questo giorno che è il primo del mese di Floreale, o Fiorile. Senza trarre morali o far discorsi roboanti su speranze che non muoiono, anche se forse non muoiono davvero.

Nella foto c'è la Banda Corbari. Forse non c'entra niente, o forse sí.

mercoledì 18 aprile 2012

Dezuccherare tutto, ovvero la "Liberare tutti" del diabetico


Tornando a parlare di argomenti serissimi dopo la parentesi su quella ridicola cosa che si chiama "lavoro", debbo dire che la crisi vera, per me, è cominciata domenica scorsa. Raramente sono invitato a una festa, ma ogni tanto mi succede; e si dà il caso che fosse una festa di compleanno. Sic. Io che, lo scorso anno, l'ho festeggiato in un reparto di terapia intensiva. Dove, per altro, dalle numerose analisi che mi hanno fatto è risultato pure che sono diabetico. Sigh. E i dolci, porca paletta, mi garba(va)no pure parecchio. Insomma, domenica scorsa mi sono trovato di fronte a un delirio in tavola: torte di ogni specie, pasticcini, biscotti, e tutti che sbafavano. E io, invece, a sorbirmi una macedonia di frutta senza zucchero. In me si è fatta strada la decisione di ogni rivoluzionario che si rispetti: l'insurrezione. E non esiste insurrezione senza canzoni! Ne ho quindi composta una, dove peraltro si nomina una certa piantina che potrebbe risultare parecchio utile. Si dia quindi inizio alla rivoluzione; ho preso a prestito una famosa canzone che parlava di "liberare tutti". Mi è presa così, e del resto sono un ragazzo abbastanza iconoclasta per permettermelo!

Ci sono tanti dolci
di cui siamo privati
perché i pasticcieri
li fanno zuccherati

E sono fianco a fianco
sopra sugli scaffali,
torte e sfogliatelle
t'occhieggiano carnali

Ma noi abbiam deciso:
il saccarosio fuori
dalle pasticcerie,
da meringhe e pandori!

Per questo abbiam bisogno
di stevia a profusione,
forza a darci da fare
con la coltivazione

Dezuccherare tutto
vuol dir mangiare ancora
caterve di dolciumi
ad ogni ora!

Sennò si piscia dolce
e poi la nostra urina
si mette nel caffè
che si beve in tazzina

E tutto il saccarosio
lo butteremo via,
sennò vanno a dumila
glicata e glicemia!

Porco glucosio,
c'hai mandati a gallina,
ci tocca farci pere
con l'insulina!

Facciam vedere
che ne facciamo a meno,
con fonti alternative
di torte faremo il pieno!

Ci avrei una voglia cane
di farmene una fetta
di quella torta immane,
sembra che là m'aspetta.

Dezuccherare tutto
vuol dir mangiare ancora
caterve di dolciumi
ad ogni ora!

Dedicata a Fvrivs Necroclericvs che mi ha regalato la stevia
e a Serena che l'ha scoperta (e rispondi al telefono, perdiana!)

lunedì 16 aprile 2012

Tema: I giovani e il futuro


Tema: I giovani e il futuro.

Svolgimento:

Cari giovani, con questo "futuro" avete già ampiamente bacato il cazzo.

Il tema, a rigore, potrebbe finire qui. Chiaro, semplice, laconico e inequivocabile. Certamente, in tutto questo siete stati spalleggiati da una bella congrega di vegliardi, vale a dire quelli che, dicono, dovrebbero occuparsi di "darvi un futuro". Quando sento Napolitano biascicare di "futuro dei giovani", mi viene la voglia di mettergli due o tre habaneros nel Polygrip con cui si sciacqua la dentiera. Però anche voi fate la vostra parte: avete intrapreso questa scientifica distruzione dei coglioni altrui, e in questo debbo dire che ve la state cavando a meraviglia.

Però, visto che un tema non si può consegnare mezzo vuoto e sennò mi danno quattro (cosa che mi precluderebbe senz'altro qualsiasi futuro), parliamo un po' di questo futuro, del vostro futuro. Lavoro. Lavoro e basta. Il futuro che volete avere, per il quale vi stracciate le vesti, per il quale sognate di andarvene "lontano dall'Italia" e per il quale a volte vi ammazzate se non vi viene dato, è fatto di lavoro. Oh che bravi. Vediamo un po': il lavoro, la casa, la famiglia...insomma, certo, le ultime due cose sono in sottordine; senza il lavoro, casa nisba e famiglia pure. Ci vuole il lavoro. La disoccupazione giovanile. I giovani senza un futuro. La misura della vita degna. Un paese dove i giovani non hanno futuro è un paese morto. Io, invece, dico che è sí morto, ma perché è per l'appunto stracolmo di giovani teste di minchia che si son fatte fagocitare immediatamente, e automaticamente, da tutto il meccanismo. Di giovani che, a parte alcune poche eccezioni (che, non so come mai, prima o poi sono mandate a frequentare le patrie galere e a volte anche gli altrettanto patrî cimiteri), già in tenerissima età iniziano a studiare per illudersi di diventare perfetti cittadini integrati in un sistema che, peraltro, non nasconde certamente di volerli disintegrare. Quella è la loro speranza, la loro molla, la loro aspettativa catalizzante. D'accordo, sí, ogni tanto ci può essere un po' di ribellismo; la fase barricadera è consueta, ci sono le onde e i movimenti (che terminano regolarmente quando iniziano gli esami oppure quando la "maturità" si avvicina e stanno per uscire le materie), ma dal "futuro = lavoro" non si staccano mai. E così tutto si riproduce, eternamente; bisogna andare a lavorare, senza lavoro non si mangia, non voglio finire in mezzo a una strada, portiamo avanti le istanze, e mi raccomando la legalità!

Naturalmente tutto questo gran "futuro" è sempre stata un'invenzione; però, almeno in certi periodi, l'illusione è parsa funzionare bene. I "padri" (ora nonni), come vi dicono ad nauseam, sono riusciti a "costruire qualcosa" (casafamigliamacchinasecondacasaconticinorisparmio eccetera). Quando "il lavoro c'era". Ora vi hanno tolto anche l'illusione. La fregatura nuda e cruda, senza più fronzoli. Ora che vi hanno eliminato definitivamente l'illusione del "futuro", vi accorgete che vi fregano soprattutto il presente, e che non ve lo restituiranno mai. Prima vi hanno inculcato che il "futuro" sia per forza fatto in un certo modo; poi vi rubano ogni presente trasformandovi in uno dei pretesti per mandare avanti le loro manovre. E diciamocelo francamente: come pretesti siete perfetti. Non c'è miglior pretesto vivente di chi affida la propria disperazione al desiderio, percepito ma al tempo stesso ricercato come unica soluzione possibile, di una disperazione ancora maggiore. Sognate di andare a "lavorare" negli States, in Inghilterra, in Giappone, da ogni parte; volete fare la ricerca perché siete dei cervelli, e magari lo sapete anche benissimo che il 99% della ricerca cui tanto anelate ha degli scopi chiarissimi: militari in primis, oppure al servizio delle multinazionali (tipo quelle farmaceutiche). Sapete cosa vi dico? Ma levatevi pure da tre passi dai coglioni, voi e il vostro "futuro" di merda. Siete dei morti consapevoli di essere morti, e talmente morti da disprezzare e respingere chi ancora si ostina ad essere vivo. E vivo è soltanto chi ha deciso di sconvolgere il presente affinché ciò che verrà dopo possa essere un'altra cosa. Dite di volere tutto diverso, ma non è vero. Volete una disperazione un po' più esteticamente carina, che un giorno o l'altro riprodurrà esattamente la disperazione cupa di adesso. Non avete nessuna capacità di intaccare i "sacri pilastri" cui restate abbarbicati come blatte. Nei confronti di chi non ha, o non avrebbe paura a andare davvero oltre, vi comportate precisamente come coloro che dichiarate vostri oppressori. Andate a manifestare "contro le banche" sognando mamma banca. Siete "contro lo stato" e fareste carte false per un impiego fisso dentro babbo stato. Siete Techno anarco pseudo-punk sognando un reddito da manager di Bundesbank (Redelnoir, Stalker). Il vostro "futuro" è fatto di lavoro, stabilità, valori, punti fermi: tutto ciò che ora vi hanno mandato a puttane e per la mancanza del quale vi disperate; sarebbe bello avere tutto questo e poter finalmente coltivare tutti i propri hobbies, dalla pesca alla "ribellione".

In tutto questo, noi delle generazioni precedenti abbiamo avuto buon gioco nei vostri confronti. Noi, cazzo, l'abbiamo tentata, la "rivoluzione"! Come dice qualcuno, "volemmo rispondere a tutto" e allora "ci chiesero e dovemmo rispondere di tutto". Ma per favore. Per età, appartengo solo in parte a "quella generazione"; sto sul mezzanino giù per le scale che porta alla vostra, e di certi anni ho vissuto soltanto, per così dire, gli ultimi bagliori. Sono arrivato a festa finita. Però mi accorgo che mi venite a cercare, "volete sapere", interrogate me e, ancor più di me, chi quella stagione l'ha vissuta appieno. Ci siamo divisi in tre categorie, noialtri. La prima: quelli che la famosa "risposta a tutto" l'hanno data passando interamente dall'altra parte e scoprendo quant'è bello far soldi e avere potere. La seconda: quelli che hanno coltivato la sconfitta, perché una bella sconfitta generazionale è tremendamente affascinante, dà un charme incredibile e può, in definitiva, servire anche a barcagliare le ragazzine della vostra età con discrete probabilità di successo. La terza: i morti. Per eroina, per lotta armata, i morti giovani una non trascurabile parte dei quali sono stati sterminati e torturati perché volevano, sapete cosa? Un altro stato. Che so io, non penserete mica che le Brigate Rosse volessero l'eliminazione dello stato, no? O che volessero abolire il lavoro. E così siamo diventati una generazione-museo. Una specie di "mito" che abbiamo peraltro saputo coltivare bene, specialmente da quando la Rete ci ha dato modo di uscire dal buen retiro (fatto spesso di lavorini sicuri, periodiche rimpatriate, gastronomie, letture, forme d'arte, riviste, giornalismi e quant'altro) nel quale potevamo darci a ciò che ci preme maggiormente: la disillusione. Sacra. Se non si è disillusi, non si è nessuno. Amiamo tremendamente affermare che non abbiamo rinunciato all'utopia, ma quando si tratta di metterla in pratica, ci pensiamo due e anche tre volte. Siamo vecchi, stanchi e sfavati, però guai a chi ci tocca la nostra "gioventù" che è stata "unica e irripetibile". Con essa ci sentiamo ancora in grado di formulare sentenze sul presente, sentenze e disprezzi. Siamo una massa di boriose salme racchiuse in circolini, che ancora si massacrano a vicenda rinfacciandosi quel che accadde all'assemblea alla Statale nel '72. Ci diamo patenti di "coraggio" e ci distribuiamo accuse di "infamità" e "vigliaccheria". E ci venite anche a cercare. Ci dovreste sparare a vista, ci dovreste. Altro che "cattivi maestri", ora come ora siamo al massimo maestrine con la penna rossa. Capaci soltanto di fare incompensibili analisi di una realtà che non siamo minimamente in grado di afferrare perché, brutta cattiva, ha osato sfuggirci. Veneriamo il '77, l' "anno in cui tutto sembrò possibile"; il mondo si è fermato lì. Che palle. Sto cominciando ad amare molto di più i ragazzini dei biechi anni '80, dei quali in fondo faccio parte, che in piccola parte stanno producendo le critiche autenticamente più radicali e che stanno fabbricando, forse, un'utopia nuova e solforosa. Forse. Forse. Forse.

Sarebbe il momento che il "futuro", ora, lo mandaste all'inferno. Voialtri giovani e giovincelli. Che vi alzaste e diceste: "Noi non lo vogliamo, questo vostro futuro di merda. Vogliamo il presente e ce lo prendiamo come cazzo ci pare a noi. Non ce ne frega nulla se non avremo la pensione quando saremo dei bavosi come voi, tenetevela pure e mi raccomando, lavorate fino a ottant'anni e schiantàteci pure. La disoccupazione sarebbe una meraviglia, e voi ce la rovinate disperandoci ogni secondo perché non ci abbiamo un lavorino al servizio del sor padrone. Ma disoccupatevi anche voi, coglioni! Non abbiamo bisogno di niente. Proprio per questo abbiamo tutto." Naturalmente non lo farete. Nessuno lo farà. Eppure è una cosa che minerebbe alla base davvero tutto quanto, ben più delle periodiche messe a ferro e fuoco delle città. Macché; continuerete con le geremiadi sulla "mancanza di futuro e di speranza". Vi farete fare le inchiestine dal Tg2 nei vostri quartieri degradati. Continuerete in discreta parte a dire che è tutta colpa degli immigrati che vi rubano il lavoro. E invece, tiè, è il lavoro che ruba voi. In tutte le forme. Quando c'è e quando non c'è. Vi ruba e non vi rende. Piccoli schiavi in erba che ambiscono ad essere schiavi a pieno titolo. Sí, sí, andate "all'estero" senza nemmeno accorgervi che non esiste più nessun "estero". La "fuga dei cervelli" per fabbricare tecnologie sempre più nuove e sempre più superflue. Per fabbricare sempre migliore "salute" mentre si muore sempre di più restando biologicamente vivi. Che ne direste, invece, di dimettervi dal "futuro" e di ficcarlo nel culo a tutti quanti?

E comunque, con questo "futuro" ci avete davvero bacato il cazzo.

Fine del tema.

Alunno: Venturi Riccardo, classe XXXV sezione A

Voto: Presentarsi immediatamente dal preside accompagnato possibilmente dalla Polizia.




domenica 15 aprile 2012

Licenziarsi tutti


Suicidio un cazzo!

Non ho proprio nessunissima intenzione di compiere l'insano gesto, e men che mai se dovessi perdere il lavoro. Gli vo in culo, al lavoro! Ho tutto quel che mi serve per vivere: una testa, due mani, un amore e un gatto. Per morire c'è tempo. Non vorrei certo mancare di rispetto a tutti coloro che, ultimamente, hanno deciso di ammazzarsi perché hanno perso il lavoro, scegliendo sovente modalità atroci (darsi fuoco, buttarsi sotto un treno e altro); hanno semplicemente anticipato il suicidio. Trovo singolare che l'alternativa posta dalla gran "civiltà del lavoro" sia tra suicidarsi perché non lo si ha più (o non lo si trova), e morire a migliaia lavorando. L'alternativa tra il padrone che ti esubera, ti cassa-disintegra, ti mobilizza, ti precarizza e ti getta via, e il padrone che ti fa volare da un'impalcatura, ti thyssenkruppa a fuoco vivo nel laminatoio, ti asfissia nella stiva, ti spreme al computer fino a ucciderti di sonno arretrato. No, ora sarebbe il momento di dire basta. Di accorgersi che il lavoro è soltanto morte in tutte le salse. Di rifiutarlo, altro che ammazzarsi perché non lo si ha. Di licenziarsi tutti.

La fabbrica chiude? E chi se ne frega, che chiuda! Cinquemila, diecimila licenziamenti per salvare l'azienda in crisi, col supermanager che fa finta di essere addolorato mentre dà l'annuncio? Sai cosa si fa, allora? Si va via tutti quanti. O non vogliono sempre "risparmiare" per i "costi insostenibili"? Gli si fanno sostenere bene, questi costi: levandoci tutti dai coglioni. Più nessuno. Ci penseranno i loro robottini, i loro macchinari, le loro ipertecnologie a "produrre" cose che, dopo un po', non comprerà più nessuno. Marchionne? Bye bye, ci hai caramellato la minchia con le tue minacce quotidiane di "portare via la Fiat dall'Italia". Vattene, tu e la tua Fiat di merda. Le letterine, stavolta, ti si mandano noi: con la presente eccetera il dipendente Rossi Mario, avendone piene le palle, ha deciso di non presentarsi più al lavoro dalla data X, e vaffanculo te e i tuoi pulloverini. E le piccole e medie imprese? Il motore della nazione? Il sistema Italia? Da lunedì ce ne andiamo a pescare, e ci riprendiamo la vita. Da mangiare? E si mangeranno i pesci, che son tanto buoni, contengono fosforo e fanno bene alla vista. Le famiglie? Capiranno. Qui, tanto, oramai, non lavora più nessuno; tutti quanti si stanno liberando. Ci si dovrà arrangiare, e l'essere umano ha comunque dimostrato in tutta la sua storia di essere abbastanza bravo a farlo. La Camusso là come una demente con l'articolo 18 in mano, senza sapere più che fare: non lo si può più applicare. Con una giustissima causa, se ne sono andati tutti. Licenziare gli statali? Meglio licenziare lo stato. Equitalia deve mandare le sue cartelle? Impossibile, non c'è più nessuno che le mandi. Hai bisogno di curare zia Genoveffa che si è ammalata? Al dottore offri di tornirgli i pezzi della macchina, se lo sai fare; oppure gli coltivi i topinambur e gli innaffi i pomodori per un dato periodo. E se il dottore non c'è più, perché si sono licenziati anche i docenti universitari? Cura con le erbette. Oppure la zia Genoveffa muore. Fra tutti i suicidi e gli omicidi della "civiltà del lavoro", si è disimparato proprio a morire. A accettare la morte. Sono scomparsi quei bei letti di morte coi parenti intorno, e invece si vuole vivere vivere vivere sempre di più, ma vivendo una vita che non è più tale. Vivendo una vita che è soltanto un lento suicidio al servizio del capitale. E, allora, si muoia sí, ma come si dice noi. D'un colpo o anche soffrendo, perché può succedere; in quel caso, sí, si potrebbe anche decidere di non averne proprio più voglia e morire di propria volontà e senza l'intervento di alcun Dio, forse il peggiore di tutti i padroni.

Ma guardate a che cosa ci siamo ridotti, tutti quanti. A far dipendere la nostra vita da sistemi macro e microeconomici. L'economia deve essere distrutta perché sta distruggendo tutti noi. Dovremmo cominciare piano piano, senza far tanto rumore; poi trasformare la brezza in vento, e il vento in tempesta. Gli esseri umani hanno deciso di non lavorare più. Di utilizzare le proprie risorse, la propria intelligenza e le proprie capacità naturali e acquisite senza più metterle al servizio di alcun padrone. Con lentezza, senza fare alcuno sforzo. E senza porsi più tanti "grandi questioni" paralizzanti, che hanno portato al più tragico impasse della storia: perché, oramai, della criminalità del lavoro si sono accorti proprio tutti, ma senza avere più nessun mezzo efficace per contrastarlo in quanto rassegnati a "far parte di un sistema" che non può essere combattuto. E allora si assiste a paradossi che hanno tutta la tragicità di cui è capace il ridicolo.

Ci sono, ad esempio, gli "anarchici" che non saprebbero più come vivere se, domani, perdessero il loro bel posticino in qualche ufficio statale; ma perché, se sono tanto "anarchici" e addirittura nemici giurati del lavoro (contro il quale tuonano dai loro blog un giorno sí e un giorno sí), non si licenziano? Non potranno più coltivare le loro passioni, i filmini, i fumetti, i librini e quant'altro? Non potranno più andarsi a fare le vacanze nel bel posto, e defilarsi sdegnati da ogni cosa distillando però perle di esperienza, disillusione, mancate rivoluzioni giovanili, rabbie e veleni sopra ogni cosa? Eh, pappappero. Una bella licenziatina collettiva, e all'improvviso sarebbero costretti anche loro a riconfrontarsi con un presente che, finalmente, supera il famoso stato di cose, quello di cui vanno cianciando ancora oggi. Il cavallo di battaglia delle loro ciance; lo hanno talmente superato, lo stato di cose, che se ne stanno là tutti i giorni a guadagnacchiarsi lo stipendiuccio con una paura fottuta, e malcelata, che prima o poi il signor Monti e la signora Fornero si occupino di loro. Anche iersera mi è capitato di starci, in mezzo a parecchi anarchici; dio serpente, non ce n'era uno che minimo non lavorasse alle poste!

Oggi, invece, lo stato di cose è brutalmente sotto gli occhi di tutti. Sono convinto che alla disperazione non possa essere opposta altra disperazione. Va opposta una cosa altrettanto brutale, ma allegra. Va opposto il licenziamento dal lavoro. Una "civiltà" costruita in sodalizio di morte da capitale, stato in tutte le sue forme e in tutti i suoi regimi, economismo, padronato. Che cosa è stato opposto allo "sfruttamento dell'uomo sull'uomo"? La creazione progressiva di "migliori condizioni di lavoro"? Ma davvero? E se sono così "migliori", l'alienazione dell'umanità (un'alienazione che non esisteva nella civiltà preindustriale) a che cosa sarà dovuta, all'aria guasta? E il "pianeta" sarà salvato a colpi di protocolli di Kyoto, ché poi far protocolli dal paese di Fukushima secondo me è peggio di una barzelletta di Berlusconi? Ora come ora il "pianeta" si salva in un solo modo: fermando tutta la produzione in serie di oggetti e "servizi" che non servono assolutamente a un cazzo di niente. Ivi compreso 'sto computer di merda dal quale vi sto scrivendo. La comunicazione delle idee andava avanti benissimo a carta e penna, quando le idee c'erano per davvero; ora, invece, c'è Twitter.

E, insomma, perdono il lavoro e si ammazzano. Oppure ammazzano in grande stile. Si ammazzano perché non riescono a mandare avanti la famiglia oppure ammazzano la famiglia, tout court. Oppure entrano nel bell'ufficio climatizzato, nella beauty farm, nella banca che li ha buttati fuori, nell'officina che non li voleva più, e con un'arma da fuoco prodotta da altri lavoratori (soggetti naturalmente a esubero) compiono una strage. Salgono sulle gru. Immigrano sui barconi perché le loro terre, nelle quali sovente basterebbe mettersi sotto un albero a fare l'amore aspettando che cada la frutta, sono state massacrate da guerre, petroli, materie prime, miniere, fosfati, rame, cristi, fami, disoccupazioni, carestie, ogni cosa. Proprio per questo al lavoro inneggiano tutti. Forse si è fatto, nella storia, poco caso ad un fenomeno: il lavoro ha unito i "peggiori nemici". Il lavoro è il caposaldo dei barbogi di ogni religione come dei "comunisti". Dei fascisti come dei liberali. Persino di parecchi "anarchici". Proprio non ce la fa nessuno a staccarvisi, a mandarlo a farsi fottere. A parole, tanti; nei fatti, nessuno. Belle costruzioni teoriche, "manifesti", primitivismi alla John Zerzan, invettive e paradossi squisitissimi come questo; ma nessuno, alla fin fine, che si licenzi. Che rinunci al suo posticino se ce l'ha. Che rinunci a cercarlo mandando in culo ogni cosa e, magari, convincendo chi gli sta più vicino a fare altrettanto, a non ammazzarsi di lacrime e di preoccupazioni, a essere pronto anche a mangiare merda e dormire sotto un ponte e ad ingegnarsi adagio perché quel ponte diventi una reggia per tutti. Mi chiedo se non abbia ragione Sirio a non voler dare i suoi vent'anni alla morte; chi è Sirio? Io lo so, e lui lo sa. E lo sa anche sua madre, che non vorrei più veder morire alla svelta perché ha vent'anni anche lei, e ce li avrà sempre.

Invece si dovrebbe cominciare davvero tutti quanti a licenziarsi, a scappare via dal lavoro. A lasciarli finalmente soli con le loro macchinette e con le loro economie, quei signori. Soli e con le palle in mano, e restituire il tempo al tempo togliendolo definitivamente al denaro. Vorrei che gli occhi di chi amo non fossero costantemente come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre. E mi fumo un sigaro, dio cagnaccio. Lo so che non dovrei, che mi fa male, che tutto quanto; ma non morirò di lavoro. Probabilmente lo sto per perdere, quel lavoro che ha contribuito ben più del fumo a mandarmi a gallina; non immaginate nemmeno che vita mi è toccato fare fino al 21 settembre 2011. E chi se ne frega. Mi licenzio. Perderò, magari, ogni cosa. Mi staccheranno luce e gas. Non lo leggerete più l' "Asocial Network", non è una cosa fondamentale per l'umanità. Se avrò ancora davvero voglia di "far circolare le mie idee", troverò comunque il modo di farlo. Se c'è qualcosa cui tengo, è questo buco in cui vivo; beh, vorrà dire che un bel giorno perderò pure quello, ma non perderò la vita. Non mi avrà la disperazione. Non mi avrà il lavoro e la sua peste bubbonica. Non mi passerà sopra nessun treno, porca madonna. Alla fine morirò, come tutti, ma dopo aver vissuto la mia vita. Al momento che sarà, sperando che avverrà su una spiaggia dell'Elba, mentre sono in panciolle a non fare un cazzo, con la Settimana Enigmistica (anche se si licenziano tutte le sue maestranze e non esce più, ne ho, tiè, una scorta che basta per decenni). Vi suggerirei: fatelo anche voi. Licenziatevi tutti, perché di "cambiamento" non ce ne può essere altro. Licenziamoci tutti, perché così vinceremo.

venerdì 13 aprile 2012

Ciò che, invece, andrebbe detto


Ecco, ora che quel che andava detto da Günter Grass è stato rimesso a posto, vorrei dire quel che, invece, andrebbe detto. Tra il sottoscritto e Günter Grass ci sono, ovviamente, delle lievi differenze: prima di tutto non ho ancora ottenuto il Premio Nobel per la letteratura (e un milioncino di dollari mi farebbe anche comodo). Poi non sono gravato dalle colpe tedesche, al massimo da quelle elbane. Non ho passato ottantaquattro anni a macerare me stesso, ma quasi cinquanta a macerare peperoncini nell'olio d'oliva. Non sarò dichiarato persona sgradita in Israele, ma gioco d'anticipo e dichiaro tutto lo stato d'Israele non gradito in via dell'Argingrosso. In ultimo, le cose che ho da dire le dico da parecchio; e sono, almeno lo spero, un pochino più chiare. Sono quelle che seguono:

Poiché odio i preamboli
dico subito quel che andrebbe detto:
lo stato di Israele
dovrebbe essere eliminato dalla faccia della terra.

Ciò non significa eliminare gli ebrei,
anche se mi fa schifo ogni tipo di religione
e particolarmente quelle monoteistiche;
anzi, che a nessuno sia mai torto un capello.
Ognuno viva dove vuole,
a condizione di non dichiararsi "eletto",
e di non giustificare con un dio di merda
lo sterminio nei confronti di altri esseri umani
(che, poi, è solamente un pretesto).

Questi i risultati
del solito nazionalismo di stampo ottocentesco;
ad uno sterminio
(poiché non sono un "negazionista"
e i negazionisti mi fanno sincero ribrezzo
anche se non vorrei mai che le loro stronzate
fossero dichiarate reato punibile per legge
per compiacere i servi mondiali filosionisti
e la loro propaganda orripilante)
si risponde incoraggiando e sostenendo
economicamente e militarmente
un nuovo sterminio
operato da uno stato genocida
ammantato di "democrazia".

Non vorrei che esistesse nessuno stato
né di "Israele", né "palestinese";
vorrei che ogni lembo di terra fosse libero
per chiunque.
E non vorrei biascicare sempre la parola "pace"
quando essa, in realtà,
significa "equilibri" basati sulla morte
e nient'altro che sulla morte.
Non vorrei la "pace dei due stati"
perché lo stato è di per sé la negazione della pace.
Utopia, utopia!
Eccolo là il grido.
Però da Sabra e da Chatila,
da Deir Yassin, da Gaza,
da ovunque in Palestina sono provenute
ben altre, ed alte, grida;
e ora cosa ci vengono a dire?
Le solite cose.

Ad esempio, che le bombe atomiche "democratiche"
possono esistere, mentre quelle "non democratiche"
non sono consentite.
In pratica: Israele può averla, la bomba H
mentre l'Iran non può averla.
Ora, vorrei essere molto chiaro.
La bomba atomica non dovrebbe averla nessuno.
Nessuno.
Non cado nell'idiozia di fare il tifo:
quel che non aveva capito un grosso banchiere defunto
(tale Franco Lattanzi, in arte Sbancor),
quell'unica volta che ebbe a che fare col sottoscritto.
Mi diede dell'imbecille,
ma era lui che non aveva capito un cazzo di niente.
Non è questione di "stare con l'Iran"
o di "stare con Israele";
è questione soltanto di non stare più, e mai più,
con nessuno.
E' questione di stare con la chiarezza,
con la non fraintendibilità,
e abbandonare ogni residuo di prudenza.
Dai coglioni si dovrebbero levare tutti,
i "democratici" israeliani sterminatori
e i barboni iraniani con la loro teocrazia.
Vogliono costringerci a schierarci,
ma l'unico schieramento possibile è opporsi ad entrambi
e ai loro sponsor.
A cine, russie e statuniti.
Ai loro mercati.
Ai loro capitali.
Ai loro dèi.
Alle loro regole.
Alle loro propagande.

Ehi, Günterchen, ma solo ora,
dopo ottantaquattr'anni,
ti vengono a mente certe cose?
Eh lo so che eri stato un po' nazistello in gioventù,
e del resto lo era stato anche quell'altro tuo connazionale,
sai, quello là che parla sempre di pace
vestito di bianco
dal suo bilocale ammobiliato in piazza San Pietro.
Ma insomma, una volta che ti sei deciso,
vai fino in fondo;
"legato a Israele?"
E che cosa ti ci lega?
Hai fatto un corso per rabbino?
Passi le vacanze a Eilat o a Herzliya?
Te ne accorgi ora che Israele ha la bomba atomica
e che la vuole avere solo lui?
Was gesagt werden muss in pompa magna
sulla zeitunga della Germania del Sud?
Tsk tsk.
Sono anni e anni che anche nell'ultimo dei blog
lo si dice, questo.
Lo si dice in tutte le lingue.
Persino in tedesco!

E allora, fuori i nazisti dal mondo.
Fuori dai coglioni le loro "religioni".
Fuori dai coglioni le loro violenze,
Fuori dai coglioni i loro stati.
Sarebbe questo l'unico vero modo per aiutare
i popoli costretti ad ammazzarsi a vicenda.
Giocherellano a minacciarsi col fallout,
si trastullano con l'annientarsi,
lanciano anatemi
assieme alle bombe a grappolo.
Bloccano le flottiglie,
e già, ora che mi ricordo
domani è pure un anno che Vik.

Si massacrano a colpi di finte primavere,
mentre noi, qua,
preferiamo suicidarci
come Dimitris Christoulas.
Ora, dico, senza giornali
(e ben conscio che tradurre, che so io, in tedesco
queste mie parole non sarebbe semplice;
magari me ne occuperò da solo):
ma quale cazzo di "controlli internazionali",
quale minchia di "ispezioni",
caro Günterchen.

Internazionalmente bisognerebbe ricominciare, tutti,
ad essere internazionalisti.
A smascherare e combattere tutta questa serie di menzogne,
a ribellarci e a cacciargliele tutte nel culo,
le loro bombe atomiche,
a Tel Aviv come a Teheran,
a Los Alamos come a Pyongyang.
A smetterla di fare il tifo per l'uno o per l'altro
perché ci vogliono tutti quanti dominati,
oppressi, soggiogati, morti.
E noi, cretini, glielo permettiamo.

E, allora, bruciamo le bandiere.
Tutte.
Alla "logica dei due stati"
opponiamo quella dettata dalla ragione e dall'umanità:
nessuno stato.
Scompaiano gli israeli e anche gli irànni,
ché noi vogliamo gli stati liberi e disuniti.
Hanno saputo produrre solo muri.
Ci minacciano tutti.
Appoggiamo chiunque si opponga
e freghiamocene di tutto il resto:
che si opponga anche armi in pugno,
che si opponga nel modo più opportuno.

Può darsi che non ce la faremo,
ma è questo, e solo questo,
che deve essere detto.

Es ist dies, und nur dies,
was gesagt werden muss.

זהו, רק זה צריך להיאמר.

Ciò che andava detto (anche un po' meglio)


E così mi sono voluto "cimentare" anch'io con una traduzione della "orazione civile" (ora va di moda dire così...) di Günter Grass, l'oramai famosa Was gesagt werden muss, spinto effettivamente dalla pochezza di quella pubblicata da "Repubblica" (ad opera di tale Claudio Groff). Certo è veramente singolare: la traduzione di una persona ("Io Non Sto Con Oriana") che ammette candidamente di conoscere soltanto i rudimenti della lingua tedesca, riesce ad essere migliore di quella di uno al servizio del superquotidiano-partito. Non vedo poi che cosa ci abbia dovuto avere a che fare la cosiddetta "urgenza"; gli argomenti espressi da Günter Grass sono generali, e non riguardano certamente la cronaca immediata. Avrebbero potuto aspettare qualche giorno e affidare lo scritto di Grass a un traduttore professionale dal tedesco. Non dico a un "poeta", certo, perché quel che ha scritto Grass non è poesia. E' una prosa che va a capo prima della fine della riga, e stop. Oltretutto, in diversi punti, una prosa parecchio involuta, farraginosa addirittura. Non sono, mi sia consentito dirlo, così incondizionatamente entusiasta di ciò che ha scritto Günter Grass. Come si suol dire dalle mie parti, scopre l'acqua calda. In modi assai più efficaci, diretti e coinvolgenti questi sono concetti che vengono espressi da anni, particolarmente in Rete (blog ecc.); certo, ammetto che sentirli da un "premio Nobel per la letteratura" può essere infinitamente più visibile, e che il "nome famoso" possa finalmente contribuire a rendere un po' più chiare le cose. Chiare sí, ma con tutto un bagaglio di prudenza che Grass si poteva anche risparmiare. Prudenza che, comunque, non sembra essergli servita poi molto: ha avuto voglia di dichiararsi "legato a Israele", ma ha detto abbastanza per essere immediatamente messo nell'elenco delle "personae non gratae". E ben gli sta; con la forza di cui il suo nome è sicuramente capace, avrebbe potuto ricordare di certuni che sono stati rapiti e incarcerati per anni perché avevano osato rivelare i segreti dell'arsenale atomico israeliano (Mordechai Vanunu), oppure tutto l'ambaradan politico-mediatico effettuato nei confronti dell'Iran (che non è una semplice "ipocrisia": è un disegno politico e militare di conquista e genocidio), e di parecchie altre cose. Quello di Grass mi sembra in definitiva un coraggio a metà: con la sua "ultima goccia d'inchiostro" avrebbe potuto essere molto, ma molto più incisivo. Capisco anche però che non si può fare più di tanto dalle righe di una "Süddeutsche Zeitung". Comunque sia, certamente, le parole di Grass vanno conosciute ammodino. Se anche noi merde qualsiasi le andiamo dicendo da anni, sicuramente non abbiamo la possibilità di diffonderle con mezzi a noi preclusi. Quindi, traducendo, mi sono attenuto alla prima regola del traduttore da una qualsiasi lingua: il testo è comunque sacro e non lo devi improvvisare o inventare a piacimento. Cosa che, in alcuni punti, ohimé è stata fatta. Mi sono attenuto rigorosamente al testo originale, dando conto di certe rese in delle apposite note (evidentemente, su "Repubblica" non c'era ulteriore spazio, occupato dalle vicende di Rihanna e dai goal strani dell'ineffabile Pier Luigi Pisa). Cose che andavano dette, sí, ma ci sono stati già moltissimi che le hanno dette anche ben meglio di Günter Grass, e più chiaramente e radicalmente. Senza aspettare di avere 84 anni passati a macerarsi nelle colpe tedesche. Comunque sempre meglio di un Wolf Biermann, il "comunista" che è passato ad essere un filosionista dei più merdosi, e sostenitore delle varie "esportazioni della democrazia". Ach so, questi intellettuali tedeschi!

Was gesagt werden muss

Warum schweige ich, verschweige zu lange,
was offensichtlich ist und in Planspielen
geübt wurde, an deren Ende als Überlebende
wir allenfalls Fußnoten sind.

Es ist das behauptete Recht auf den Erstschlag,
der das von einem Maulhelden unterjochte
und zum organisierten Jubel gelenkte
iranische Volk auslöschen könnte,
weil in dessen Machtbereich der Bau
einer Atombombe vermutet wird.

Doch warum untersage ich mir,
jenes andere Land beim Namen zu nennen,
in dem seit Jahren - wenn auch geheimgehalten -
ein wachsend nukleares Potential verfügbar
aber außer Kontrolle, weil keiner Prüfung
zugänglich ist?

Das allgemeine Verschweigen dieses Tatbestandes,
dem sich mein Schweigen untergeordnet hat,
empfinde ich als belastende Lüge
und Zwang, der Strafe in Aussicht stellt,
sobald er mißachtet wird;
das Verdikt "Antisemitismus" ist geläufig.

Jetzt aber, weil aus meinem Land,
das von ureigenen Verbrechen,
die ohne Vergleich sind,
Mal um Mal eingeholt und zur Rede gestellt wird,
wiederum und rein geschäftsmäßig, wenn auch
mit flinker Lippe als Wiedergutmachung deklariert,
ein weiteres U-Boot nach Israel
geliefert werden soll, dessen Spezialität
darin besteht, allesvernichtende Sprengköpfe
dorthin lenken zu können, wo die Existenz
einer einzigen Atombombe unbewiesen ist,
doch als Befürchtung von Beweiskraft sein will,
sage ich, was gesagt werden muß.

Warum aber schwieg ich bislang?
Weil ich meinte, meine Herkunft,
die von nie zu tilgendem Makel behaftet ist,
verbiete, diese Tatsache als ausgesprochene Wahrheit
dem Land Israel, dem ich verbunden bin
und bleiben will, zuzumuten.

Warum sage ich jetzt erst,
gealtert und mit letzter Tinte:
Die Atommacht Israel gefährdet
den ohnehin brüchigen Weltfrieden?
Weil gesagt werden muß,
was schon morgen zu spät sein könnte;
auch weil wir - als Deutsche belastet genug -
Zulieferer eines Verbrechens werden könnten,
das voraussehbar ist, weshalb unsere Mitschuld
durch keine der üblichen Ausreden
zu tilgen wäre.

Und zugegeben: ich schweige nicht mehr,
weil ich der Heuchelei des Westens
überdrüssig bin; zudem ist zu hoffen,
es mögen sich viele vom Schweigen befreien,
den Verursacher der erkennbaren Gefahr
zum Verzicht auf Gewalt auffordern und
gleichfalls darauf bestehen,
daß eine unbehinderte und permanente Kontrolle
des israelischen atomaren Potentials
und der iranischen Atomanlagen
durch eine internationale Instanz
von den Regierungen beider Länder zugelassen wird.

Nur so ist allen, den Israelis und Palästinensern,
mehr noch, allen Menschen, die in dieser
vom Wahn okkupierten Region
dicht bei dicht verfeindet leben
und letztlich auch uns zu helfen.

Ciò che va detto

Perché taccio, facendo passare troppo a lungo
sotto silenzio quel che è evidente, esercitato
in giochi di guerra dove, alla fine, sopravvissuti,
tutt'al più siamo delle note a margine?

È il preteso (1) diritto a colpire per primi (2)
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone (3) e condotto
alle feste di piazza organizzate (4),
poiché rientra nel suo potere, si sospetta,
costruire una bomba atomica.

E allora, perché mi vieto
di chiamare per nome quell'altro paese
dove, da anni, sebbene in segreto,
si dispone di un crescente potenziale nucleare
però senza controlli, dato che non si può fare (5)
nessuna ispezione?

Il silenzio generale su questa situazione
(cui sottostà pure il mio silenzio)
lo percepisco come bugia opprimente
e coercizione, e prefigura già la punizione
se non vi si fa la debita attenzione:
consueta è la sentenza di „antisemitismo“.

Ma ora, poiché dal mio paese
(che si vede affibbiata l'esclusiva
di certi crimini che non hanno paragone,
e al quale, di volta in volta, ne viene chiesto conto),
- benché di nuovo per „scopi puramente commerciali“
e sbrigativamente dichiarato come „riparazione“ -
dev'essere consegnato un altro sommergibile
la cui specialità consiste nel saper dirigere
testate nucleari che annientano ogni cosa
su un luogo dove non è stata provata
l'esistenza di alcuna bomba atomica,
(e che però serve da spauracchio assai convincente) (6)
allora dico quel che va detto.

Perché ho taciuto fino ad ora?
Ritenevo che le mie origini
sporcate da una macchia incancellabile (7)
vietassero di pretendere dallo Stato di Israele
(cui sono e resterò legato)
tutta la verità così com'è. (8)

Perché dico ora, per la prima volta,
già vecchio e con l'ultima goccia d'inchiostro, (9)
che la capacità nucleare di Israele
mette a rischio una pace già di per sé fragile?
Perché va detto ciò che domani
potrebbe essere già troppo tardi dire;
e anche perché noi, già gravati
di troppe cose in quanto tedeschi,
potremmo diventare fornitori e complici di un crimine
che è prevedibile, e perciò la nostra complicità
non potrebbe essere cancellata
con nessuno dei soliti pretesti.

Lo ammetto: non taccio più
perché sono stufo dell'ipocrisia dell'Occidente;
e ancora, bisogna sperare
che molti escano dal silenzio,
che costringano alla rinuncia (10)
chi ha causato questo pericolo
che sta davanti agli occhi di tutti, (11)
e che insistano anche affinché
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
un controllo permanente e senza ostacoli (12)
del potenziale atomico israeliano
da parte di un'autorità internazionale.

Solo così si potrà aiutare tutti,
gli israeliani ed i palestinesi, sí,
ma ancor di più tutti gli esseri umani
che vivono da nemici a stretto contatto
in questa ragione occupata dalla follia.

Note alla traduzione

(1) Behauptet, come aggettivo è semplicemente “preteso” (nel senso del francese prétendu). Il verbo semplice, di cui è participio passato, significa sí “affermare”, ma in tedesco i participi usati come aggettivi hanno spesso significati un po' diversi. Un altro esempio presente qui è ausgesprochen, come aggettivo “completo, integrale”, come participio “pronunciato” (aussprechen).

(2) Nel testo originale c'è soltanto Erstschlag, “primo colpo”. Il tedesco è lingua molto piana, spesso terra-terra. Das behauptete Recht auf den Erstschlag è il “preteso diritto al primo colpo”. Chissà da dove il traduttore di “Repubblica” ha tirato fuori il “decisivo attacco preventivo”, ripreso poi anche da INSCO. Del “decisivo” non v'è traccia. Traduzione in puro giornalese.

(3) Alla lettera: “finto eroe” (Maul-held). Una traduzione possibile sarebbe potuta essere “ammazzasette”.

(4) Lo Jubel è, in tedesco, la festa di piazza in occasione di qualche avvenimento (e anche il “giubileo” in senso religioso). Caso tipico: la vittoria della nazionale ai mondiali di calcio.

(5) L'aggettivo zugänglich significa sì “accessibile”, ma in senso più generico “praticabile, fattibile”, anche semplicemente “possibile”.

(6) “Forza probatoria” (Beweiskraft) non ha qui alcun senso; è termine giuridico. Meglio rifarsi all'aggettivo corrispondente, beweiskräftig, che significa comunemente “convincente”.

(7) Behaftet significa “affetto da qualcosa” (una malattia ecc.) In pratica, prende il significato della cosa da cui si è affetti; da una macchia si può essere sporcati, in italiano, non affetti. E neanche “stigmatizzati”.

(8) Tatsache significa sí “dato di fatto”, ma soprattutto, e semplicemente, “fatto” oppure “cosa”. Diese Tatsache als ausgesprochene Wahrheit, alla lettera: “questa cosa come verità completa” = tutta la verità così com'è.

(9) L'unico intervento personale che mi sono permesso: il “mio ultimo inchiostro” diventa “l'ultima goccia d'inchiostro”. Del “mio” non c'è peraltro traccia nel testo originale.

(10) Qui auffordern è rafforzato da auf Gewalt “con la forza”, “di forza”. Non è un semplice “esortare”: è “costringere, obbligare”. E mi sembra una differenza non di poco conto. E ho anche un vaghissimo sospetto: che nella traduzione “Repubblicana” l'auf Gewalt sia stato ignorato a bella posta.

(11) Erkennbar è, alla lettera “riconoscibile”. Non indica assolutamente niente che si “vada prospettando”, purissima invenzione del traduttore.

(12) Unbehindert è semplicemente “senza ostacoli, non impedito, libero”. “Senza limiti di tempo” è un'altra invenzione.

giovedì 12 aprile 2012

To Internasyonāle !



Harbāi gal: Eugène Pottier (1871)
Mŭsiga: Pierre Degeyter (1888)
Harbāi kălart: Risyart Vendtūr (1999)

Nă pād gekandtāi nă to dŏrr
nă pād gerāstrāi nă to pein!
Blăs rŭdar hē geblăs in mās flāgŏrr
go satrŭle’n mās kārd sī tam.
Mī năsīn mŏg in to hărgantāi
du t’akrāi, ap to mōr im syenăvăin!
To lah ayēv ap t’hărăg gevienāi
aun deāle'n to syetrŭlăin.

Dāiv al to prūil meydāle
to mās gondŏs at be!
To Internasyonāle
to būn nă t’gŭmer be!
Sī to prūil nă to isāle,
motĕr galăn pog nărsy!
To Internasyonāle
păr to liudăr in marsy!

Năsā sĭlnaradrāi māheysā,
nă Dyāus nă Tsīzăr nă tribūn
to părbēr s’sĭlnardō yageysā,
năgollain to sĭlăn sămhūn.
Nădu to vŭer to līdig āssyedā
go syebrad to vu nă to rhŭol,
săglain nīviti in to krolēdā,
nugain to ēss merkos syesī dŭol!

Dāiv al to prūil meydāle
to mās gondŏs at be!
To Internasyonāle
to būn nă t’gŭmer be!
Sī to prūil nă to isāle,
motĕr galăn pog nărsy!
To Internasyonāle
păr to liudăr in marsy!

To stāt apsīc, to kŭn bidrālăg,
to taksāi ekyŏngă to abbāndig;
năcek husăt sī ingepŏr al to dlăg,
to rhīu sī al to skrāmmāi krī.
Danŭs sēdō syettestāi’n mutāvart,
To mutākval posye ollŏs kŭnāi,
dāik nă syesā rhīunāi păr to lart,
go syenăs' hustāi aun rhīunāi!

Dāiv al to prūil meydāle
to mās gondŏs at be!
To Internasyonāle
to būn nă t’gŭmer be!
Sī to prūil nă to isāle,
motĕr galăn pog nărsy!
To Internasyonāle
păr to liudăr in marsy!


T'ordānnig in cān apoteōzis
to rāhāi nă to mīn, nă t’ēsskăud
hoā gedāk nŏrd du ollŏs rhōzis
sepăt eksyevŭeră to năud?
In to kessăfortāi nă to bandād
to bū gesmăl to’m hē ekgevās;
dīgret l’īm ansī ārgedād,
to lăh nă vīlt cek sepăt to innās.

Dāiv al to prūil meydāle
to mās gondŏs at be!
To Internasyonāle
to būn nă t’gŭmer be!
Sī to prūil nă to isāle,
motĕr galăn pog nărsy!
To Internasyonāle
păr to liudăr in marsy!

To rāhāi hoā năgevăr săm genāik,
binyū tăr măs, vogēr al to rhudrāi!
Părain in to hiryanāi to strāik,
kanŭm du t’ĕyn go brikain landlāi!
Apankurtlă, nāmā kanibālāi
dĕstāi săm măs balyăgalāi,
ī subsyă doe syesā mās bālāi
gadvĭsse păr mās generālāi!

Dāiv al to prūil meydāle
to mās gondŏs at be!
To Internasyonāle
to būn nă t’gŭmer be!
Sī to prūil nă to isāle,
motĕr galăn pog nărsy!
To Internasyonāle
păr to liudăr in marsy!

Năudrāi, rhastīnāi, mēs sāinnĕn
to partāy māg nă vŭrkansyé’!
To dŏrr alkind cudis al to gĕn,
to nicekdĕkadăr egdapsye!
Posto sā drefă săm mās crasyă,
tu mar to kārbāi go t’burdūrāi
eno prōyto ekpărdŭstasyă,
păr ayēv leuksyă to seinyāi!

Dāiv al to prūil meydāle
to mās gondŏs at be!
To Internasyonāle
to būn nă t’gŭmer be!
Sī to prūil nă to isāle,
motĕr galăn pog nărsy!
To Internasyonāle
păr to liudăr in marsy!

mercoledì 11 aprile 2012

martedì 10 aprile 2012

"He's not going to destroy my life."


Ha diciotto anni, e da quel che mi è riuscito capire dal filmato si chiama Alexandra Maeva Noria Peltre. Madre africana e padre francese, si è trasferita all'età di tre anni in Norvegia. Il 22 luglio 2011 si trovava assieme ad altre decine di ragazze e ragazzi sull'isola di Utøya, quando è arrivato Anders Behring Breivik. Pochi giorni fa ci è voluta tornare, su quell'isola maledetta, assieme ad un'amica. Nello stesso posto dove Breivik ha alzato la sua arma e le ha sparato addosso, provocandole in una gamba una ferita larga come due pugni. Alexandra era riuscita a sfuggire dalla caffetteria dell'isola, dove Breivik aveva iniziato il massacro; è scampata chissà come, buttandosi in acqua. Ha fatto in tempo, però, a vedere ammazzare come cani due ragazzi, uno dei quali con cinque o sei colpi. Ma tutte queste cose Alexandra le racconta nel filmato; il 16 aprile comincia il processo a Breivik e Alexandra sarà in aula, di fronte a quel pezzo di merda e a tutti i pezzi di merda come lui.

Abbiamo perso parecchio tempo, nei giorni successivi alle stragi di Oslo e di Utøya, a disquisire profondamente sul "signor Baialarga". Se fosse o meno un nazista, un "integralista cristiano", un pazzo, un prodotto di Oriana Fallaci, un invasato o decine di altre cose. Di quei sessantotto ragazzi dell'isola ce ne siamo scordati presto, se mai ce ne siamo ricordati davvero. In fondo, Breivik ha ottenuto esattamente ciò che voleva: catalizzare su di lui tutta l'attenzione, sin dall'inizio. Sapeva probabilmente bene che, in mezzo all'oceano di odio che aveva suscitato, ci sarebbe stato anche un'isoletta di ammirazione, forse più grande della stessa Utøya. Io stesso confesso che, delle sue vittime, Alexandra è la prima di cui riesco a sapere il nome completo, che peraltro potrebbe essere inesatto. La prima che sento parlare, con calma, di quei suoi terribili momenti passati a diciassette anni. Numerosi testimoni hanno dichiarato che Breivik provava particolarmente piacere nello sparare alle ragazze; oltretutto, Alexandra è di colore. Il biondo nordico che spara alla negra.

Poi, il 13 dicembre 2011, uguale attenzione la abbiamo riservata a un altro tizio, più vicino a noi. Quando Gianluca Casseri ha sparato ai senegalesi a Firenze, in piazza Dalmazia e al mercato di San Lorenzo, uccidendone due e ferendone altri. "Ecco il nostro Brevik", abbiamo esclamato; anche se, sono costretto a dire "fortunatamente", non gli è riuscito raggiungere lo score del norvegese. E giù disquisizioni, dalle quali fuori non mi chiamo, se fosse o meno tale, se provenisse dalla stessa "cultura", quali fossero le similitudini e le differenze. Nel mezzo, Samb Modou e Diop Mor, stesi morti sul selciato della piazza. Nel mezzo, tutte le grida sulla "chiusura di Casapound", che si stanno affievolendo. Casapound non chiude affatto, passata è la tempesta e ode augelli far festa. Con le mille discussioni, ognuno è rimasto del proprio parere ben sapendo che non è affatto fondamentale, e che almeno in una cosa Breivik e Casseri sono perfettamente identici: da qualunque pozzo nero essi provengano, esso è affollato. Ne salteranno fuori altri, perché saltano fuori dalla haine. La haine lavora a pieno ritmo e non si ferma. I suoi risultati, tutti "differenti" ma orribilmente uguali nel sangue che scorre, non "insegnano" proprio un bel niente a nessuno. Ci culliamo per un po' nell'illusione emotiva che "le cose cambino", facciamo finta di percepire un "mutamento di rotta" e ci godiamo le folate che, si dice, spazzeranno via le nubi nere. Poi, pian piano (e aiutate da connivenze, complicità, comodità, finte democrazie, propagatori, impollinatori, Metilparapound, originaloni, questori e quant'altro) ricominciano a addensarsi tranquille e inesorabili.

Nei primi momenti si invocano sempre i nomi, ne abbiamo fame. Dobbiamo poter dire che delle vittime "non si sanno neppure i nomi". Poi, eccoli, questi nomi; li dobbiamo avere per dimenticarli più comodamente. Sempre che, naturalmente, siano vicini geograficamente. Conoscere il nome di un paio di senegalesi morti in piazza Dalmazia è, ad esempio, molto più semplice che conoscere quello di coloro che non sono morti. Quello di Moustapha, ad esempio. Si chiama Moustapha Dieng, ha 34 anni e è rimasto paralizzato. Dal 13 dicembre scorso si trova al piano terra del CTO di Firenze, a poche centinaia di metri da piazza Dalmazia. Unità spinale, "area rossa", terapia intensiva, reparto acuti. La vita di Moustapha Dieng è distrutta anche se non fa parte della litania sambmodoùdiopmor. I nomi dei morti completi si ricordano comunque meglio di quelli dei morti a metà. Di quelli che sono morti ma respirano ancora. Un amico, Madiagne Ba, lo va a trovare tutti i giorni e fa un ritratto perfetto e spietato della situazione: «Eh i primi giorni venivano in tanti a trovarlo, non li lasciavano entrare e stavano fuori dalla porta. Da mesi non si vede più nessuno, a parte suo fratello e noi della comunità senegalese».

Nessuno, insomma. Né il sindaco, né gli antifascisti dei cortei. Né le "istituzioni", né gli "antagonisti". Uno di questi giorni piglio, e vo al CTO a trovarlo, da solo. Se mi riuscirà di vederlo, se mi lasceranno passare, non so cosa gli dirò; ma almeno una cosa è certa. Gli dirò che mi vergogno. Di essere uno di quelli che è andato a cortei e manifestazioni senza preoccuparsi nemmeno un secondo di andare a sentire come stava, a dirgli due o tre parole. Delle quali, magari, non gli importa niente; la sua vita è finita, eppure deve continuare a viverla.

Non so più esattamente che cosa si possa davvero fare per combattere l'odio; se ne è oramai perso l'inizio. Nella stessa Firenze delle "folate" dicembrine, si respira adesso la stessa aria di prima. I senegalesi sono tornati a dare fastidio se vogliono vendere qualcosa nei mercati o davanti ai bar e ai supermercati. Qualcuno avrà pur ricominciato a pensare e a dire, quando un Samb, un Diop o un Moustapha insistono per avere un paio d'euro per la loro paccottiglia, che il Casseri ha fatto proprio bene. Forse l'unica che fa bene è la Guzzanti, che i fascistelli razzisti di merda li piglia per il culo con "Elsa Pound" invece di chiederne una chiusura che non ci sarà mai. Cosa volete chiudere, poi? Per non avere più i Casseri bisognerebbe chiudere ben altro, ivi comprese le case del popolo, i circoli "democratici" e quant'altro dove si sentono le stesse precise cose. Le ho sentite, da qualcuno, persino al "centro sociale". Niente e nessuno è immune. La fiaccolata contro i Rom l'ho vista coi miei occhi, tempo fa, partire da una casa del popolo, proprietà della classe operaja, dedicata al partigiano e con la lapide che inneggia alla pace universale.

Guardando il filmato, a molti verrà da pensare che Alexandra è bellissima. Voleva fare la modella, ma non può più: difficile farsi fotografare in costume con una cicatrice sulla gamba grossa come due mani aperte. La bellezza, sicuramente, parla; ma anche Breivik, beh, era un bel fioeu e a qualcuno parlerà anche la sua. Poi, tra quelli che ha ammazzato, ce ne saranno stati anche di meno belli e belle di Alexandra che voleva fare la modella e che vuole tornare in Africa. Il Casseri, invece, era brutto come la fame; e noi come siamo? Noi che andiamo alle mobilitazioni senza pensare nemmeno per un attimo a mobilitarci dentro, passando con la massima indifferenza da una cosa all'altra a seconda della cosiddetta attualità, o urgenza. Forse, chissà, una medicina efficace sarebbe proprio ritrovarci davanti un Breivik o un Casseri, diversissimi ma con la stessa arma in mano, pronta a spararci. Gli atei più incalliti, chissà, pregherebbero Iddio. Oppure i credenti più ferventi lo maledirebbero. Ci arrovesceremmo la vita in quegli istanti che potrebbero essere gli ultimi. Ci toccherebbe o non ci toccherebbe; oppure faremmo la fine di Moustapha, inchiodati per sempre a un letto senza poterci muovere. Oppure, ancora, ce la caveremmo con una cicatrice nella gamba e con una, ancor più grossa, nella nostra vita intera. Con calma dovremmo viverci assieme. Come dice Alexandra nella sua frase finale: "He's not going to destroy my life". Non distruggerà la mia vita. Magari potremmo, chissà, cominciare a non farcela distruggere ancor prima che il Signore dell'Odio ci spari addosso, senza nemmeno chiederci se, magari, non odiamo quanto lui. Potremmo chiudere, dentro di noi, non soltanto "Casapound" o qualche altro ridicolo gruppuscolo di idioti, ma tutto un intero sistema che ci condanna all'impotenza in nome di vendere e comprare il nulla. Allora i Breivik e i Casseri comincerebbero a tremare e, in definitiva, a dissolversi.

Tanti auguri, Alexandra. Tanti auguri, Moustapha. Non so dirvi altro e non sono niente.