venerdì 7 ottobre 2011

Una partita a carte


Ho avuto un infarto cardiaco. Qualche notte fa, mentre ero a lavorare, svegliandomi per andare a pisciare; fortunatamente non è successo durante un intervento. E non è neanche che desideri starci troppo a ragionare sopra; si tratta di una cosa che, senz'ombra di dubbio, sta avendo e avrà delle ripercussioni importanti sulla mia vita -aggiungendo che nel "pacchetto" è compreso anche un bel po' di diabete. Specificando che non è mia intenzione né fare un resoconto di quanto mi è successo a partire dalle ore 3,20 del 21 settembre scorso, né di abbandonarmi a considerazioni esistenziali o roba del genere, dirò soltanto che sto vivendo la cosa con la massima tranquillità possibile. Un po' perché la situazione lo impone anche dal punto di vista strettamente fisico, ed un po' perché quel che mi è accaduto è ben lungi dall'essere stato inatteso. Con il mio stile di vita, e lo dico con la massima brutalità, era lecito aspettarmi che prima o poi mi pigliasse un colpo. Certo, un conto è aspettarselo, e un altro e cascare in terra sudato in un cesso, riproducendo quasi pedissequamente il gentile compromesso di una delle prime canzoni degli Apuamater Indiesfolk; ma sono qui a parlarne, sia pure succintamente, e questa è già una discreta cosa. Molto discreta; si vede che all'inferno ancora non ero desiderato.

Con quello che mi è successo, in altri tempi (e non parlo di un secolo, ma di soli vent'anni fa o poco più) sarebbe stato auspicabile che fossi morto subito. Mi avrebbero atteso una degenza di mesi, operazioni difficili e a cuore aperto (come l'impianto dei bypass organici ricavati dalla vena safena, cosa che ho visto in famiglia) e un resto di vita di merda. In un'ora e mezzo, invece, la mia coronaria anteriore è stata stasata e angioplastizzata. Quattro giorni di terapia intensiva, poi spedito in medicina dove potevo zampettare a mio piacimento; poi a fare un'altra angioplastica (si era tappata anche la coronaria laterale, e in due punti), un'altra giornata di UTIC, due altre di medicina cardiaca, e poi a casa sulle mie gambe. Totale: giorni nove. A certe condizioni che debbo rispettare, mi si prospetta una vita normalissima e passabilmente lunga; sono dimagrito di quindici chili. Per un po' mi toccherà farmi l'insulina, e la mattina piglio una pasticca la cui sospensione precoce, come recita il piano terapeutico, comporterebbe dei lievissimi effetti quali il reinfarto e la morte (si chiama Plavix ed è prodotta, pensate un po', dalla Squibb; quella della schiuma da barba!)

Prima d'addormentarmi, avevo già paura di morire all'improvviso quando tutto questo non m'era successo; figuriamoci ora. Pazienza, ci si dovrà convivere e persino senza far tante filosofie da tempi moderni, tipo quelle del defunto Steve Jobs. Non so, del resto, se ce la farei mai a vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo (ma, del resto, non devo inventare l'iPhone). La scoppola è stata dura, e ha eliminato qualsiasi residuo di pensiero d'essere immortale (tutti, in fondo, crediamo di esserlo finché, giustappunto, una notte non si casca in terra in un cesso o altrove). Ho piacevolmente constatato di avere parecchie persone che mi vogliono bene, una delle quali non mi aveva mai visto e s'è scomodata a venirmi a trovare in ospedale dalla provincia di Pisa. Uno che sta bene con poche persone e in pochi posti, recita l'exergo di questo blog; ma le persone si sono rivelate ben più di quanto io stesso credessi, e l'ho constatato in un posto dove bene non stavo. Con tanti begli elettrodi appiccicati addosso, cannelli, aghi a farfalla, tubicini colorati. E siccome avevo modo di pensare, la cosa che più mi frullava in testa riguardava qualcosa che non si ha mai modo di apprezzare abbastanza finché non serve.

Sto parlando degli incredibili progressi della scienza medica, e anche del fatto che persino in un paese di merda e disastrato come questo è ancora possibile usufruirne senza spendere mezzo soldo bucato. Chissà come mi sarei sentito bene con le medicine tradizionali, con le stronzate "spirituali", con i flussi, le omeopatie e via discorrendo. Al posto delle preghierine e dei miracoli, dei begli stent e una chirurga che sa come metterli.

L'iconografia vorrebbe che, con la Morte, si giocasse una partita a scacchi; oramai è stata fissata da Ingmar Bergman, e non c'è nulla da fare (nemmeno invocare il fatto che i suoi film sono quanto di più mortalmente palloso sia stato concepito nella storia del cinema). Il problema è che, con gli scacchi, sono un'autentica schiappa. Non che con le carte me la cavi granché meglio; ma nella sala d'attesa per la seconda operazione d'angioplastica, rimandata di tre ore per delle urgenze (non immaginate quanto sia bello non essere un'urgenza, in certe occasioni; ma lo ero stato solo pochi giorni prima), quel che avevo in mano era un mazzo di carte piacentine. Sono spuntate fuori per la più squinternata e memorabile delle partite, una briscola fra compagni di sventura che andavano a farsi sfruconare in mezzo al cuore per tramite di una sonda infilata nell'inguine o nel polso. Passavano gli infermieri leggermente esterrefatti, e noi si giocava dalle barelle. Briscola! Carico! Fante di coppe! E così, le ore son passate e, uno dopo l'altro, ci hanno portati dentro. Non ci saremmo più rivisti, e lo sapevamo benissimo; perdipiù, a parte il sottoscritto si trattava di uomini anziani. Morte o non Morte, la partita a carte è stata giocata; ovviamente l'ho persa. Sia mai che io vinca una briscola, ma ci può stare. L'altra partita, però, bisognerà proprio che cerchi di vincerla. Senza enfasi e senza gran proclami; e con questo ricomincio -tra le altre cose- a scrivere su questo blog, espletata questa parentesi e ringraziando chi m'ha voluto salutare nei giorni scorsi. Ora si può andare avanti.