lunedì 29 agosto 2011

Una favola col rimorchio



Un post che, per la sua particolare natura, va in contemporanea sia sull'Asocial Network che sul Treggia's Blog.

Vi voglio, in questa notte di fine estate, raccontare una favola.

Una mattina d'agosto, me ne tornavo stanco morto a casa. Poiché sono fatto all'incontrario di parecchi di voialtri, il mese che sarebbe dedicato alle ferie è per me quello in cui più debbo lavorare in assoluto. Particolarmente di notte; quest'anno, ad esempio, mi è toccato il turno notturno per quindici volte. Dalle 23 (e a volte dalle 20) fino alle 8 del mattino dopo. E non è uno scherzetto: un turno notturno significa non soltanto non chiudere occhio (o chiuderlo molto poco), ma anche penare parecchio. A portare giù a mano, col telo o con la sedia da trasporto, una vecchia di 80 chili da un quarto piano si dura una fatica da schiantare, specie quando fa caldo. Poi bisogna mettere la vecchia sulla barella, tirarla su (sempre a mano) e metterla in ambulanza; una squadra completa sarebbe formata da quattro persone, ma siccome son tutti in ferie le notti si fanno perlopiù in due.

Quella mattina d'agosto in cui tornavo a casa, ero uscito per sei volte. Pur pregustando la dormita mattutina, quella da cui ci si sveglia per la fame verso il tocco e mezzo, procedevo assai lentamente: coi riflessi un po' annebbiati dalla veglia e dalla fatica, bisogna stare attenti. A un certo punto, quasi arrivato a casa, andavo talmente piano che mi stava sorpassando persino una bicicletta. Cosí, almeno, sembrava; poi, però, mi sono accorto che la bici aveva una curiosa appendice, e un ometto sopra che stava pedalando di buona lena.

Non sapevo come definirlo: un carretto, un portabagagli. Era una bicicletta col rimorchio, con tanto di frecce collegate alla dinamo. Sul cassetto rimorchiato, ogni sorta di adesivi e una piccola "targa", sempre adesiva, che mi ha fatto riscuotere dal torpore e anche leggermente sobbalzare:

LILLE 59

Ora, dovete sapere che dalle parti di Lille (dipartimento del Nord, 59) ci ho vissuto per un po', qualche anno fa; in quell'antica plaga mineraria ci ero andato a ripulirmi dalle scorie, e ne ero tornato (come spesso mi accade) con ancora più nerume di prima. Mi ero beccato una specie di silicosi esistenziale, in quel frangente in cui saltapicchiavo da un paese all'altro. Quel che ne ho riportato, dopo parecchi anni, sono due cose. La prima è la decisione granitica di non muovermi mai più da Firenze e dalla Toscana; e la seconda è una buffa e struggente nostalgia per luoghi dove non avrei mai pensato non dico di vivere, ma nemmeno di passare per sbaglio. Luoghi non belli, difficili, duri; i loro volti, le loro storie. Me li terrò dentro con la certezza di non tornarvi mai più; ma quando vedo qualcosa che me li ricorda, mi fermo.

Io sono un asociale un po' curioso. Non ho nessuna timidezza nel piantarmi in mezzo di strada, fare gran cenni con le braccia e fermare un tranquillo ometto che pedala una mattina d'agosto per via dell'Argingrosso. Volevo prendere qualche fotografia del suo trabiccolo per il Treggia's Blog, certamente; ma, dopo, non ho resistito a scambiarci due chiacchiere. La cosa più bella è stata la naturalezza di quell'anziano signore; come se essere fermato a un quarto alle nove del mattino in una strada deserta di periferia da uno che gli si rivolge non solo nella sua lingua, ma che azzarda persino qualche parola in chtimi (il patois del Nord-Pas de Calais), fosse la cosa più normale del mondo. Ora che le lingue hanno cessato di essere il mio lavoro, me le tengo come caramelle per l'anima; ed il bello è che mi sono accorto di parlarle molto meglio di prima.

Il signor Roland R., così si chiama, era proprio di Lille; anzi, di un paese vicino, il cui nome non mi era ignoto. E cosí gli ho spiegato in due minuti perché lo avevo fermato, gli ho fatto vedere qualche foto di vecchie autovetture, e gli ho detto che conoscevo bene la sua città con il classico t'es pon d'min cuin hein? Questa frase in chtimi corrisponderebbe al francese standard tu n'es pas de mon coin, "non sei delle mie parti"; viene usata spesso per far sentire la particolare pronuncia di quel dialetto. Ci siamo messi a ridere tutti e due, in mezzo a via dell'Argingrosso (angolo via dell'Isolotto).

Roland ha sessantacinque anni. Deve avere lavorato per tutta la vita, anche se non me lo ha detto. I primi di giugno ha preso la bicicletta, le ha attaccato il trabiccolo con la targa adesiva di Lille e è partito. Destinazione ignota. Mi ha detto: Non ho più un accidente da fare, sono solo e avevo voglia di pedalare fino a chissà dove, era un mio sogno fin da quando ero giovane. Pedala pedala col suo carretto attaccato, passa in Svizzera. Si fa tutta la Svizzera in bici, e comincio a immaginarmi la cosa: io avrei difficoltà, attualmente all'età di anni 48, a farmi in bicicletta persino il cavalcavia dell'Affrico. Questo qui, a sessantacinque anni, ha attraversato la Svizzera.

Poi è passato in Italia, tranquillo tranquillo. Nel carretto, viveri, boccette e palandrane; nelle due borse sistemate sull'attaccatura, la roba da mettersi addosso. Come diceva Guccini in Van Loon: il bagaglio del semplice e del saggio, cioè poco o niente. Pedala pedala, è arrivato a Firenze; se l'è vista perbenino (a piedi), poi è ripartito. Ma dove va, signor Roland?, gli ho chiesto; a Roma, mi ha risposto. Però prima passo per Pisa, mi hanno indicato che si va di qui. Gentilmente gli ho spiegato come prendere la via Pisana da via Baccio da Montelupo, sennò questo qui mi s'infilava col trabiccolo sulla FI-PI-LI. E da Roma, poi? Vado giù finché reggo. Voglio andare in Sicilia. E per tornare? Se reggo torno come sono venuto, se non reggo infilo tutto in un treno. Ci sono i treni laggiù, vero? E ci siamo salutati. L'ho visto ripartire tranquillo, pedalando regolarmente; me ne sono rimasto lí per un momento e forse anche per due.

Nel Nord della Francia, piove sempre. Un detto locale recita: Y a un orage entre deux draches, oppure il pleut entre deux averses (varianti infinite). In pratica: c'è un temporale in mezzo a due piovaschi, oppure: piove in mezzo a due rovesci. Il signor Roland era un po' contrariato di essersi beccato, nel Paese del Sole, una mezza mesata di luglio da fare schifo; ma pazienza. Era lì a pedalarsi un sogno, e in quel suo sogno mi è capitato di imbattermi a cinquanta metri da casa, una mattina d'agosto. In una sua canzone che parla di un ombrello, Georges Brassens vede partire una ragazza allegramente verso il suo oblio; io ho visto partire il signor Roland, sessantacinquenne di Lille, allegramente verso la mia memoria. Non ne uscirà. La sua fa parte dei milioni di favole che non verranno mai raccontate, e che accadono ogni giorno in questo mondo; se però il destino me ne manda una per caso, e pure con la targa e col rimorchio, bisogna che ci passi una notte sopra. Notte più, notte meno.

venerdì 19 agosto 2011

Făt frumos şi două fete într-o noapte de vară

La strada, anzi il vialone, è di quelle che sembrano effettivamente costruite per le puttane; larghissima, poco illuminata, in un punto di uscita dalla città. Parallela ad un'antichissima strada suburbana che reca il nome dell'altra città verso cui si dirige; estremo tratto di un asse viario rivierasco che inizia col grande navigatore, prosegue prima con lo statista rapito e ucciso e poi con lo storico presidente della repubblica, e termina col generale -pure ammazzato- delle leggi speciali. Generale che, almeno in questa città, si è ritrovato con una delle massime concentrazioni di prostitute del circondario; l'odonomastica riserva a volte delle curiose sorprese.

In quella strada, puttane a parte, fino a qualche tempo fa non c'era assolutamente niente. Non vi si affacciava una casa; numeri civici, zero. Poi, sul lato destro in uscita, hanno cominciato a sistemare qualcosa; a dire il vero, più che altro in una propaggine prontamente dedicata all'eroe borghese, l'avvocato liquidatore di una banca privata che fu regolarmente ammazzato non appena scoperte certe piccole irregolarità. Quella zona deve avere un debole per i morti ammazzati, anche se ancora si attende non dico un viale, ma una viuzza, un vicolo, un angiporto dedicato a Giorgiana Masi (nome a caso fra i tanti). La concessionaria automobilistica, l'emporio di vestiti (ora si dice outlet, che fino a dieci anni fa significava presa elettrica oppure valvola di scarico), il magazzino di non so cosa e, infine, la discoteca. Grossa, alla moda, situata in un punto dove proprio non si sentirebbe mai la musica sparata a ventimila decibel. Il posto perfetto.

In una notte d'estate, un paio di giorni fa, due ragazze qualsiasi escono da quella discoteca; sono quasi le tre di notte. Sono vestite da discoteca, sono allegre, magari hanno pure trincato un po' e si preparano a tornarsene a casa. Sono di nazionalità rumena, ma parlano perfettamente la lingua del Vítelíú che le ospita per fare chissà quale badanza, o commissione, o precarietà, o sgobbo qualunque in modo analogo a tanti di voi, di loro, di noi. Dal coreodromo escono sul vialone dedicato al generale; si avvicina un'automobile. Una Mercedes scura.

Poiché quel vialone è adibito alle puttane, due ragazze alle tre di notte non possono essere altro; questo dev'essere passato per la testa del gentile signore alla guida del macchinone di lusso. Quanto volete, belle fiche? Davanti e dietro? Le due ragazze non ci stanno proprio, e si incazzano un poco. Fanno animatamente presente di non essere puttane. Al che, il gentile conducente della Mercedes scende, e comincia a prenderle a ceffoni. Tutte e due. Così, come se niente fosse. Come se il loro non essere puttane fosse una colpa da lavare con il sangue, in quel posto. Così come il maschio puttaniere si sentisse defraudato di un diritto. Ne prende una e la sbatte per terra; la trascina sul marciapiede per qualche metro mentre l'altra si mette a urlare. Rimonta in macchina, sgomma e se ne va.

Qualcuno chiama la polizia e il 118; e a guidare l'ambulanza c'è uno che si fa intendere in lingua rumena. Gli viene raccontata la storia. La ragazza stesa sulla barella, fortunatamente, ha soltanto delle ecchimosi sul volto e delle escoriazioni sul resto del corpo, derivate dal trascinamento sul marciapiede. Ultimamente si deve parlare in questi termini: cavarsela così è una fortuna, forse perché il luogo non è abbastanza buio e isolato per proseguire nella virile opera di massacrare due ragazze perché non la danno, per giunta rumene. Si sa che i rumeni sono tutti stupratori e le rumene tutte puttane; fa parte della loro cultura (frase standard). Ospedale. Referto. L'autista ha dei pensieri neri. La cosa non finirà sui giornali; per diventare notizia ha troppo poco sangue. Un po' di disinfettante e qualche garza, dato che il male profondo, quello vero che è stato fatto a quelle ragazze, non si vede all'esterno. Il principe azzurro è scappato via nella notte; le due ragazze ci ripenseranno bene prima di concedersi un'altra mezza nottata di svago. Devono solo lavorare, oppure magari recarsi in quel viale come le altre. Altro non è dato; sia consegnata al nulla la loro storia in una notte, qualunque, d'estate.


mercoledì 17 agosto 2011

Venturiks Hassenlied


La conoscenza è legata alla lotta.
Conosce veramente chi veramente odia.
Mario Tronti, Operai e Capitale, pag. 10.

L'anno duemilaundici,
il dí diciassette di agosto, alle ore 2 e 13 del mattino,
Riccardo Venturi, detto Venturik,
blogghista in momentanea dissoluzione
enuncia consapevolmente ciò che odia.

Si tratta, palesemente, di un atto di amore;
parafrasando l'incipit trontiano
si potrebbe dire, senza timore di smentita,
che ama veramente
chi veramente odia;
non esiste un territorio mediano,
e l'indifferenza è l'estrema manifestazione dell'odio
perché non esiste indifferenza alcuna
a niente, a nessuno.
Ho vissuto a sufficienza per averlo finalmente compreso,
e per rigettare ogni finzione e ogni falsa dialettica,
ogni stupida dichiarazione e ogni ridicolo sofismo.
Ma bando alle ciance;
ecco ciò che odio
profondamente.

Il semaforo di piazza Pompeo Batoni
e quello delle Cascine del Riccio;
ma più di tutti, quello dei bambini ricchi
di fronte alla scuola privata nel viale Galileo.
Mi prendono pensieri tinti
quando sfilano accompagnati dalle mammine sui SUV
bloccando chi va a lavorare
in code interminabili.
Brutto semaforo di classe e di merda.

Odio i servizi televisivi
sul caldo in estate e sul freddo in inverno,
ma più di tutti quelli sugli esami di maturità
con le interviste a dei dementi di diciott'anni
che sorridono beati, e beoti, all'uscita della scuola
senza sapere di essere già
carne da precariato e da mercato
mentre declinano scelte decisive
tra il tema su D'Annunzio e quella che il ministero
vuole presentar loro come attualità.

Odio l'aziendalismo e l'imprenditorialità,
perché non è pensabile nemmeno per un momento
dichiararsi nemici della schiavitù
senza essere nemici di chi la crea
e anche di chi la accetta, e anzi la sollecita.
Odio il lavoro, buttato come uno straccio
davanti a una spianata di telefoni
e odio chi santifica lo sgobbo,
odio chi ha reso merce uomini e animali,
odio l'abbrutimento della mente
e la riduzione del pensiero a utilità.

Odio oramai il gioco del pallone
e chiunque vi giri attorno;
e qualsiasi altro sport, attivo o passivo.
Andate a fare in culo voi e il fisico,
il benessere, la forma e il fitness.
Qui, in questo sistema,
di benessere non ce n'è;
l'unico rimasto, forse,
sarebbe infilarsi nel letto con chi si ama
senza pensare per un attimo al padrone e ai suoi orari.
Questione di poco; suona la sveglia
e devi andare.

Odio i ciclisti della domenica e delle ferie,
bardati come cretini a schiantare sulle salite
a ore antelucane.
Per mezza giornata di riposo che ti è concessa
te li ritrovi davanti e sei costretto
a andare a venti all'ora o a frenate a morte
per evitarli;
e se poi ne becchi uno, eccoti trasformato
automaticamente in criminale ubriaco.
E statevene a letto,
imparate a poltrire e a non fare niente,
imparate la bellezza del dormiveglia
e non rompete i coglioni al prossimo
magari riempiendovi di steroidi
e indebitandovi per comprare biciclette
che manco ce le hanno Armstrong o Contador.

Odio terribilmente i salutismi e le campagne antifumo,
sintomi decisivi del totalitarismo.
Odio lo stato che ti impone di essere sano,
odio la salute come costo sociale da tagliare
quando poi lo stesso stato te la toglie
in diecimila altri tremendi modi.
La salute, le prospettive, la vita;
come nelle galere americane
dove si proibisce di fumare al condannato a morte.
E siamo tutti condannati
ad una morte lenta per disperazione
e per mancanza di futuro;
basta che non fumiamo perché sennò ci viene il cancro.
Ma il cancro ce lo abbiamo addosso ogni giorno
della nostra vita, e si chiama padrone.
E a nessun padrone hanno mai
appiccicato addosso cartelli dicendo che uccide
o che fa invecchiare la pelle
o che provoca danni alle donne incinte.
Sarebbe urgente farlo!

Odio i liderini del bla bla bla
dalle bocciofile ai centri sociali.
Odio i loro passati, i loro presenti e i loro futuri,
piccoli parassiti che per giunta
parassitano il niente delle loro teste,
che emettono parole vuote e atti idioti
dall'alto di chissà cosa.
Odio chi trasforma spazi di libertà
(perché purtroppo oramai in questi termini
occorre parlare: ghetti)
in pollai dove si deve obbedire a due o tre galletti
che altro non sanno fare che cianciarsi addosso
escludendo dal recinto chi non si uniforma.
E il pensiero torna a Eric Arthur Blair
e alla sua fattoria:
e non soltanto per questo, no.
Non soltanto.

Odio i fagiolini lessi,
come si legge persino nella presentazione di questo blog;
ma ancor di più odio ogni forma
di comunicazione forzata, obbligatoria, imperativa.
Odio l'interattività
perché non voglio interagire con un cazzaccio di nessuno
e massimamente grazie alle vostre tecnologie,
insalata di merda e di controllo.
Conservatore? Retrogrado?
Accetto di buon grado queste definizioni.
Se per un barlume di libertà
occorre tornare indietro
e contrapporre un regresso salutare
ad ogni progresso che ci rende sempre più servi,
allora torno indietro volentieri,
e chiamatemi come vi pare
(per quel che me ne importa, cioè meno che niente).

Come il Redelnoir in Basta figa
odio oramai irrimediabilmente ogni cover di Fabrizio de André;
ma ancor di più odio, pur da carnivoro,
i cacciatori e la faccia idiota dell'anziano attorucolo toscano
che fa pubblicità alla rivista Hunter qualcosa.
Poiché sono fieramente morbido e impuro
odio inguaribilmente ogni duro ed ogni puro,
odio chi si diletta di bruciori e di scomuniche
e che blatera di abbattimenti
quando in vita sua, probabilmente,
non ha mai nemmeno abbattuto una porta a calci.

Odio il tempo.
Odio l'invadenza e l'onnipresenza
di tragiche e stupide favole soprannaturali.
Odio ogni violenza su chi non solo
non può o non sa difendersi,
ma che deve subire anche la trasformazione
di questa violenza in intere sovrastrutture.
Odio la gelosia e l'amore delle gabbie e dei lucchetti.
Odio chi lucra sul sangue e sulla fame.
Odio Piazza Affari, il Mibtel, le borse e il rating.
Odio chi vuole farci confondere l'economia
coi deleteri giochetti di pochi
che ci stanno portando alla rovina.
Odio il cazzo ritto di Marek Topolanek
e schiaccerei volentieri in mille pezzi
gli occhialetti di Emma Marcegaglia.

Odio Guido Ceronetti e il suo razzismo d'accatto
sotto le mentite spoglie del suo gonfio eremitismo borghese.
Odio il lardo di Colonnata, i fagioli di Valmontone,
il prosciutto di Buonabitacolo e il pane di Montegemoli
e sto cominciando a pensare
che una scatoletta di Simmenthal sia meno ipocrita.
Odio i paladini fiammeggianti della sincerità e della verità:
La sincerità ostentata è spesso ipocrisia,
ma sinceramente dirò che questa cosa
l'ha detta Alessandro Dumas,
e che è la soluzione della "Chiave Diplomatica",
dalla Settimana Enigmistica n° 4140
del 30 luglio scorso.
A proposito:
odio incommensurabilmente chi tratta con sufficienza
e persino con disprezzo l'enigmistica popolare.
Ho visto fascicoli interi di parole crociate
sul tavolo di persone che hanno preso un'arma in mano
e si son fatte anni di galera per un'idea.
E in generale
odio chiunque tratti con sufficienza qualsiasi cosa.
Odio le fissazioni su qualsiasi genere musicale.
Odio chi mi interrompe mentre canto qualcosa
perché non corrisponde ai suoi gusti
mentre magari sono in casa mia o sulla mia macchina
(che poi mia non è, è solo un usufrutto e parecchio bizzarro).

Odio gli sgomberatori istituzionali
almeno quanto odio le loro istituzioni.
Odio i costruttori di carriere e di consensi
sulla base di degradi, sgherri, corti tribunalizie e telecamere.
"Telecamera amica", si legge sui cartelli;
ma una telecamera è sempre e solo nemica
come sempre è solo nemica è una spia.
Odio chi una mattina d'estate prende e caccia via
persone dai loro alloggi
per fare spazio allo stabile di prestigio
di una merdosa cassa previdenziale
di ingegneri e architetti
(si chiama Inarcassa, fare nomi, fare nomi;
e lo stabile è nel viale Matteotti, a Firenze.
Matteotti, pensate voi.
Giacomo Matteotti.
Meglio sarebbe dedicare quel viale, d'ora in poi,
a Achille Starace).

Odio qualsiasi tipo di fobia.
Sto cominciando a odiare anche la moda
di dichiararsi celiaci;
sembra impossibile, ma esistano persino
malattie modaiole.
Odio a prescindere
qualsiasi stronzo di primo ministro inglese
che viene a passare le vacanze in Toscana
e vieterei tassativamente l'ingresso nella mia terra
a qualsiasi membro persino di un consiglio circoscrizionale
di un paese del Commonwealth.
Avete presente David Cameron?
Dalla Toscana è passato tranquillo
alla repressione selvaggia di una rivolta sociale.
Odio l'idolatria per il calcio inglese
e per i loro stadi tutti belli tutti tranquilli e tutti da famigliuole,
il decoro ostentato della middle class
mentre fuori la città brucia.
Odio quel buzzone di Rooney
che si permette di sputare merda sui disperati che si ribellano.
E mi sia permesso di esprimere
un sano rigurgito di giacobinismo
quando dico che mi piacerebbe appendere per i coglioni il principino
e infilare un palo rovente in culo alla principessina
e poi decapitarli tutti e due.
Giove solo sa quanto ho goduto
quando lèdi Daiana si è spiaccicata nel tunnel dell'Almà
assieme al figlio del multimiliardario arabo.
Un simile piacere mi piglierebbe soltanto
se uno tsunami colpisse il principato di Monaco
(portandosi peraltro via un bel po' di stronzi italiani).

Odio Don Matteo e la vita in diretta.
Paolo Brosio? Ma ce lo avete presente
quello juventino schifoso
che ora fa l'apostolo di Medjugorje
perché la moglie, direi in modo sacrosanto,
gli ha messo le corna?
E i santuari? O non c'era la simonia, un tempo?
E quella specie di pedofilo del Forgione?
L'apparizione fissa alle ore diciotto?
La madonnina che appare solo alle pastorelle
e mai a un geometra o a un fisico?
In questi casi considero
che la bestemmia sia un atto purificatore;
un porcoddìo sparato addosso al giornalista becco,
un madonna bottiglia e cristo per tappo
davanti alla fila di pellegrini necrofili,
e siccome, poverino, è sempre trascurato,
anche uno spiritosanto impestato
in pieno Santiago de Compostela
(ela, ela, ela).

Odio la legalità,
perché è sempre di chi opprime.
Odio chi, come una pecora,
non solo vi si conforma
ma la propone anche come unica possibilità.
Odio magistrati, giudici e prefetti
odio divise e simboli di autorità.
Un mandaingalera che assolse dei carabinieri assassini
e un altro che inventò il malore attivo
a dire di resistere?
La resistenza dovrebb'essere, casomai,
fatta contro di loro.
Odio la fissazione contro gli acari,
ma ancor di più
odio quell'ignoranza estrema
che presiede all'incomprensione criminale
che va sotto i più disparati nomi
(tra i quali quello di razzismo).
Odio chi accusa di semplicismo
perché è su poche e semplici cose che ci hanno fottuto il mondo.
Odio le reti globali
perché hanno globalizzato solo una finzione.
Odio le identità e gli identitarismi
fatti soltanto per distogliere
dalla coscienza di classe,
l'unica cosa che i globalizzatori tecnologici
si guardano bene dal globalizzare;
e il resto sono soltanto
chiacchiericci di idioti.
Odio chi dice di odiare l'odio
magari poi teorizzando sull'astio e sul rancore,
santificando alla propria affascinante vuotezza
di otre ripieno di scorregge.

Odio due o tre persone,
ma è odio di quello implacabile.
Odio la mia vigliaccheria di non andare
a ammazzarle di persona;
ma il giorno che le saprò morte, e morte male,
per me sarà giorno di gran festa.
Ma è bene che se lo sentano sempre addosso.
Indifferenza, mai.
Indifferenza, mai.
Indifferenza, mai.

Si è fatto tardi.
Dormite tutti, vero?
Io no.
Ce ne sarebbero ancora non so quante
di cose che odio.
La Haine!
Ma mi fanno male le dita
e ho un male di vivere spaventoso
che però non si esprime né in cupezza, né in comoda depressione.
Trasformare il male di vivere in allegria
e in lotta senza quartiere.
Saltare a pie' pari i baratri e le sabbie mobili
dell'inconcludenza e della disillusione imbecille.
Asciugare le lacrime di chi ami,
di quei pochi che ami davvero,
e lucidare i bene i pugni le parole i bastoni e i fucili.

Sì, si è fatto davvero tardi.
Esco un attimo
perché in quest'esplosione è bene
immergersi per due minuti in qualcosa che si ama.
La notte e il suo silenzio,
e guardare una stella
immaginando di montarci sopra
salterellando per l'universo
e l'universo sei tu.
Non c'è amore senza confronto e senza scelta.
Ho fumato un pacchetto intero.
C'è un grillo o qualcosa del genere.
Tra un po' un vecchietto chiamerà il 118
dicendo di non respirare bene.
Chissà quando,
quando.

venerdì 12 agosto 2011

Intervista a Sugo, partigiano.


La foto che vedete sopra contiene un metro e novanta e rotti di Venturi che abbraccia il partigiano Sugo. E' stata scattata a Vicenza il 17 febbraio 2007 durante una manifestazione, ed è probabilmente una delle immagini cui più tengo. Sugo l'ho visto anche ieri sera al CPA, perché è uno di quelli che non cederà mai; e non voglio dire altro.

Io, certamente, no; ma Sugo, di cose da dire, ne ha sempre parecchie. Incontrandolo ieri sera, mi è venuto di dirgli una cosa. Se esistesse la famosa macchina del tempo e si potesse tornare indietro, tanto varrebbe rinunciare a "liberare" questa città e tutto 'sto paese di stracatamerda. Se la "liberassero" loro, visto che ora ci ritroviamo a fare le celebrazioni dei cardinali ex arcivescovi. Ma è bene lasciare la parola proprio a Sugo, almeno per provare a non arrendersi. Ha rilasciato un'intervista; è qua sotto.



lunedì 8 agosto 2011

Consuelo


Lo dico subito: ultimamente non me ne frega eccessivamente di scrivere alcunché. I motivi? L'urbanità e il rispetto imporrebbero una terminologia adeguata, ma poiché è da una vita che mi dicono che sono un legno torto, non mi smentirò e userò un'espressione assai colorita, ancorché senz'altro trita e banale: cazzi miei. M'interessa assai di più giocare col gatto. Il mondo va avanti, indietro o resta fermo anche senza i commenti del Venturi (e di chiunque altro); ogni tanto è bene ricordarselo.

Lo scorso 23 luglio sono andato a fare una passeggiata a Genova. Non so se era una passeggiata o un funerale, e propendo più per quest'ultima ipotesi; nonostante tutto, ci sono voluto andare. Ho evitato accuratamente di leggere cose altrui al riguardo, e me la sono tenuta come cosa propria; ma la prossima volta che mi capiterà di andare a Genova, ci tornerò a modo mio. Probabilmente di dicembre e di notte; da quando sono andato via dalle città di mare, ho preso a detestare l'inverno. In riva al mare, invece, lo amavo parecchio.

Passeggiando per Genova il ventitré di luglio, che sembrava dovesse piovere e invece ne è uscita fuori una giornata assolata e calda, ho trovato il manifesto che vedete sotto il titolo. Mi ha fatto letteralmente scompisciare dalle risate, e iddio solo sa quanto ne avessi bisogno. Cristo del Consuelo, Cristo de mi amor / Ven cura la herida de mi corazón. Mi sia scusato, ma un gesuccristo così brutto non mi era mai capitato di vederlo; altro che crocifissione, sembra che gli stiano cavando le palle con un paio di tronchesi, oppure che il consuelo sia di una natura squisitamente terrena e anche lui, porca miseria, 'e gli era un omo. Altre ipotesi, francamente, non me ne sono venute; e forse è meglio. Vorrei però sottolineare anche la posizione decisamente sfarfallata della corona di spine, gli occhi rivoltati all'indietro in segno di sommo dolore o di sommo gàudio e la bocca che esprime forse il santo desiderio di tirare un gigantesco moccolo in aramaico.

Amen; poco altro c'è da dire. Redelnoir dorme accanto a me sulla seggiola e oggi ho constatato con molto piacere che la Svizzera Pesciatina mi garba parecchio di più della Svizzera propriamente detta. Passo le ferie in giro per i vicinati, in una sorta di piccola viagem à minha terra, accompagnato da ombre, fontane e pietre.