sabato 25 giugno 2011

venerdì 24 giugno 2011

Néstor sulla luna


Avevo detto, solo ieri, di essere "arrivato per una volta tanto nel posto giusto al momento giusto". Invece no. Non lo sapevo, ma ero arrivato un po' dopo il momento giusto; magari soltanto due minuti, ma troppo tardi.

Non lo potevo sapere che, quando l'ho prelevato, terrorizzato, da quella maledetta strada, una macchina o un motorino lo aveva già preso; e che, lenta lenta, inesorabile, si era già cominciata a formare l'emorragia interna. Per due giorni io e la mia vicina gli si è dato da mangiare con una siringa carica di mousse, ogni due ore. Dopo i primi momenti in casa, dopo la ciotola di latte, si è come fermato. Non si reggeva in piedi. Altro che vermi, cui si dava la colpa. Altro che virus, come diceva il veterinario in un primo tempo. La verità era molto più semplice: Néstor Lunar aveva la vescica piena di sangue. Stamattina non si muoveva nemmeno; se ne stava sul divano a dormire quieto, miagolando ogni tanto. Alle tre di questo pomeriggio è morto. E' rimasto con me due giorni. Non sono arrivato in tempo. Doveva essere successo da pochissimo, perché il primo veterinario da cui l'avevo portato immediatamente non si era accorto di niente alla palpazione. E così, Néstor Lunar ci ha messo lo spazio di un soffio ad andare sulla Luna.

Sto scrivendo questo post piangendo. Non di quelle lacrime finte da blog, quelle fatte per captare qualcuno o qualcosa. Non me ne importa un cazzo di captare alcunché. Se poi ci sarà qualcuno che, come accade spesso, pensa che sia poco conveniente piangere per un gattino nero quando muoiono così tanti cristiani, rispondo che il mio mestiere è quello di andare a raccattare gente che soffre, o che è stata magari schiacciata da una macchina che ha proseguito per la sua strada. Di questa gente ne ho vista quanta pochi di voi potrebbero seppur lontanamente immaginare, e non l'ho dimenticata. Non si dimentica un pensionato in bicicletta coperto da un lenzuolo su un cavalcavia, con una povera borsa della spesa spiaccicata accanto. E non si dimentica un gattino nero che per due giorni o centomila anni ti è stato sul divano, un pezzettino di pelo di due etti addosso a un energumeno di un metro e novanta. E non ci vedeva nessuno. Io e lui. E basta.

Lo siamo andati a prendere alla clinica dov'era morto mentre stavano cercando di fermargli l'emorragia. Niente da fare. Solo ieri sera miagolava al telefono con due persone che non avevo mai sentito prima; Freude war dort. Due persone che mi preme ringraziare, e loro sanno perché. Lo avevano messo in un sacco nero; ce lo siamo preso, e portato a casa di un altro amico, che abita in un posto incredibilmente bello sulle colline di Vincigliata. Riposa, Néstor Lunar el Mierdita y el Grif, nel filare di una vigna, assieme a un vecchio cane di nome Jago. Sotto c'è prima un uliveto, e poi un piccolo lago. E un grande, infinito cielo.

Tanti anni fa scrivevo poesie, peraltro molto brutte. Abitavo a Livorno e una mattina, sugli Scali della Dogana d'Acqua, vidi un gatto schiacciato da una macchina. Scrissi una cosa, dove dicevo che quando muore un gatto muore un pezzo d'armonia del mondo. Ma non gli ho detto questo al piccolo Néstor Lunar quando gli ho sparso la terra sopra, assieme ai due amici, e mentre gli mettevo sopra dei fiorellini di campo, gialli. Gli ho cantato una canzone, dal primo verso all'ultimo. Dice così:

No, non piangere
Lui vagava tranquillo
senza collare,
era libero di andare
e di tornare per la pappa
non era neanche prigioniero
del tuo amore insensato

E comunque neanche tu
avresti voluto che vivesse
come uno stronzo sul divano
lontano dalle piccionaie,
era un avventuriero,
non avresti voluto vederlo legato,
ti avrebbe miagolato: "Morte agli sbirri!"

Il micio è morto,
è cascato dal tetto
è andata così.
È scivolato su chissà cosa
e patatrac,
lo seppelliamo domani, ti giuro,
in una bella scatola da scarpe

Il micio è morto,
ed io e te si va così cosà,
per quale motivo? Perché
ogni volta va così,
perché son sempre i mici
e mai gli uomini a cascare dai tetti?

Era davvero un sacco di pulci,
ancora più libero d'un cane,
non di quei tipi che per una chicca
ti leccano la mano,
ma la libertà, lo vedi,
non è senza pericoli, ed è per questo
che non corre né per le strade, né sui tetti

Era un vero scugnizzo,
il terrore degli uccellini
la notte si appostava
per papparseli belli caldi,
insomma faceva un po' schifo
ma tu hai mai mangiato un passerotto?
Non fa più schifo di un BigMac...

Il micio è morto,
è cascato dal tetto
è andata così.
È scivolato su chissà cosa
e patatrac,
s'andrà domani in un giardino
a seppellirlo ai piedi d'un albero

Il micio è morto
ed io e te si va
così cosà
E come mai? Perché ci si domanda proprio perché
non ci sta mai un papa sui tetti
può darsi che non gli garbi essere troppo vicino al cielo.



Ciao piccolino, e grazie. Ti verrò a trovare e ti racconterò cose strane. E se ripasso da quella strada maledetta, stai pur sicuro che qualche altra volta riblocco il traffico. Anche così per fare. Anche per dispetto.

giovedì 23 giugno 2011

Vi presento Néstor Lunar


Colui che vedete nella foto sopra è Néstor Lunar. Néstor come Makhno, o come Néstor Combin "La Foudre", o come chi volete; Lunar come la luna. Ha circa cinquanta giorni, come asserito da un simpatico veterinario che risponde al santo nome di Bagnasco (sic). È completamente nero. Ma andiamo per ordine.

Iermattina, appena terminato l'ennesimo turno notturno consistente in un numero variabile di vecchietti rotolati dal letto e che non respiravano (causa finestre sigillate stile Alcatraz, con una temperatura in casa paragonabile ai diciottomila Fahrenheit dei pomodorini di Fantozzi), mi stavo recando a fare il consueto giro mattutino dei servizi sociali. Con i ragazzi già tutti a bordo, ho preso la via Salviati per andare verso Careggi e poi a Serpiolle; la via Salviati, per chi non fosse fiorentino, è una salita quasi a picco, doppio senso di circolazione, traffico infernale e frizioni bruciate. Mentre arrancavo, la famosa coda dell'occhio ha visto qualcosa di nero.

Un gattino. Abbandonato sul ciglio della strada, con le macchine che lo sfioravano di millimetri. Terrorizzato. Mi sono messo a lampeggiare agli automezzi che provenivano in senso contrario; e, allora, ecco uno di quei momenti nella vita in cui è necessario dar seguito a quel che si va cianciando, magari sui blog. Prendere una decisione rapidissima, perché quel gattino, sicuramente, entro pochi minuti sarebbe stato schiacciato. La via Salviati non è soltanto ripida e incasinata; è anche, in quel punto, un budello strettissimo dove le macchine nei due sensi passano a malapena.

E così, col mezzo dei servizi sociali e coi ragazzi a bordo, la decisione è stata leggermente illegale. Mi sono vagamente approfittato del mio status: lampeggiatori accesi, e mi sono messo di traverso bloccando il traffico. Zàc. Sceso, catapultato, prelevato il gattino spaventatissimo e ripartito con un coro di vaffanculo che mi veniva rivolto all'unisono. E qui comincia l'avventura!


Qui il gattino è stato appena prelevato, e siede sulle gambe di uno dei ragazzi del giro. Subito dopo, com'era del resto prevedibile, ha cominciato a cacare tutto il cacabile; mi ha riempito letteralmente di merda la macchina (ma del resto, essendo già di per sé, e abbondantemente, una macchina di merda, la differenza non si è notata affatto).


Insomma, amore a prima vista. Terminato il giro dei servizi sociali, eccolo nella sua nuova casa, per i primi momenti in una scatola di fortuna; era quella dove tenevo le bollette pagate, e devo dire che mai cambio di destinazione fu migliore. Mi deve aver ringraziato persino la scatola, passata dal contenere roba della Commissionaria Fiorentina, dell'Enel e della Toscana Energia a ospitare un micino tutto nero.

L'agnizione con Niccolò Machiavelli, il "gatto in coabitazione" tra me e la mia "concortilaia" psicanalista, si è rivelata sorprendentemente positiva: qualche soffiata di prammatica, Nicco che saggiamente ha lasciato perdere e poi sono partiti i miau miau. In men che non si dica, Néstor Lunar è stato riprelevato e portato dal veterinario arcivescovo, che gli ha messo l'antipulci mensile e ha sentenziato sulla sua età. Poi di nuovo a casa, passando per un negozio di articoli per animali dove sono entrato con piglio marziale, gattino alla mano, rendendo felice la commessa che continuava a ripetermi: Ma questa cosa è un po' cara...Insomma, ci ho seccato la disponibilità del bancomat. Ne sono uscito che sembravo un facchino, recando pure una cesta con i dalmata della Carica dei 101 e una confezione di croccantini per gattini entro i 4 mesi di età, che quando ne ho visto battere il prezzo alla cassa mi è presa un'improvvisa ma brevissima voglia di suicidarmi. Va bene così! :-)


Il bello è che, poi, Néstor Lunar, come primo pasto, ha preferito del semplicissimo Mukki Latte diluito con un po' d'acqua! Dei croccantini da svenarsi, finora ne avrà toccati due in croce. Attività preferita: ronfare. Ovviamente. Si è oramai impossessato del divano, e si sa benissimo che i divani sono fatti per i gatti! E ronf, e ronf, e ronf: attività altamente rivoluzionaria, che dovremmo imparare molto meglio.

Come mi sento, non so neanche dirlo. Euforico, ma anche calmo. Il gattino è ancora spaventato, in un giorno ne ha vissute veramente di tutte. Una cosa mi sento di dirla: per una volta tanto nella mia vita, sono passato da un dato posto al momento giusto. Stanotte l'ho tenuto un po' con me sul letto, ma ancora dev'essere una cosa troppo grande per lui; dopo un po', a miau miau mi ha fatto capire che preferiva il suo divano. Niccolò Machiavelli, nel frattempo, si è messo a fare la guardia fuori dalla porta; Salsiccia, il cane lupo della terrazza di sopra che abbaia a ogni cosa che si muove, curiosamente è rimasto in silenzio a guardare. E ora...e ora mi sa che è tutta un'altra vita!

mercoledì 22 giugno 2011

Eraser


Si arriva, in determinate ancorché rare circostanze, in un territorio dove è necessario soffermarsi almeno un po', prima di procedere. Perché si deve essere sicuri, decisi. È il territorio dei ricordi; prima di cancellarli occorre rivederli un'ultima volta. Se provocano ancora un granello di affetto, meglio attendere ancora un po'; se, invece, non lo provocano più, andare avanti immediatamente. Erase memory. Eliminare. Distruggere. Creare un vuoto. Naturalmente, si sa bene che ciò è impossibile; la mente ne serberà comunque traccia fino alla fine. Ma non è quel che conta davvero. Quel che conta è la volontà di cancellarli, di decretarne l'indesiderabilità perpetua. Se affioreranno ancora, saranno come fastidiose mosche da scacciare; vadano a ronzare altrove, e a nutrirsi di merda.

martedì 21 giugno 2011

Relativismo


L'immagine sopra proviene dal sito internet dello Svalbardposten, il quotidiano più settentrionale del mondo (in lingua originale, che poi sarebbe il norvegese bokmål: Verdens nordligste avis). Ospite fisso del blogroll del qui presente, categoria postacci. E che sia il quotidiano più a nord del mondo, non esiste alcun dubbio; altrimenti aprite voialtri un giornale più in su. Le isole Svalbard, o Spitsbergen, si trovano a ottantuno gradi di latitudine nord; per i loro tremila circa abitanti, gente come l'Umberto Bossi o i celtici guerrieri di Pontida devono essere come una specie di africani che si godono il rovente sole delle Prealpi bergamasche e si fanno sventolare sotto i palmizi di Desenzano del Garda.

Oggi è il primo giorno d'estate, e l'estate è scoppiata, prorompente, anche alle Svalbard. La foto mostra infatti quattro simpatici svalbardiani sotto un cielo limpido; se a qualcuno (forse) interessasse, si tratta di un articolo sulle "prime promesse elettorali". Sembra che il Partito de' Lavoratori delle isole (Arbeiderpartiet) abbia promesso nientepopodimento che costruire un cinema (ovviamente il cinema più a nord del mondo) e una sala di allenamento, e inoltre di rendere meno care le infrastrutture per la gioventù. Il ragazzo e la ragazza tengono in mano una non meglio precisata "carta culturale per i giovani" (il tutto rigorosamente in norvegese; da noi, invece, si direbbe sicuramente Culture Card Giòvani). L'uomo anziano a destra è vestito con una giacca cardigan di lana, ma si sa che i vecchi han sempre più freddo; il ragazzo e la ragazza, invece, aprono la loro verde età al sole che batte. Lei con una specie di polo leggera a maniche lunghe e la sciarpina civettuola, lui addirittura in maglietta a maniche corte. E ne ha ben donde, vista la temperatura canicolare di questo inizio d'estate:

(Longyearbyen è il capoluogo delle isole Svalbard).

venerdì 10 giugno 2011

Viaggio a Milano


Mercoledì scorso, tra mille e comprensibili difficoltà, sono riuscito a compiere un breve viaggio a Milano. Nella mutata situazione susseguente alla sanguinosa rivoluzione dello scorso mese di maggio, capirete che recarsi in quella città è divenuto assai problematico; ottenuto quindi per tramite di alcune persone fidate un visto di dodici ore, trepidante mi sono recato a prendere il treno nascondendo a mio grave rischio e pericolo la fotocamerina digitale con la quale sono riuscito a prendere alcune immagini. Credetemi: più facile, oramai, prenderle in Corea del Nord. Ma bando alle ciance, ed ecco il resoconto di questo mio spaventoso e cruciale viaggio.

Ore 9.10. Mi trovo alla stazione ferroviaria di Piacenza, ultimo avamposto della Civiltà Occidentale, in attesa dell'unico treno rimasto per Milano. La metropoli lombarda, fino a poco tempo fa collegata capillarmente con ogni località del paese, si trova adesso isolata a parte quest'ultimo treno (un ex regionale, ora ribattezzato Treno speciale Aurora) e la vecchia via Emilia, rigorosamente interdetta alla normale circolazione e riservata a pochi automezzi diplomatici. Il resto non esiste più; interrotte le autostrade, spazio aereo chiuso, l'aeroporto di Linate (ora "Aerostazione George Dimitrov") relegato a scalo per le merci di prima necessità in arrivo dall'Avana e da Pyongyang. Con me, oltre al prezioso visto temporaneo rilasciatomi per intercessione di mio conoscente greco, Joannis Petros Kefalakis, che vado peraltro ad incontrare, uno zaino con poche cose necessarie: una microscopica edizione del Manifesto del Partito Comunista, una Settimana Enigmistica per ingannare il tempo durante il viaggio, una bottiglia d'acqua minerale gassata e una stecca di Diana Blé, sigarette occidentali che conto di utilizzare per carpire informazioni dalla popolazione costretta a fumare le disgustose Tsiganopol', le sigarette uniche del nuovo regime. Nascosta con cura, la fotocamerina Kodak pronta all'uso.


La Via Emilia presso Lodi, oramai deserta.

Ore 9,32. In perfetto orario, il Treno Speciale Aurora parte dalla stazione di Piacenza. Sui marciapiedi, persone preoccupate per i propri cari presenti sul treno: li rivedranno? Mi sistemo in uno scompartimento vuoto, tiro fuori la Settimana Enigmistica (la cui redazione si è trasferita a Gorizia dallo storico Palazzo Vittoria di Piazza Cinque Giornate -ora Piazza Milanskij Komsomol') e faccio finta di risolvere le parole crociate mentre sbircio dal finestrino. Il treno è pulito, ma palesemente triste; nei bagni, carta igienica di pessima qualità, probabilmente di produzione laotiana. Gli avvisi, tipo Non sporgetevi dal finestrino, sono redatti non più nei classici Ne pas se pencher au dehors o Nicht hinauslehnen, ma in alfabeti semisconosciuti tra i quali riconosco lo hangul coreano. Ci stiamo avvicinando alla frontiera di Lodi, prima città del TML (Territorio Milanese Liberato); il treno rallenta e so che ormai è impossibile tornare indietro.


La frontiera lodigiana e un impettito "Volksghisa" pronto ai ferrei controlli.

Ore 10.15. Il treno è fermo alla frontiera lodigiana. Sono saliti a bordo per i controlli, armati di tutto punto, i temibili VOGHI (Volksghisa); con orrore sento provenire delle urla disperate da uno scompartimento vicino. Non oso muovermi, anche perché fuggire sarebbe impensabile: la frontiera è attraversata da un altissimo muro elettrificato. Si sentono anche spari in lontananza. Il momento è arrivato: nel mio scompartimento entra un milite armato; con mio sollievo, però, mi accorgo che non si tratta di un VOGHI, ma di un membro della GUAPOROM, la Guardia Popolare Rom, sicuramente più malleabile secondo le informazioni che ho ricevuto. In un italiano approssimativo mi ordina di aprire lo zaino; si sofferma sull'edizione del Manifesto, fa un cenno di assenso e mi controlla il visto. Tutto in ordine; la Guardia Rom mi sfodera un inaspettato sorriso, caccia fuori una fiaschetta e mi offre un sorso della terribile rakija di ordinanza. "Tu avere qualcosa? Io tenere moglie diciottanni e cinque figli..." Commosso da questa manifestazione di umanità, gli porgo venti euro; mi dice sottovoce che il suo stipendio popolare mensile è di 3800 volksdané, corrispondenti a dodici euro e cinquanta centesimi. In pratica gli ho offerto uno stipendio e mezzo! Per ringraziarlo, gli metto in tasca anche un pacchetto di Diana Blé; sono assolutamente certo che, con queste, mi avrebbe fatto passare anche nella stanza del dittatore Pizapija. Il treno riparte; un attimo prima si sente un agghiacciante puntat!....mirat!.... che mi riporta alla realtà; poi lo sparo.

Ore 10.35. Dopo un breve tragitto all'interno del TML, il treno entra finalmente alla Stazione Centrale "Gioventù dei Centri Sociali". I due capannoni laterali sono sormontati da bandiere e stelle rosse; sopra quello centrale, più grande, campeggia l'effigie del dittatore Pizapija in atteggiamento benevolente. Il treno entra lentamente; ne scendo intimorito ma roso dalla curiosità, facendo però attenzione a non tradire minimamente queste emozioni. All'interno della stazione, soltanto i pochissimi viaggiatori del treno speciale, alcuni VOGHI più rilassati e due o tre Guardie Popolari Rom che bevono di nascosto dalle fiaschette. Nella stazione non c'è più niente; per rifocillarsi, soltanto un piccolo chiosco delle Forniture Statali Popolari Milanesi. Nell'atrio centrale, striscioni rossi con diciture "Viva la rivolussion" e "Fasulett foeura da i ball". Esco finalmente sul piazzale Enver Hoxha (ex Duca d'Aosta) alla ricerca di un taxi; noto che sono tutti uguali, di produzione Iran Kodro, e serviti da autisti che indossano un'uniforme verde e rossa con l'effigie di Camilo Cienfuegos (che i milanesi hanno preso a chiamare, familiarmente, Camill Centfoeugh). Per duecento volksdané riesco a contrattare una corsa per piazza 30 Maggio (ex piazza del Duomo); la ho appuntamento con il mio conoscente greco, protetto dall'immunità diplomatica. La consegna è quella di parlare rigorosamente nella lingua ellenica, considerato un paese amico dopo l'analoga rivoluzione socialista che gli ha cambiato volto.

Ore 11.10. L'autista, con il quale non ho scambiato ovviamente una parola (essendo, tra l'altro, rigorosamente proibito), mi scarica presso la Galleria Kim-il Sung (ex Vittorio Emanuele), che noto di nuovo ricoperta dalle effigi di Pizapija ma con nuove e rassicuranti diciture: Pizapija av guarda, pelandron. Mi accorgo anche di una terribile gigantografia che raffigura la fucilazione nella schiena degli esponenti del passato regime: Letizia Moratti già a terra, De Corato agonizzante, Salvini che non si è accorto nemmeno che lo stanno per giustiziare e fissa il muro con la stessa aria ebete che aveva in vita, Magdi Cristiano Allam con espressione ieratica, pronto al martirio e all'accoglienza nel novero de' beati. Il mio conoscente greco, Joannis Petros Kefalakis, mi aspetta sugli scalini del Centro Sociale Centrale "Milano Rossa" (ex Duomo), sulla cui facciata la scritta Mariae nascenti è stata sostituita dalla scritta A laurà tucc' per la rivolussion! Sorridente e sollevato per il mio arrivo, Kefalakis mi abbraccia e mi propone un breve giro per la nuova Milano, prima di andare a mangiare qualcosa. Ci fermiamo per un aperitivo, in un gelido bar dove viene pubblicizzato il Fernet Malenkov (ex Branca); proseguiamo poi a piedi.



Ore 12.20. Siamo in piazza Giuseppe Pinelli (ex Fontana), proprio di fronte alla Banca Nazionale dell'Agricoltura (teatro, il 12 dicembre, di uno spaventoso attentato fascista). Nella nuova Milano rossa e popolare, il governo ha deciso di preservare sia la lapide dedicata al combattente anarchico vittima della spietata repressione degli anni '60 e '70, sia l'insegna originale dell'istituto di credito in cui fu piazzata il mortale ordigno (pur essendo oramai lo stabile occupato dagli uffici della Banca Nassiunala Equa e Ciucialista). Mi spiega Kefalakis, vistosamente entusiasta, che nella nuova Milano rossa e popolare (to neo Milano kokkino ke laikò nel greco in cui mi parla) la conservazione degli eventi storici che hanno portato alla rivoluzione del 30 maggio 2011 è una priorità irrinunciabile, e concordo con lui mentre, occultandola nella Settimana Enigmistica, con la fotocamerina ardisco a prendere delle foto sotto lo sguardo di alcuni GUAPOROM. Ad un tratto, un tramestio e un trambusto; un enorme e feroce VOGHI ha riconosciuto, tra la folla di persone, un noto esponente della famigerata Lega Nord. Chiamati i GUAPOROM a fermarlo dopo che aveva tentato un'inutile fuga, gli viene letta una rapida sentenza e viene abbattuto sul posto con una raffica di mitra. La gente applaude e torna alle sue occupazioni, mentre il VOGHI, con la radio di servizio, chiama la Municipalizzata per la rimozione della spazzatura. Nostra destinazione è adesso un ristorante tipico nella zona di Porta Staliniana (ex Ticinese), la Trattoria Anarcostatale "Buenaventura Durruti" consigliatami da un amico, il cantore anarcoinsurrezionalista Aleksej Lyga. Data la lontananza, io e Kefalakis decidiamo per un altro taxi Iran Kodro, che per centosessanta volksdané ci fa fare un altro giro per l'ordinatissima città nuova.


L'interno della Trattoria Anarcostatale "Buenaventura Durruti". Sedie, ovviamente, rosse.

Ore 13.20. Siamo seduti, io e Joannis Petros Kefalakis, ad un tavolo della Trattoria Anarcostatale. Stappata una bottiglia di frizzante Bonarda dei Colli del Caucaso, una cameriera dall'aria militaresca (con una spilla di Pizapija al seno) ci propone il cosiddetto menù dell'operàri: per trenta volksdané, una fumante scodella di sboba del lauradùr (a base di rutabaga e cotiche di maiale) e un succulento topo in brodo del Naviglio Grande. Io e Kefalakis abbiamo un leggero moto di sconcerto; il greco tira fuori il suo tesserino diplomatico e quindici euro illegali, mentre il sottoscritto dà fondo alla scorta di Diana Blé e ne offre due pacchetti alla ragazza. In men che non si dica, ella torna con due piatti di spaghetti all'arrabbiata, un bollito misto con patate, un ossobuco, due mastodontiche fette di gorgonzola e un'altra bottiglia di Barbera del Dnjepr'. Alla vista di tale bendiddìo, io e Kefalakis cominciamo a strafogarci e a brindare ad un'allegra confusione di personaggi, da Lenin a Boris Godunov (che non c'entra un cazzo, ma va bene lo stesso), da Nestor Makhno a Davide Giromini, da Pietro Valpreda a Carla Fracci, da Zhdanov a Lev Jascin. In breve, il nostro entusiasmo rumoroso contagia una coppia di VOGHI (fratello e sorella, sardi di origine) che si trascina per tutto il pranzo; ne approfitto per scattare una foto alla loro modernissima postazione di controllo:


Ore 15.30. Terminato il lauto pranzo, paghiamo i centodieci volksdané che ci è costato e c'incamminiamo per una salutare passeggiata, dovendo smaltire i sei chili che siamo ingrassati entrambi. Passeggiamo quieti per una Milano finalmente libera, finalmente piena di zingari, di immigrati che si pigliano gentilmente qualche vendetta sui locali, di torme di ragazzi dei centri sociali che si divertono a tirare sassate alle superstiti vetrine capitaliste; all'angolo di via Montebrezhnev (ex Montenapoleone), ci soffermiamo a guardare la strada finalmente ripulita da tutte le stolide icone del lusso che ne avevano decretato l'orribile fama. Gruppi di guardie rosse sostano per terra, nelle piazzette, recitando il Libretto rosso del presidente Pizapija. E' tempo di rincamminarmi verso la stazione centrale; salutato Kefalakis, in via Cesare Battisti (scrittore, 1954-; ex via Cesare Correnti) fermo un altro Iran Kodro che mi riporta al treno.

Ore 17.20. Il visto non è ancora scaduto, ma è meglio non rischiare: il treno in uscita dal TML è già sui binari, pronto a partire per l'infelice Italia capitalista e berlusconiana. Mi accorgo di essere praticamente solo; mi accendo una Diana Blé, ritiro fuori la Settimana Enigmistica oramai sgualcita e oso persino mettere i fettoni sul seggiolino di fronte. Il treno sferraglia fino alla frontiera lodigiana, dove vengo sottoposto a controlli più rilassati. Le conoscenze del greco Kefalakis devono avere funzionato; un VOGHI, mentre il treno varca la frontiera, mi fa persino un saluto militare al quale rispondo al meglio che posso. Eccomi di nuovo in Italia; alla stazione di Piacenza, ultimo baluardo della Libertà e del Mercato, parecchie persone stanno, inutilmente, aspettando. Sento già le grida, mentre il treno entra in stazione: Ecco il treno da Zingaropoli! Il convoglio dei Centri Sociali! E, quasi quasi, mi viene la voglia di tornare indietro.

giovedì 9 giugno 2011

Lo sgabuzzino di Friburgo


Di sgabuzzini, nella mia vita, ne ho avuti parecchi. Quello di Friburgo era particolarmente angusto: il semplice ingresso ad un monolocale già piccolo di per sé, dove mi ero ricavato uno spazio. Un tavolino, una lampada, gli scaffali che dovevano servire per i vestiti occupati da un po' di miei libri, una lampada dell'Ikea. E manifesti ovunque. Era il 2004; e Cesare Battisti c'era, come c'era la sua storia, come c'erano i suoi libri, come c'era il suo viso.

Chissà che fine ha fatto, quello sgabuzzino; chi ci sarà adesso, chi se ne servirà senza sapere nulla. Ad un certo punto sono dovuto andare via; tutto è stato staccato, imballato, messo in valigie. Oggi Cesare Battisti è un uomo libero. Oggi non posso avere, finalmente, altre parole che quelle riportate sul manifesto di Militant Blog. Non potrei aggiungerne neppure mezza, nemmeno se volessi!

Per il resto, ho il grande piacere di infischiarmi di tutto il resto. Delle reazioni in Italia; di uno zero spaccato come la Meloni, la quale dice che i brasiliani le hanno dato uno schiaffo (ad una del genere ci vorrebbe sì che tutti i brasiliani, duecentocinquanta milioni uno per uno, la pigliassero a ceffoni nel muso); dei napolitani, dei fassini, dei parmiggiani o come cazzo si chiama, dei giornali, di tutti quanti. Dalle cinque di stamani, nove giugno duemilaundici, qualcuno costringe finalmente questo paese di merdosi e di servi a rifare qualche conto con la storia, e a rifarlo alla svelta. Questo, e non altro, ci interessa; del resto non ci interessa più.

mercoledì 8 giugno 2011

Ha lavorato con lentezza


Se n'è andato ieri, 7 giugno 2011, Enzo Del Re; e questo non è, e non vuole essere, né un "coccodrillo" e né una biografia. Vuole essere una cosa lenta, lentissima, che accompagna questa sua canzone assolutamente e profondamente rivoluzionaria. Sì; proviamoci a immaginare di fare come dicono le parole di questa canzone, e la rivoluzione, quella vera, sarà fatta sul serio: Vaffanculo alla fatica e a chi la vuole. Con queste otto parole, Enzo Del Re, cantastorie di Mola di Bari, ha detto più che un intero trattato del Gruppo Krisis. Ha scardinato più dei Situazionisti. Nel nulla dove Enzo si trova da oggi, non si lavora. Non ci sono padroni né schiavi. La voglia e fa niente è garantita e certificata; ed è questo, credo, il miglior saluto che gli si possa fare. Magari continuando ad agire in tutti i modi possibili affinché, per avere il diritto inalienabile a non essere costretti a lavorare, non dobbiamo aspettare di morire. Ciao Enzo, hai lavorato davvero con lentezza; anzi, spero bene che tu non abbia lavorato affatto. Con la tua voglia e fa niente hai fatto la cosa più importante, e chiunque dovrebbe essertene grato.




Tengo na voglia
na voglia
e fa... niente!
Comm'o sole dint'a capa,
m'è trasuta a pensata
e s'incontro pa' via,
chi ha inventato a fatica
io, ti giuro, l'accido, pecchè
tengo na voglia
na voglia
e fa... niente!
Si a fatica era 'bbona,
m'ha cunsigliato o' dottore,
si a fatica era 'bbona
nun pregavano i preti
benedizione alla fatica
e a chi la vuole.
Tengo na voglia
na voglia
e fa... niente!
Chi m'ha mis'in catena,
passa a vita in vacanza,
io fatico e fatico
e passo pure da stronzo:
vaffanculo alla fatica
e a chi la vuole.
Tengo na voglia
na voglia
e fa... niente!
La fatica è onore,
ma si ta scansi, meglio ancora!
Beato chi, cumm'è, sa riesce a scansà!
Tengo na voglia
na voglia
e fa... niente!

martedì 7 giugno 2011

Rostri


Sovente, come sovente volavano
gli albatri di Baudelaire sulle navi,
davanti ad un cancello chiuso
mi capita di desiderare rostri.
Nel senso antico di antichi
oggetti d'offesa
e ancora una volta
il pensiero va alle navi,
alle battaglie ed agli annali;
eppure sono solo davanti
al cancello di una clinica
privata, o privatizzata.
Ci sono con un'ambulanza perlopiù scassata,
grave di chilometri e di scalfitture;
a bordo, una persona perlopiù scassata,
grave di età e di menomazioni.

E quel cancello non si apre
con mille pretesti;
mi tocca fare giri spingendo una barella,
oppure incazzarmi come una iena
con una voce che viene da un citofono;
mi tocca ricordarle che i sacri precetti
fornitile da un padrone che neanche mai vede
non sono niente.

Che apra quel cazzo di cancello
perché sopra ho una persona che sta male.
Che apra quella minchia di cancello
perché bisogna fare quella visita
strapagata
e strapagata perché
nelle strutture pubbliche occorre attendere mesi,
e attendere mesi significa sovente
(sovente come gli albatri di Baudelaire)
dar campo libero alla morte.
E il cancello non si apre;
il cortile è riservato al personale,
oppure il cortile non è riservato a nessuno
ma il cancello quella voce
non te lo apre lo stesso.
Tipo una famosa clinica del centro di Firenze,
proprio quella dove andò a morire la Fallaci,
che ti fa parcheggiare l'ambulanza
a un chilometro di distanza,
e trascinare la barella magari mentre piove,
coprendo una novantacinquenne con l'ombrello
dopo che è stata tirata via dal letto
perché quelle visite non si possono fare a domicilio
(e poi, anche quelle che a domicilio
potrebbero essere fatte
non le fanno.)

E così, qualche giorno fa
vicino a casa mia, all'Isolotto,
viene respinta un'ambulanza ad un cancello.
Una RSA, erre esse a,
che vorrà dire forse
Residenza Sanitaria Assistita,
e si assiste infatti
ad un piccolo e banale episodio che
come tutti gli episodi piccoli e banali
dà la misura esatta
di quel che accade in una società abdicante.

La struttura, un tempo, era pubblica,
di proprietà e gestione comunale;
poi, all'improvviso
viene ceduta, anzi, come si dice, alienata.
Comuni diventati aziende,
investimenti e capitalizzazioni,
servizi primari dati in appalto e in gestione,
lucro con false promesse
di efficienza;
e intanto avanza la disumanità,
intanto cammina a gran passi
la trasformazione dei diritti in costosi optionals.
E la Residenza Assistita
dove vegetano vite umane prossime ad una fine
sconciate da decubiti, da bave,
da demenze e dal trascinarsi fino a una morte
che è stata resa oggetto di guadagno,
viene venduta a una cooperativa di Vercelli;
e la cooperativa di Vercelli,
per tenere una persona che
nella maggior parte dei casi
non sa nemmeno più d'essere tale,
chiede
milleottocento euro al mese.

Milleottocento euro al mese
sono, ora come ora, uno stipendio
ragguardevole;
milleottocento euro
che sono il fallimento di ogni cosa.
Fallimento di una società intera,
fallimento della falsa onnipotenza familista,
fallimento di solidarietà tanto invocate
e mai messe in atto,
fallimento di un sistema,
fallimento delle ciance decisioniste,
fallimento che invocherebbe quotidiana
ribellione senza quartiere.
Lei è una novantenne cui il figlio
non può più pagare la retta mensile;
e il figlio non è certo un nullatenente, un disgraziato,
bensì un medico.
Neppure un professionista riesce più
a svenarsi per tenere la madre
in una residenza assistita privata
dove ha dovuto metterla
perché in quelle pubbliche non c'è più posto.
E così nascono normali contenziosi,
come per una bagnarola lasciata dal meccanico,
come per un oggetto qualsiasi;
perché la madre novantenne è un oggetto qualsiasi,
è oggetto di relazioni monetarie
e non d'altro.

Una mattina, l'anziana donna
viene trasportata a un ospedale
per un codice verde;
al ritorno trova il cancello chiuso.
L'ambulanza non la fanno entrare.
Hanno approfittato, quelli della cooperativa di Vercelli,
per regolare i conti.
Niente retta mensile, e la signora
può benissimo essere lasciata per la strada
a bordo di un'ambulanza davanti a un cancello chiuso.
Oppure, perché no, su un marciapiede.
Se ne occupi il figlio che non può più pagare
perché il mercato funziona così,
senza differenza tra una vita che si spegne
e una batteria scarica.

E non c'è nulla da fare:
non valgono le proteste
né l'intervento dei carabinieri.
E la signora deve essere
riaccompagnata in ospedale;
da dove, a breve, la dimetteranno
perché anche gli ospedali sono aziende,
perché per una vita del genere non c'è posto
da nessuna parte,
perché una vita del genere non serve,
è superflua,
e per le cose superflue bisogna pagare caro.
Tranne quelle
che quotidianamente ti vengono imposte.
E, allora, rostri.

Rostri, speroni, mazze ferrate,
arieti, grimaldelli,
e una piccola bocca di fuoco
da dirigere ad alzo zero sul cancello.
Sia dato tutto questo in dotazione
alle autoambulanze,
e lo sia dato per servirsene.
Davanti al cancello chiuso, poche storie:
non aprite? Ci si pensa noi, ad aprire.
Salta il cancello
e salta anche la voce dal citofono.
E se poi
salta anche qualche libbra di carne
di questi maledetti Shylock,
vorrà a dire che li si trasporterà gratuitamente
davanti a qualche altro cancello chiuso;
e gli albatri soventi di Baudelaire,
magari in forma di comuni
piccioni cittadini,
cachino
loro
addosso.

La notizia relativa si trova qui.

giovedì 2 giugno 2011

L'ultimo atto (1)


- Mi scusi, signor ministro, non potremmo fare un po' più in fretta? Non vorrei dirle, ma...

- Mi scusi, dottor Lamberti, ma di che cosa ha paura? Guardi che qui siamo ben forniti di caricatori. Non vorrà mica che il ministro per le privatizzazioni sia a corto d'aria? E ne abbiamo anche della migliore, le assicuro. Roba fina, dalle principali catene montuose del pianeta. Facciamo con calma e mi dica quando ha finito il suo caricatore. A proposito, lei che cosa usa?

- Purtroppo la vostra aria non me la posso permettere più di tanto, è troppo costosa. Mi accontento di Fresh Majella dall'Appennino abruzzese, ha un prezzo ragionevole e mi ci trovo bene...

- Per la sua consulenza, naturalmente, guarderemo di ricompensarla adeguatamente con una fornitura della nostra...si tolga il suo caricatore e provi questa, è Chomolungma Wind della Nepali Air Supply...

- Ne ho sentito parlare...non è mica quella che...

- Sí, proprio quella là, quella del colpo di stato...

- Proprio non ne volevano sapere di vendere la loro aria, eh...?

- Ma figuriamoci se rinunciavamo all'aria dell'Himalaya per un governo del cavolo...su, su, ora la provi e mi dica....

- È straordinaria...

- Arricchita anche con aromi naturali al muschio e alla violetta...non sente che sensazione incredibile? Stia tranquillo che nella sua parcella sarà compresa anche una bella quantità di quest'aria meravigliosa. Ne può stare tranquillo. Dopo un po' non si ricorderà nemmeno della sua Majella. E ora, se possiamo passare al progetto...

- Beh, signor ministro, sa bene che questo è davvero l'ultimo atto. Io ed il mio staff ci siamo presi un po' di tempo. Soprattutto c'è il problema delle differenziazioni...

- Dottor Lamberti, non crederà mica che il ministero per le privatizzazioni vada a rivolgersi al primo venuto, per questa cosa. Abbiamo scelto la sua organizzazione perché sappiamo bene che coniugate alla perfezione originalità, tradizione, competenza e artigianalità. Nel vostro campo siete tra i migliori...geniale il modo in cui avete fornito gli strumenti di marketing e il know-how per la privatizzazione dell'acqua piovana...

S- ignor ministro, ma quello è stato anche un colpo di fortuna dopo che gli studi di Wolters e Xua Qing hanno dimostrato che le piogge acide hanno un incredibile effetto dimagrante...non c'è voluto molto a convincere che produrre una buona pioggia acida ha dei costi industriali elevati...

- Bene, dottor Lamberti, va bene così. Insomma, quand'è che potrete consegnarci finalmente il progetto di base e gli studi commerciali?

- Sinceramente, non prima di due mesi...

- Due mesi?!? Ma si rende conto, dottor Lamberti, che questo è un progetto planetario? Che è stato affidato al nostro paese anche perché ospita la sua organizzazione? C'era la fila dovunque per avere il beneplacito, e lei ora mi viene a dire che bisogna aspettare ancora due mesi?...

- Signor ministro, credo che lei abbia ben presente tutte le difficoltà di una cosa di questo genere, non è possibile improvvisarla o farla così come viene. Privatizzare totalmente i trasporti è stato uno scherzo. Privatizzare l'acqua...a proposito, potrei averne un bicchiere? Mi scusi, ma ho la gola un po' secca...

- Certo, certo....ma cosa fa? Lasci stare la sua water card, non la sprechi. Qui abbiamo tutto gratis. Lei cosa usa come water card?

- Eau d'Or Nestlé...tutto sommato è la migliore...sempre che si decidano, quei benedetti svizzeri, a non combinare più macelli con i loro additivi alla sorgente...

- Dottor Lamberti, era acqua destinata ai mercati meno esigenti...bisogna anche un po' capirli, anche se gli svizzeri non sono mai rimasti granché simpatici neppure a me...comunque le dirò che tra le mie water card ho anch'io una Eau d'Or, però io sono italiano e preferisco la Tricolor Card San Pellegrino...

- Ma è della Nestlé anche quella....!

- Ah, si...ha ragione...a volte non ci si capisce più niente, mi creda! Comunque è acqua italiana...insomma, non si potrebbe fare prima con quel progetto, dottor Lamberti?

- Ci proveremo ma...mi lasci finire, signor ministro. Dicevo, i trasporti, l'acqua di sorgente e piovana, le fonti di energia, l'aria....anche se, a mio parere, tutta la storia della Air For All Project ha delle pecche...

- Non mi vorrà dire che è una specie di ripicca perché la cosa non è stata affidata a voi, ora....voi avete in mano l'ultimo atto, non se ne scordi.

- Comunque vada, signor ministro, stavolta dovrà essere perfetta. Privatizzare Dio non è un gioco da ragazzi. Non possiamo lasciare nulla al caso. Non sono mai esistiti proverbi sull'acqua e sui treni, e nemmeno sull'aria; ma su Dio ce ne sono a centinaia. Ognun per sé e Dio per tutti...ha presente? Vorrà pur dire qualcosa....

- Ma...lo sfrutterete questo proverbio, non è vero?

- È uno dei nostri slogan principali per far “passare” la cosa. I nostri creativi sono al lavoro da tempo. “Ognun per sé e Dio per tutti, ma di qualità”, questo è il principio di lavoro. La qualità è tutto. A livello istituzionale come siamo messi? Procede tutto bene in commissione planetaria con le normative qualitative...?

- Quasi tutto fatto. Anche proprio per questo abbiamo bisogno alla svelta dei vostri progetti...mi capisce, spero!

- La capisco, la capisco.

- Mi può riassumere almeno i principi basilari...?

- Questo è presto detto, signor ministro; del resto ne è a conoscenza fin dall'inizio, durante la conferenza interconfessionale di Bamako, tre anni fa. Non si discostano, in fondo, da quelli di qualsiasi altra privatizzazione; concentramento, riunificazione, sincretismo. Esistono centinaia...ma che dico, migliaia di religioni e di dèi; troppi. Come nel secolo scorso per le ferrovie, bisogna tagliare i rami secchi. Ci sono religioni già diffuse in tutto il pianeta, e religioni locali che non hanno più motivo di esistere; mi dice ad esempio lei cosa ci staranno a fare cinque o seimila adoratori di Zoroastro? Si prende il loro dio, o il loro profeta, e lo si inserisce ammodino in una religione maggiore, salvaguardando qualche rituale e mettendo il loro libriccino sacro, se c'è, nella Planet Holy Writ....

- È già pronta, quella, dottor Lamberti...?

- Il testo base in inglese lo è da tempo, ma ne sono venuti fuori sette volumi fitti da far paura. E bisogna tradurli almeno in un centinaio di lingue...naturalmente abbiamo dovuto effettuare delle scelte...È chiaro che il fine ultimo è un unico Dio per tutto il pianeta, ma per almeno cinquanta o cento anni abbiamo convenuto che sarà opportuno mantenere un certo grado di differenziazione...

- Concordo anch'io su questo punto.

(1/continua)

Due centesimi e quattro sí


Scrivere un post del genere è, per me, come mettermi a disquisire di teologia biblica o di fisica quantistica; qualcosa che, in generale, non mi attiene. Non mi ricordo nemmeno quand'è stata l'ultima volta che sono andato a votare; probabilmente per qualche referendum per il quale non è stato raggiunto il quorum. Per cui, un invito da parte mia a andare a votare ha quasi del surreale.

Però, stavolta ci vado. Sobbarcandomi persino l'incombenza di andare a richiedere il tesserino elettorale in qualche ufficio di competenza, dato che l'ultimo di cui mi ricordo l'esistenza si dev'essere perso chissà dove. Ci vado, il 12 e 13 giugno, a mettere quattro sí sulle schede che mi verrano date. Non che tale notizia abbia una qualche rilevanza, oppure che io ambisca al ruolo di testimonial; ci vado perché ritengo giusto andarci. Ci vado per non sottostare alla tragica farsa nucleare. Ci vado perché l'acqua è di tutti e lo deve restare. Ci vado perché non sono questioni, queste, che debbano sottostare all'indifferenza; e volesse il cielo che si tenesse, un giorno, un referendum che rendesse di nuovo pubblico, e pubblico sul serio, tutto ciò che in questi decenni è stato privatizzato. Fuori dai coglioni i privati dai beni comuni. Via dalle palle le "imprese" dai trasporti urbani e dalle ferrovie. E tanto che ci sono, fuori dalle scatole anche le "imprese" in generale, l' "imprenditorialità" e, in un crescendo rossiniano, il capitalismo tutto intero.

Sarò quindi ben volentieri surreale. Non lo sarò, del resto, certamente di più di quei merdosi che oggi, tutti pettoruti, presiederanno alla parata militare per la "festa della repubblica". Non lo sarò certamente di più del "compagno" Bevtinotti, che vi assistette con la spilla antimilitarista. Non lo sarò certamente di più di chi si ostina ancora a tenere il "tricolore" alla finestra di casa. Sarò surrealmente convinto di andare a mettere una croce sopra la prossima "centrale sicurissima" che salta in aria. Sarò surrealmente arciconvinto di apporre il mio legittimo impedimento al lucro su un bene della natura. Privatizzate la troia di vostra madre e il becco di vostro padre; non so se mi sono spiegato. A votare, stavolta; con quorum e con cervellum. Sono i miei due centesimi, e li spendo con un piacere che ha del surreale.

mercoledì 1 giugno 2011

Di maggio


Di maggio
Folgòre da San Gimignano

Di maggio sí vi do molti cavagli,
e tutti quanti sieno affrenatori,
portanti tutti, dritti corritori;
pettorali e testiere di sonagli,

bandiere e coverte a molti intagli
e di zendadi di tutti colori;
le targe a modo delli armeggiatori;
vïuole e rose e fior, ch'ogn'uom v'abbagli;

e rompere e fiaccar bigordi e lance,
e piover da finestre e da balconi
in giú ghirlande ed in su melerance;

e pulzellette e giovani garzoni
baciarsi nella bocca e nelle guance;
d'amor e di goder vi si ragioni.

Di Maggio
Cenne da la Chitarra

Il maggio voglio che facciate en Cagli
con una gente di lavoratori,
con muli e gran destrier’ zoppicatori:
per pettorali forti reste d’agli.

5Intorno questo sìanovi gran bagli
di villan scapigliati e gridatori,
de’ qual’ resolvan sì fatti sudori,
che turben l’aire sì che mai non cagli;

altri villan poi facendovi mance
10di cipolle porrate e di marroni,
usando in questo gran gavazze e ciance:

in giù letame ed in alto forconi;
vecchie e massai baciarsi per le guance;
di pecore e di porci si ragioni.

Ben venga maggio e il gonfalone antico,
ben venga primavera,
il nuovo amore getti via l'antico
nell'ombra della sera, nell'ombra della sera.
Ben venga maggio, ben venga la rosa
che dei poeti è il fiore,
mentre la canto con la mia chitarra
brindo a Cenne e a Folgòre,
brindo a Cenne e a Folgòre!

O giorni, o mesi che andate sempre via
sempre simile a voi è questa vita mia
uguale tutti gli anni, e tutti gli anni uguale
la mano di tarocchi che non sai mai giocare,
che non sai mai giocare.