giovedì 24 marzo 2011

Stecco Blocco (1)


Dove s'era rimasti? Ah sì, mi ricordo: la Guerra di Libia. Credetemi, avevo cominciato a scrivere le risposte alle dieci domande di qualche giorno fa con le migliori intenzioni; e non la ritengo una cosa inutile. Tutt'altro. Su tutto ciò che ci circonda è sempre bene avere delle posizioni, delle opinioni; e da un po' di tempo non mi va proprio più di lanciarmi in insulti verso chi la pensa in modo diverso dal mio. Mi esprimo e basta. Ma ci penserò domani, o doman l'altro; tanto, disgraziatamente, le bombe sembra che continuino a cadere, ed è quella l'unica certezza.

Ho la testa vuota. Sarà per la primavera, sarà per una certa qual implosione, sarà per tanti altri motivi che non occorre mettere in piazza. A un certo punto, qualche giorno fa, ho come staccato la spina; non mi va di vedere nessuno o quasi, appena c'è un filo di sole mi metto quasi a fotosintetizzare, do i croccantini al gatto e la voglia di lavorare, già poca di per sé, è ai minimi termini (e senza reload). Si aggiungano due cose: la prima è che, quest'anno, la primavera è cominciata facendo la primavera sul serio. La seconda è che, come all'inizio di ogni primavera, mia madre e mia zia sono trasmigrate all'Elba; e allora, sfruttando biecamente il padrone, ho prelevato un minibus, ci ho sistemato quel che mi resta della famiglia assieme a valigie, borse, sacchetti in Mater Bi e vasi di piante, e rotta verso l'Isola. Un giorno e mezzo. Nessuna feria, vestito in divisa, lo zaino-svizzero-sempre-quello (e oramai ridotto a un concio), la Settimana Enigmistica, il Solea di Izzo, dei racconti di Wu Ming e la Kodak. Insomma, nessun grande viaggio. Sempre la solita strada. Ormai proprio non me ne frega più un accidente di niente di vedere il mondo, ne ho già visto quanto me ne è bastato; e qui comincia questa storiella che più ordinaria non si può. Di personaggi ce n'è uno solo: io stesso. In perfetta e totale solitudine, una volta depositate mamma e zia, i loro bagagli sotto un sole che cominciava già a picchiare, e dopo essermi impantanato col furgone nel parcheggio di una parente (mi ha tirato fuori un cugino, pensate un po', agganciandomi con un'ambulanza; fa il mio stesso lavoro).

È una storia che ha a che fare con il sole, il mare, una strada e un bambino. I sole, il mare e la strada ce li ha messi l'Elba, il bambino ce l'ho messo io ed ancora una volta era me stesso. Appena finito di mangiare, ho preso il furgone, e via per l'Anello Occidentale, quella strada che a volte chiamo La Signora degli Anelli. Quante volte l'avrò fatta, in vita mia, da Marina di Campo a Marciana Alta? Nell'ordine delle migliaia, credo; e ogni volta che rimetto piede all'Elba bisogna che me la rifaccia, con ogni tempo, d'inverno e d'estate, in tutte le stagioni. Non dico che potrei farla a occhi chiusi, perché è bene anzi tenerli dimolto aperti se non si vuole provare l'ebbrezza di salutare il mondo volando giù in mare da un dirupo di cento metri e passa; e, poi, gli occhi chiusi impedirebbero di vedere in là. La Pianosa. Montecristo. La Corsica. La foschia che ricopre tutto; il mare calmo come un olio o in burrasca; i calanchi brulli spazzati dal vento o calcinati dal sole (nomi tipici della zona: via del Forno, Bollecaldaie, Seccheto). Se voglio mettermi paura da solo, penso alla volta in cui, senza rendermene conto, percorrerò quella strada per l'ultima volta; e siccome ogni volta potrebbe essere l'ultima, guardo e guardo. Perso in qualche ridda di pensieri. Andando a trenta all'ora, ché tanto non c'è nessuno di questa stagione e a quest'ora; e dico che la primavera impazza*.


Ogni volta come se fosse l'ultima, ma anche come se fosse la prima. Sempre a domandarsi che cosa ci sarà passati gli Alzi, dietro la curva del Colle di Palombaia; ed è inutile dirsi che ci son sempre le solite cose, che il mare fra due secondi ti scoppierà negli occhi, che lo sai bene che cosa ci sia. È il mio rinnovo. È la mia dichiarazione d'amore a questo mondo di merda. È la mia personale forma di non fare della solitudine qualcosa di agro e di cattivo. Ed è tornare bambino nell'unico modo che riconosco, quello di non lasciarsi prendere dall'amarezza del tempo passato, da troppi ricordi e dalle persone che non ci sono più. Ci torno proprio come se lo fossi, con tutta una serie di desideri, coi miei tic spaventosi (li ho da quando avevo sei anni), e con l'entusiasmo di scoprire cose nuove dentro a quelle vecchie. Il minibus ha l'autoradio, ma guai ad accenderla: io canto. Da solo, e quel che mi va di cantare perché ancora non ha smesso di cantarmi dentro. Questa sotto, ad esempio, è la romanza che mi era venuta in testa verso Cavoli: un'altra mia fissazione. Ichanara. Se volete potete anche metterla come sottofondo; oppure, se non vi piace, considerate un energumeno vestito da 118 che, a bordo di un camion o quasi, percorre il suo limitato mondo, senza nessun jet lag, e come se ne fosse un'ordinata molecola ancorché vagante si mette a cantare celeste sole, spirto di cosa mentale e dolenti parole per il van destin. Magari, non essendo il sottoscritto propriamente somigliante alla bellissima Emma Shapplin, vi scapperà qualche risata e il riso fa buon sangue (cosa perfettamente in tema con la romanza, by the way).



Cavoli; a Cavoli non ci scendo quasi mai. Eppure, ora, non c'è nessuno. Fetovaia e tutto quel che è, quella dove ci mandai a imbarcarsi Piero Ciampi dopo una strana storia; Pomonte e il suo bar dove mowimy po polsku (c'è scritto su un cartello all'entrata, e immagino le torme di polacchi che vi si recano!); Pomonte con le sue ponentate. Chi non ha mai visto una sventagliata di ponente a Pomonte, non se ne rende nemmeno conto; pigliarsi sul muso gli spruzzi d'acqua salata già sulla provinciale, che corre almeno centocinquanta metri sopra la spiaggia sassosa e la scogliera. L'unico posto dove mi sia capitato di cominciarvi un viaggio assieme al cadavere di un annegato, di doverlo arrèggere e persino di parlargli ("ma che cazzo te l'ha fatto fare di buttarti in mare alle otto la sera col ponente?"; ma tanto non mi capiva, era un cadavere francese).





Poi, Chiessi.

Chiessi, per me, è l'approdo. È il luogo dove vorrei finire i miei giorni. È quel che vorrei avere negli occhi prima di dover percorrere, senza ritorno, un'altra strada appartenente alla provincia di Nowhere (la cui sigla dev'essere NW, perché NO è già Novara). È dove ho portato tutti coloro che, anche solo per un po', sono stati importanti nella mia vita. È dove sono andato a mettermi a sedere per cercare di risolvere i rebus. A Chiessi, stavolta, c'er un cane che se ne andava per i fatti suoi per la provinciale, scondinzolando sulla striscia di mezzeria; c'era, aperto, il bar della birra Domina; c'era una stupenda Mercedes decappottabile, ma questa è materia d'altro blog; c'era la fontana delle due vecchie guardiane; c'era l'inverno spazzato via; e c'era, come ogni volta, la voglia di non ripartire. Di fermarsi. Di pigliare il telefono e di dire a poche persone, che si contano sulle dita delle mani: Oh, se mi volete son qui. Poi, invece, riparto ogni volta. Il momento, ancora, non è arrivato; ma arriverà. E, quando arriverà, so già con che cosa mi metterò in mare:


Finisce qui la prima parte. Più tardi, sempre che qualcuno ne abbia la curiosità, dirò che cosa c'entrano lo Stecco Blocco e l'immagine dei gelati Sammontana che sta sotto il titolo. Arrivederci, come la nave!

(Dimenticavo però l'asterisco: *Una scritta vista anni fa su un muro di Livorno.)