venerdì 25 marzo 2011

Stecco Blocco (2)


Dopo Chiessi e la Punta Nera, e fino a Marciana, comincia un tratto dell'Anello più distensivo, quello delle cose ridanciane. Fino a Chiessi c'è una tensione che ho provato parecchie volte a definire, senza riuscirvi; ha a che fare, probabilmente, con tutta quella famosa serie di mestessi che si rincorrono, si incrociano, si dànno la voce e, non di rado, si mandano affanculo. Da Marina di Campo alla Punta Nera è il loro regno incontrastato; e ogni volta che ci passo se ne sovrappone un altro, che esce e vi si installa. Anche martedì scorso, sicuramente, è successo così; ora se ne sta con le gambe a penzoloni, col suo pile verde liso, a disquisire con la spada della luna e a fumare Diana Argentee una dietro l'altra.

Danda est omnibus aliqua remissio; alla Punta Nera c'è da stare particolarmente attenti, con quella curva mezza parabolica, pericolosissima e ingannevole. Par terminare, e invece si ripiega ancora oltre uno sperone di roccia; dopo, si comincia a scherzare. La povera Emma Shapplin, ad esempio; nell'italiano petrarchesco dei suoi testi, ogni tanto fa sghignazzare. In Cuor senza sangue, per esempio, ad un certo punto canta: in odio tan me stresso. Sarebbe, in realtà, in odio ho tan me stesso, ma quella "r" inserita squisitamente a cazzo di cane fa immaginare scenari di sfibrante rancore, di spossante astio, di haine che devasta il sistema nervoso; e giù risate. Fino a Marciana è così, e a Marciana devo sempre decidere che cosa fare. Tagliare per il Monte Perone? Stavolta non se ne parla, con quel tamburlano che sto guidando sarebbe un mezzo suicidio fare in discesa i tornanti che planano su Sant'Ilario. E allora, giù per Marciana Marina. Marciana Marina è uno dei paesi che meno ho frequentato, di tutta l'Isola; e non ne so il perché. Proprio non lo so. Ci arrivo che son già poco oltre le cinque, a quel paese dove esiste l'unica via dedicata a un traduttore di professione che mi sia nota, via Ervino Pocar; e uno che si chiamava "Ervino" altro non poteva che tradurre dal tedesco!


A Marciana Marina ci vo sempre poco; ma quando ci vo, bisogna che vada immediatamente al più bel porticciolo del mondo. Sí che lo so, sono parziale; ma sostengo che ognuno deve avercene almeno due o tre, di posti più belli del mondo. Che lo siano incontrovertibilmente, che non ci siano cazzi al riguardo, e possibilmente che siano del tutto ignorati dal mainstream, che non vadano a finire sui consigli di viaggio di Repubblica, e che non godano della pubblicità dello scrittore di vaglio. È il caso del Cotone. Il Cotone è il nucleo più antico di Marciana Marina, a destra della baia. A Genova fanno tanto puzzo con quel Boccadasse là, che persino Andrea Camilleri ci ha infilato la residenza della Livia (e questo, a dire il vero, non so se in fondo sia una gran bella réclame); il Cotone vale cinquanta Boccadassi. Su questa affermazione prego chiunque di non trapanarmi i cabasisi, ché ho un'età in cui essere contraddetto comincia a farmi rimescolare il pancreas.




Al Cotone, martedì pomeriggio tra le cinque e un quarto alle sei, mi è sembrato di staccare definitivamente la spina. Sono sceso giù alle barche, vestito a bischero, un metro e novanta di nonsoccosa, quarantott'anni che non so nemmeno io come mi ci sono ritrovato, lo zaino, e nessuno. Un piccolo cantiere con un'impalcatura, dove un paio di operai si sono messi prima a parlare in spagnolo correttissimo, e poi di colpo sono passati al marcianese marino; mi aggiravo. Mi sono seduto su una barca e mi sono puntato la Kodak in faccia come una rivoltella; la foto che da oggi si vede nel profilo è una di quelle. Prima, un gesto che in casa mia era quasi proibito, fanatici com'erano tutti dei capellini corti corti e in ordine; son diventato capellone a quarantacinqu'anni sonati, dal 31 ottobre 2008 quando ho smesso di tagliarmeli (e di farmi la barba). Sciogliermi i capelli e farmeli agitare dal vento, come i panni che si vedono in una delle fotografie sopra. Cogliermi, da solo, in quel momento; così ero alle 17.45 del 22 marzo 2011.


Come se volessi farmi portare via. Ed è cominciato, dopo quella foto, uno dei quarti d'ora più strani che mi sia capitato di passare. Mi sono alzato dalla barca e sono andato alla panchina panoramica nella piazzetta immediatamente sopra al porticciolo; una signora anziana guardava dalla finestra, l'ho salutata cortesemente e mi sono messo a sedere, a gambe divaricate, svaccato, la sigaretta e il vento. Di fronte a me, una finestra.


Di fronte a me, un lampione.


Di fronte a me, una fontana.


Fotografavo dicendomi: ecco, ora potrei anche morire. Tranquillamente. Rannicchiarmi sulla panchina, con ancora la Kodak in mano dove qualcuno avrebbe trovato la mia faccia di cinque minuti prima assieme a una serie interminabile di vecchie autovetture. Avrebbero frugato nello zaino e trovato il portafoglio, i libri, la Settimana Enigmistica coi giochi risolti in modo maniacale, e l'astuccio con il canarino Titti. Si sarebbero chiesti che cosa ci facevano, nell'astuccio, tre pinoli, cinquanta centesimi e due cerotti assieme alle penne e alle matite; un'altra delle mie fissazioni che non racconterò. Pensarci, forse per la prima volta, senza alcun problema, e senza nessuna voglia di cacciar via a calci quel pensiero. Pensarci serenamente, senza nessuna angoscia. Intanto ero vivo, e con le mani mi toccavo le braccia e poi le ginocchia; si manifestavano pruriti in zone recondite, tra cui il buco del culo che mi grattavo spudoratamente senza preoccuparmi di un tizio che passava a piedi, spingendo una bicicletta. E così, mentre moricchiavo alla bell'e meglio in un tardo e radioso pomeriggio di primavera, mi è presa una fame da lupi. Ero morto già a sufficienza, e poi è squillato il telefonino con una signora che mi chiedeva di trasportare suo padre a Villa Fiorita per fare la visita per l'accompagnamento. E sono ridisceso verso la piazza; la prima cosa su cui mi son caduti gli occhi è stato il pannello dei gelati Sammontana, davanti a un bar. Quello all'inizio del primo post. Ve lo fo rivedere.


Mica succede tutti i giorni di passare dalla morte su una panchina direttamente all'infanzia e allo Stecco Blocco; mica succede tutti i giorni di mettersi a piangere davanti a un pannello con le immagini dei gelati e un cono con gli occhi che si lecca i baffi. Le figure di quando ero bambino. Il libriccino del gatto Miao da colorare. I racconti di Codaditopo e il viaggio del Pulcino Pip. Tutte cose tritate dal tempo, che rimangono però nitide nel ricordo. Le figure buffe sulle confezioni, gettate via in tutte le spazzature della propria vita. Le fotografie perdute. Per questo, ora, fotografo ogni cosa. La vita che torna in uno Stecco Blocco, col suo cono che schiocca la lingua. Il gatto Miao che ricompare e che mi dice: esisto ancora, sai. Che aspetti a entrare? E sono entrato, infatti, uscendone con tre gelati. Mi sono sbrodolato come un merdaio semovente, ed ero felice. Mi guardavano. Perché va sempre così: alla fine, una figurina e un gelato ricollegano. Riannodano tutti i fili. E una volta mangiati i tre gelati, roba che a voialtri mortali farebbe venire la cacaiola seduta stante, non me la sono sentita di buttare via le confezioni. Le ho piegate e me le sono tenute. Le ho messe nell'astuccio assieme ai tre pinoli, ai due cerotti e ai cinquanta centesimi; così, la prossima volta che mi potrebbe pigliare il pensiero di morire su una panchina davanti al mare, farei prima in tempo a sganasciarmi dalle risate immaginando la faccia di chi redigerebbe il verbale: ritrovato nello zaino un astuccio contenente matite, penne, un righello con la Carica dei 101, un appuntalapis, una gomma, un rotolino di nastro adesivo, due cerotti Hansaplast, tre pinoli, cinquanta centesimi in monete da dieci ed alcune vecchie carte di gelati: un pericoloso steck bloc!