venerdì 4 febbraio 2011

Donne, impalcature, galere, rivolte


Qualcun*, per caso, si ricorda dei femminicidi quotidiani? Qualcun*, dico, che non siano le militanti femministe, le sorelle e compagne di Femminismo a Sud e di Bollettino di Guerra, che non sia Lady Losca, che non siano quelle poche e quei pochi che non intendono mollare sulla mattanza quotidiana? Temo ragionevolmente di no. Manca, oramai da troppo tempo, il "fatto eclatante". Da quando di Sarah Scazzi si sono impadronite le Vite in Diretta, le Portapporte, i Chillavvisti, le clamorose rivelazioni e quant'altro, sembra che il risultato voluto sia stato ottenuto: una crisi di rigetto. Non ha "funzionato" neppure il caso di Yara, la ragazzina tredicenne scomparsa in provincia di Bergamo. Le violenze sulle donne e i femminicidi non servono affatto a "sensibilizzare" alcuno e alcunché, in questo paese: servono esclusivamente al titolo, al reportage, all'editoriale, all'appello, all'acuta analisi dell'esperto, alla spazzatura mediatica in generale. Servono alla cronaca, e cronaca rimangono. Qualcosa che si perde nello spazio di due giorni. Tonnellate di parole vuote prodotte sulla pelle altrui. Gare di indignazione bipartisan che si concludono sempre nel nulla. Arriverà, se ne può essere certi, anche nel 2011 il "caso" che catalizzerà falsamente l'attenzione; e intanto la strage va avanti, implacabile, inesorabile, nel silenzio. Due o tre siti internet e qualche pagina Facebook. Ma vuoi mettere? Ci sono Ruby e la Minetti, ora. I gran giornaloni fanno scendere in campo donne e uomini a "non starci" con campagne gigantesche, perché la dignità umana in questo paese si misura con le storie a luci rosse dei potenti, e non con le condizioni effettive delle donne nelle famiglie, sul lavoro e in tutti i tipi di rapporto umano e produttivo. Si trascurano i problemi veri e le questioni economiche e sociali a vantaggio del moralismo e del legalitarismo. Nessuna gran campagna in cui si inviti a "non starci" per il massacro della porta accanto, per lo sgozzamento delle compagne, per il "trasporto in cielo" dei figli da parte del povero padre separato tanto solo e non capito; tutt'altro. Bisogna dichiararsi invece contro le Olgettine, perché questo è simbolo di "paese sano".

Così come le morti sul lavoro. Il lavoro è morte in sé. Morte che si trascina per tutta la vita di ognuno di noi, morte per la sua "necessità ineluttabile" in una società capitalista, morte perché tale ineluttabile necessità è stata ineluttabilmente distrutta nel nome del precariato, morte che svariate migliaia di volte all'anno si esplica con la morte, fisica, di chi lavora. Perché la cosa faccia notizia bisogna morire in gruppo. Ci vuole l'esplosione nel laminatoio, ci vogliono le esalazioni nella cisterna; e scattano i medesimi meccanismi del femminicidio o, meglio, della strage familiare. Ci vogliono litri di sangue per comparire sul giornale e al TG. Poche gocce non fanno scattare l'indignazione, che poi quasi sempre si manifesta con l'innato forcaiolismo italiano. Anche se, va detto, ho sentito decine di persone dichiararsi pronte a far fare le fini peggiori allo zio e alla cugina, ma nessuno "mettere al muro" i dirigenti della Thyssen Krupp o della fabbrichetta modello. L'immigrato regolare e clandestino può, anzi, tranquillamente volare dalla sua impalcatura: uno in meno. Si può morire tutti i giorni senza nemmeno una riga, senza che nessuno lo sappia.

E chi muore in galera? Qui non si tratta neppure di fare notizia, qui si tratta anzi di coprirla. Giorni fa hanno mandato in onda un servizio televisivo, non mi ricordo su quale TG (tanto sono tutti squallidamente uguali), sull'inaugurazione di un nuovo carcere in una città che pure non ricordo. Sembrava l'inaugurazione di un albergo di lusso, con tanto di presenza del ministro; ci mancavano soltanto le majorettes. In galera, invece, c'è la pena di morte. La pena di morte è la galera stessa. Esattamente come nel caso del lavoro, la galera non può essere messa neppure minimamente in discussione; e come il lavoro sforna le sue decine e decine di morti. Però qui sarebbe inutile cercare la notizia. La fanno, a volte, le rivolte nelle carceri sudamericane che si concludono con ottanta o cento morti; anche qui conta la legge dei grandi numeri. I morti singoli nelle celle, quotidiani o quasi, non devono invece passare. Nessuno ne deve sapere niente, perché noi siamo un paese democratico dove la detenzione deve tendere alla rieducazione. Viene a mente il linguaggio scolastico, e non per niente anche le scuole somigliano sempre di più a delle galere. Senza che ci accorgiamo minimamente che, piano piano, una galera è diventata la nostra vita intera. Più si è sviluppato l'orrendo, abominevole senso della privacy resa legge, e più in realtà siamo costantemente sotto gli occhi meccanici delle telecamere. Il morto in galera, nel senso comune imposto, è salutato con favore. Un'altro in meno. Quasi tutti extracomunitari. Il Cucchi? Il Lonzi? Incidenti di percorso; e, in fondo, se erano dentro qualcosa avevano fatto. C'è pure il caso che siano stati i pensieri di qualcuno che poi s'è visto massacrare il figlio o il fratello in carcere; allora, magari, ha preso coscienza. Una volta o l'altra mi piacerebbe parlare con un parente di questi morti, e chiedergli che cosa ne pensava della galera e di chi c'era dentro prima che fosse toccato personalmente dalla cosa, e nel modo più diretto e terribile. Vorrei chiedergli se non ha mai considerato i guardiani e gli agenti degli onesti lavoratori che si guadagnano duramente il pane, o roba del genere. Vorrei chiedergli un sacco di cose che non gli chiederò mai; e intanto si muore. E si invocano galere per tutti. Sempre più sbarre. Sempre più giustizialismo, trascinati magari dagli eroi della sinistra. Come quel tal Francesco Saverio Borrelli, "resistere, resistere, resistere!", che fu il magistrato che mandò assolti i carabinieri assassini che avevano schiacciato Giannino Zibecchi durante una manifestazione. Quando un paese trasforma dei giudici in eroi, vuol dire che la sua aspirazione più profonda è quella di essere processato e incarcerato. Lo si vede bene.

Tutto che dura lo spazio di un attimo. La coscienza ridotta ad un'aura passeggera. Nei giorni scorsi, tutti col fiato sospeso a seguire la rivolta in Tunisia: una volta cacciato il presidente corrotto, silenzio. Rivolta terminata. Ha vinto er popolo. Tutto a posto. Se ne sa più qualcosa, di quel che accade in Tunisia? Sarà finalmente tornata la democrazia? E se la democrazia è la merda che ci troviamo davanti qui da noi, coi suoi "governi", le sue "opposizioni" e tanti accoramenti per gli "schieramenti", ne sarà valsa la pena? Che succede nei palazzi e nelle strade? Dopo quanto emergerà il nuovo caporione? Sarà cambiato tutto l'esercito? E le strutture del potere, di chi saranno rimaste in mano? Tutti zitti. Conta il presidente. Fra un po' butteranno giù dal sellino Mubaraq, e si ripeterà la storia. Pensate forse che in Grecia la situazione sia tornata alla normalità? A Gaza son tornate a fiorire le rose? L'Afghanistan esiste soltanto per qualche mercenario saltato in aria e "eroizzato"? Alla frontiera tra Messico e USA che succede? Sprazzi. Litri di sangue da offrirci in pasto mentre si pasteggia, come una bottiglia che si stappa e si scola. Quando è finita, la si butta via.