domenica 31 ottobre 2010

Metafore e paradossi


La foto sopra è stata scattata l'estate scorsa, da qualche parte vicino a Prato, da Iononstoconoriana. Possibile che l'abbia già utilizzata in qualche suo post, cosa peraltro facilmente e rapidamente verificabile; consiglio comunque di cliccarci sopra per ingrandirla, dimodoché si possa leggere bene le scritte che il guidatore del camion targato ZA 730 LT ha pensato bene di apporvi.

Avevo pensato di stendere tutto un post a base di considerazioni varie, metaforiche o meno, sull'apparente contrasto tra le due scritte presenti sul camion. I camion che si vedono sulle nostre strade, e non solo sulle nostre, si prestano bene a tale genere di cose. Pochi giorni fa, Daniela mi ha raccontato di aver visto vicino al cimitero di Piacenza un camion che recava la dicitura Schiavi Inerti. Purtroppo non ha potuto fotografare l'automezzo in questione: ne sarebbe venuta fuori una perfetta metafora sul lavoro, direi.

Ma, poi, non so sinceramente a che cosa servirebbe. Ormai, da queste parti, abbiamo già metaforizzato ogni cosa. In Italia, la metafora è da sempre al potere: in questo non abbiamo certamente dovuto aspettare un Berlusconi. Ogni cosa che è accaduta in questo paese, durante la sua storia intera, ha il sapore della metafora: cose che ne possono significare sempre, costantemente, disperatamente altre. Cose che non hanno mai un significato univoco. Traslazioni di senso e di cadaveri.

A forza di vivere immersi nelle metafore, ci si fa ovviamente l'abitudine. Quel che ad altri occhi appare incomprensibile, per noi è normale. Ma di una normalità strana, malata: quella che si percepisce come consuetudine ineluttabile senza nemmeno sforzarsi di afferrarne l'essenza, sia pur superficiale. Si galleggia sugli escrementi senza nemmeno darsi la briga di sapere di quale merda si tratti; e così le metafore imperversano, fanno parte della nostra quotidianità e, al tempo stesso, hanno cessato totalmente di adempiere alla loro funzione primaria: quella di insegnare mediante lo stimolo del paragone, talora ardito.

Metafora e paradosso. Una volta eravamo, perlomeno, un paese paradossale. C'è stato un tempo in cui si riusciva persino a farsene forza. Ora non si riesce più nemmeno ad essere paradossali. La forza sembra essersi esaurita. Un paese di vecchi incancreniti e carogneschi. Si potrebbe allora cercare di illudersi con l'estremo paradosso, con la metafora dell'ultima ora: la speranza di un'esplosione. Ma che cosa potrebbe esplodere realmente, nessuno lo sa. E nessuno, in fondo, vuole saperlo. Circoleranno ancora tanti e tanti camion con i padri pii, le vendette e gli schiavi inerti. Circoleranno ancora anche tante presupposte resistenze nucleari, ognuna nella propria stanza, ognuna ad aggrapparsi a un intrico di ultimi fili che sembrano tessuti da un enorme ragno bavoso.

Qualche tempo fa ho scritto una cosa sull'ottimismo. Era, naturalmente, un paradosso. Da qualche parte mi par di vedere nipoti di Mubarak, fantasmi di lotte, cambiamenti dietro l'angolo, famiglie prigioniere di un ingorgo sulla via del mare, salmi vomitati, vecchie foreste nel buio, ruderi, estati povere e lontane, muscoli in camicia a quadri che impugnano chiavi inglesi, navi che partono cariche di sudore, lupi sul pianerottolo, avanzi di vite e di intelligenze. L'estremo paradosso, e lo so bene, è quello di avere ancora voglia di restare qua. Ridotti, probabilmente, ad essere metafore di noi stessi. Siamo qualcosa, ma il significato è diverso. E il gioco, ora o mai più, si gioca sul cogliere il significato che abbiamo. Se vogliamo essere umani o didascalie.