lunedì 23 agosto 2010

Consigli agli operai di Melfi


Desidero immediatamente sgombrare il campo da possibili equivoci che il titolo di questo post potrebbe generare. Io non mi ritengo assolutamente nessuno per fornire consigli né agli operai di Melfi, né a chicchessia. Si tratta di un titolo pressoché swiftiano, una sorta di modest proposal che, però, promana da alcune considerazioni che mi stanno particolarmente a cuore; specialmente dopo aver seguito, seppur necessariamente attraverso la desolazione dei media attuali, la vicenda dei tre operai licenziati dall'Azienda, e poi reintegrati sul posto di lavoro con una sentenza tribunalizia. Ai tre, come ognuno potrebbe sapere (a pochi giorni dall'inizio del campionato di calcio divento sempre più parco nell'uso del verbo dovere), l'Azienda ha oggi impedito comunque di rientrare in fabbrica, a lavorare. Sembra che i tre siano riusciti a timbrare il cartellino, ma che siano stati poi "presi in consegna" dagli addetti alla sicurezza e fatti accomodare altrove. Intervistati prima del tentativo di ingresso in fabbrica, i tre (o uno di loro) hanno dichiarato di "non voler essere parassiti, e di voler soltanto lavorare per guadagnarsi da vivere"; incassando l'ovvia ma prudente solidarietà dei colleghi, va specificato che l'Azienda, pur di liberarsi da quei tre, sembrerebbe disposta a pagar loro il regolare stipendio.

Bisognerebbe allora, forse, rovesciare un po' la questione. Stabilire, ad esempio, chi siano i veri parassiti; senza ricorrere ad alcun distinguo tra azienda e azienda, tra padrone e padrone o tra sgobbo e sgobbo, occorrerebbe impadronirsi di un concetto che è tanto più chiaro quanto generalmente scansato, rifiutato, allontanato: il vero parassita è il lavoro stesso. Con la vicenda degli operai di Melfi siamo addirittura oltre la "classica" problematica della disoccupazione, della perdita del posto di lavoro, del licenziamento; una volta il lavoratore, bestia da soma con garanzia di stalla e foraggio, se sgradito all'Azienda veniva ridotto a un cane randagio. La sua fatica quotidiana gli dava il diritto di rivendicare un salario; una volta licenziato, il fatto di non faticare più lo gettava in una condizione immorale, da elemosina. Gli conveniva abbassare la testa, oppure -in certe particolari circostanze politiche e storiche- unirsi ad un movimento collettivo di lotta al termine del quale, ottenuti o meno alcuni "diritti" o migliorie economiche, tutto tornava esattamente come prima. Adesso non importa più neanche questo: il Padrone, costretto a non licenziarti, continua a pagarti pur di non averti fra i coglioni. E tu, operaio, che fai? Ti rechi al cancello e vuoi entrare dentro perché "non vuoi essere un parassita". Sarebbe il caso davvero che tu ci riflettessi un po'.

Facciamo un bel paradosso, ora. Mettiamo che i tre operai di Melfi, oggi, si fossero presentati sì ai cancelli della fabbrica, ma strombazzando con le macchine per la gioia e agitando festoni, trombette e putipù per aver fregato l'Azienda a quel modo. Liberi di non dover più faticare, e pagati: c'è modo più intrinsecamente onesto e autenticamente umano di "guadagnarsi da vivere", posto che la loro bella fetta di vita alla produzione l'hanno già ampiamente data? Scesi dalle macchine, avrebbero magari potuto chiedere ugualmente la solidarietà dei colleghi, ma in modo simpaticamente e tremendamente opposto: invitando anche loro a poter finalmente usufruire del medesimo trattamento. Essere pagati regolarmente per non entrare in fabbrica. Svuotargliela stipendiatamente, quella loro fabbrica di merda. Siamo sgraditi all'Azienda? Chi, noi? No no, è l'Azienda che è sgradita a noi. Ci venga lei con gli ufficiali giudiziari a cercare di farci rientrare, se proprio vuole. Noi ce ne stiamo belli fuori a goderci il sole, di litri di sangue per fare componenti del cazzo ne abbiamo versati già troppi.

Allora sì che sarebbe un bel bailamme. Altro che pomiglianidarchi, altro che "accordi", altro che sindacati da fare oramai schifo al maiale. Ma è oramai talmente malsana l'impregnazione del "dovere" e della "produzione", che principalmente chi lavora non si accorge che è tutto quanto inutile. Produzione, industria, "settori primari" e quant'altro sono condannati. Non sono settori redditizi. I soli settori veramente redditizi sono la burocrazia e la produzione di beni inutili, di "lusso", di consumo indotto. Da qui il parassitismo del lavoro, e di tutta la "civiltà" -completa di ideologie, dèi, inni e ammennicoli- che su di esso si basa.

La dichiarazione degli operai di Melfi, e lo dico senza nessuna intenzione di offendere bensì soltanto di constatare, somiglia in tutto e per tutto a una droga. Ma sarebbe una droga comprensibile, ancorché ugualmente dannosa, se si fosse di fronte ad un licenziamento conclamato, come l'AIDS. Quello per cui il salario da schiavo garantisce la regolarità dell'approvvigionamento per sé e per la minigalera che uno ha formato per sé e per altri (si chiama famiglia, da un termine latino che significa originariamente, giustappunto, "insieme dei servi di casa"), e la cui interruzione provoca, esattamente come la droga, una crisi d'astinenza con la relativa confusione, panico, disperazione. Qui siamo di fronte al vero paradosso, quello riportato dalla cronaca: il salario non viene meno, ma i salariati intendono continuare a suicidarsi quotidianamente invece di invitare, istigare, sobillare gli altri a godere finalmente dello stesso trattamento. Per rivendicare il loro diritto a farsi fuori da soli, leso dall'Azienda, una volta che il tribunale lo ha sancito con un editto mettono in mezzo uscieri e gendarmi. La menzogna del "lavoro necessario" raggiunge qui la sua sublimazione: è la più lenta, e quindi la più rassicurante, maniera di farla finita con la vita.

Abbiamo visto oggi che all'Azienda non interessa più neanche "sfruttare". Il capitale cerca soltanto nuovi fallimenti per investirsi, mentre chi afferma di difendere gli "interessi dei lavoratori" studia maniere sempre più ipocrite quanto stupide di omologarsi in tutto e per tutto al capitale. Non gliene importa, però, di tre lavoratori. Gliene importerebbe di tremila, di trentamila, di trecentomila, di tre milioni. Gliene importerebbe di gente che non intende più morire giorno dopo giorno, e morire per niente.

In conclusione, si capisce ancora meglio perché il titolo che ho dato a questo post non sottintenda in realtà alcun consiglio. Tutto, in fondo, va come deve andare. Prima o poi i tre operai, compreso quello che nella foto indossa la maglietta "orgogliosa", troveranno il modo di rientrare in fabbrica. Magari con l'intercessione accorata di qualche vescovo, perché no; all'Azienda-Dio interessa sempre salvaguardare l'abbrutimento degli abbrutiti.