mercoledì 14 aprile 2010

Il tedesco Klöger (3)


Immobili, per qualche secondo. Immobili e, entrambi, con una di quelle espressioni ebeti che sottitendono domande di una qualche gravità. Kurt appariva più immobile del recente amico, mentre Anton si lasciava cogliere in quale impercettibile movimento delle labbra e di una mano. Alla fine Kurt cominciò a parlare, sottovoce:

“Perché, Anton? Perché ti sei voluto nascondere?”

Anton non rispose niente, assumendo un'espressione che cercava di far capire ogni cosa senza dover ricorrere alle parole; non c'era, probabilmente, nient'altro da fare. Bisognava che l'amico capisse senza confessioni, senza ammissioni; è una cosa che viaggia sul confine tra la speranza e l'esigenza che una persona che si considera amica ti capisca penetrando nei recessi più profondi; ed è così che le amicizie viaggiano a loro volta, costantemente, sul confine tra l'accrescersi ed il terminare. Ma qualcosa andava detta.

“Mi sono nascosto perché non posso fare altro, Kurt. Se vuoi capire, capisci. Altrimenti, ti prego, non mi tradire perché ora come ora non c'è altro né da dire, e né da fare.”

“Io ti posso anche capire. Ma a me dovevi dirlo subito. Non ti avrei mai tradito.”

“Me lo stai dicendo ora. Ma io non ti conosco. Qui siamo in un posto e in un periodo dove ognuno pensa soltanto a sé, Kurt. Lo sai bene anche tu. Io ho bisogno di lavorare. Ieri sera ho dovuto dirlo a mio padre. Non siamo della vostra classe. Tu non sei della mia. Ma abbiamo la stessa fame. Non c'è nulla da mangiare in casa. Tocca a me procurarlo.”

Kurt non disse niente. Stava cominciando a farsi tardi, e non presentarsi in orario al primo giorno di lavoro avrebbe comportato l'immediato licenziamento; prese l'amico a braccetto, gli tirò una botta sulle spalle e gli fece un sorriso. “Källingen”, disse. “Mi dovrò abituare a chiamarti così, caro il mio Klöger von Qualcosa und Qualcosaltro”; e risero tutti e due. Il tragitto a piedi verso la fabbrica non era brevissimo, e si misero a correre come due ragazzi, perché erano due ragazzi e correvano a perdifiato verso una dura giornata in una città livida.

Waldtraut tornava al furgone, stizzita e ancor più cupa, maledicendo il momento in cui aveva accettato che quei due venissero anche loro all'Elba. Il vecchio benzinaio non si vedeva più alla pompa; sembrava scomparso, e con lui il suo compagno. Ebbe, la donna, un moto di sconforto, non sapendo più che cosa fare; si mise a cercare i due, togliendosi finalmente i suoi ridicoli occhiali da sole, e addentrandosi nel terreno incolto dietro il distributore; faceva talmente caldo da non essere più nemmeno percepito, come se stesse fondendo anche la coscienza. Alla fine li vide, a sedere per terra, sporchi, sudati, immobili a guardarsi. Anzi, uno dei due era immobile; l'altro muoveva impercettibilmente un labbro e una mano.

Il quinto giorno di lavoro alla trafilatrice Kratos, Daniel si era accorto che c'era qualcosa che non andava in una delle macchine. La trafilatrice faceva sì un rumore infernale, ma regolare; una specie di zang zang koot koot che, al tempo stesso, opprimeva e rassicurava. Aveva chiamato gli operai che si trovavano attorno alla Kratos n° 19, e aveva detto al responsabile d'aver sentito un rumorino che non gli pareva affatto buono. Poiché i turni degli apprendisti cambiavano giorno dopo giorno, proprio quel giorno Anton e Kurt si erano ritrovati insieme alla stessa macchina; e il caso aveva voluto che fosse proprio la 19. “Oh, ci sei tu, oggi!”, aveva detto Anton all'amico; e si erano messi ad eseguire i loro compiti contenti di poter lavorare per un turno assieme. “Devo fermare la macchina?”, disse a Daniel il capomacchina, un ometto segaligno che lavorava alla Pögg da una vita e che si chiamava Lothar Guske. “No, Lothar”, risponde Daniel. “Se fermi la macchina non sento bene che cos'ha. Fai allontanare i ragazzi e dammi una mano.”

Senza dare nell'occhio, perché il rischio di incidente a una macchina avrebbe fatto fermare tutta la fabbrica, Lothar disse a Anton e a Kurt di andare più in là e si mise ad armeggiare sulla 19, assieme a Daniel. In realtà era più un armeggiare a parole, perché i due non si decidevano: se avessero fermato la trafilatrice, tutti gli altri se ne sarebbero accorti e si sarebbero fermati anch'essi; ma senza fermarla non era possibile fare niente senza il rischio di finire affettati.

“Che cosa te ne sembra?”, disse Lothar a Daniel.

“Non lo so. Fa come dei piccoli sibili. Sembra che qualcosa strusci sul trasportatore, ma da qui non si può vedere niente. Quando avete cominciato il turno, lo faceva?”

“No, Daniel, era tutto a posto. Nessun rumore, davvero. È davvero una strana cosa.”

“Strana sì, e pericolosa. Se dentro si è sganciato qualcosa, o c'è entrata qualcosa che fa attrito, rischia di saltare ogni cosa. Dobbiamo fermare la macchina, Lothar.”

“Non me la prendo la responsabilità. Dobbiamo andare a sentire il padrone, prima.”

“Se non la fermiamo entro poco va tutto in malora.”

“Io vado a chiamare Pögg. Tu resta qui, e fai come se niente fosse. Vado e torno.”

Era partito alla svelta, e Daniel era rimasto alla Diciannove, preoccupato e ansioso che il capomacchina tornasse subito con gli ordini del padrone. Nel frattempo, Anton e Kurt si erano infilati in un bagno, ché era il pretesto più sicuro per stare lontani dalla macchina in modo plausibile. Anton si frugava nelle tasche.

“Senti, ma secondo te che diavolo sta succedendo?”, disse Kurt.

“Ne so quanto te. Ci dev'essere un rumore strano nella trafilatrice, e credo che non sia una cosa di poco conto. Altrimenti non ci avrebbero fatti allontanare...”

“Hai ragione...ma senti, come mai ti stai continuamente frugando nelle tasche?”

“Non trovo più il mio blasone”, disse sorridendo Anton.

“Il tuo che?!?!....”

“Il mio blasone, Kurt. Lo so, ti sembrerà una cosa idiota. È una specie di spilla con lo stemma della mia famiglia, che mi è stato regalato alla nascita da mio nonno. È una specie di usanza nella mia famiglia: alla nascita di un figlio maschio, il nonno gli regala lo stemma di famiglia. Lo so, la troverai un'idiozia...”

“Non la trovo un'idiozia, solo che non ho mai avuto a che fare con un apprendista trafilatore con il von davanti al cognome...”

Waldtraut aveva conosciuto il suo compagno negli anni '50, ad un raduno antitutto davanti a una base militare americana dalle parti di Hildesheim. Li chiamava, scherzando, raduni antitutto perché non c'era nemmeno una cosa contro la quale non si contestasse: erano i primi vagiti di quel che sarebbe venuto dopo, di quei vagiti ancora generalmente inquadrati nelle organizzazioni dei partiti ma che davano l'occasione e l'illusione di radunarsi per uno scopo. Bisognava cacciarle via, quelle basi, con le buone o con le cattive; e il tipo, pur non essendo oramai più un ragazzo, era attivissimo. Gli era piaciuto fin da subito, e avevano fatto amicizia; ma aveva la fede coniugale al dito. Lo osservava da lontano, immobile a sedere davanti al vecchio benzinaio, chiedendosi che cosa stesse succedendo e dando la colpa a quel maledetto e feroce sole mediterraneo. Dei figli di lui, i gemelli incestuosi, non v'era traccia; ma che andassero pure all'inferno, loro e tutto il resto. Voleva capire, e non ci riusciva. Tutto le stava sfuggendo di mano, mentre il furgone era oramai ridotto a una specie di forno che, a toccarlo inavvertitamente, ci si sarebbe ustionati. Ripensava a come lui gli parlava della moglie, una ragazza di salute malferma, e al desiderio di avere dei figli; e intanto se ne stava innamorando quietamente, tra uno slogan e un'accenno di carica della Bundespolizei. Cosa c'era che non andava? Avevano mantenuto i contatti senza potersi dire nulla, finché un giorno non aveva ricevuto una telefonata da lui, in cui le annunciava allegro che i medici avevano dato parere favorevole, e che sua moglie era incinta; gli aveva fatto le sue felicitazioni, cercando di mettersi l'animo in pace.

La trafilatrice n° 19 era saltata in aria all'improvviso, senza nessun aumento del rumore sospetto. Lothar stava arrivando assieme al vecchio Pögg, Daniel era là fermo con le mani i mano, picchiettando nervosamente col piede sinistro sul pavimento, tutti gli altri operai lavoravano alle loro macchine assieme agli apprendisti, e Anton e Kurt se ne stavano in bagno a scherzare sul blasone di famiglia. Anton stava spiegando all'amico come fosse fatto: due colline (*) sormontate da un fiore rosso, e racchiuse da un muro in pietra. L'esplosione fu graduale. Si sentì come una specie di scarica di mitraglia; un pezzo della lama di trafila decapitò sul colpo il capomacchina Lothar Guske, che stava arrivando assieme al padrone della fabbrica. Saltarono i rivetti dei carter, trasformandosi in proiettili; Anton e Kurt si precipitarono fuori dal bagno, trovandosi davanti ad una scena apocalittica.

(continua venerdì 16 aprile)


(*) Sia "Büttel" che "Hadel" sono termini dialettali bassotedeschi per “collina”. (ndr)