giovedì 25 febbraio 2010

Arturo ed io


Arturo l'ho conosciuto verso il '78, in estate, dal giornalaio in piazza della Fontana a Marina di Campo (che allora si chiamava ancora "piazza Milano"). Santi Guerrieri, c'era scritto con le lettere in rilievo sul muro; meravigliosa combinazione di cognomi. Giornali, libri, parole crociate, creme solari, salvagente e paperette di gomma, preservativi: l'estate. Ci si mise a parlare subito, con Arturo, sebbene non conoscessi ancora particolarmente bene la sua lingua (che, oltretutto, usava in una maniera del tutto bizzarra). Si vendeva. Stava lì, fermo, con qualche fotografia, e si dava. Aveva qualche mese, forse un anno più di me; s'era ragazzi. E che ragazzi, porca madonna.

Andò a finire che si fece subito non dico amicizia, perché "amicizia" è una parola abbastanza del cazzo, detto fra noi. Si fece non so cosa. Me lo portavo dietro, lui che non era molto pratico dell'Elba e in più soffriva abbastanza il caldo provenendo da latitudini fungose; gli facevo vedere un po' di tutto, parlandogli sbagliando la grammatica, e lui in compenso mi parlava d'una cosa misteriosa che si chiamava "assenzio" e ogni tanto mi toccava voluttuosamente il culo. Gli piaceva camminare e s'andava per certe stradette in salita, finché un giorno non mi venne l'idea di fargli vedere Galenzana. A dire il vero non so se gli piacque. Guardava e compitava con le dita dei versi che non capivo. Con gli sguardi ci sfogliavamo, diciamo così. Se passava un uomo con un'arma a tracolla mostrava interesse e competenza, ché ancora se ne vedevano di vecchi con il fucile.

Un giorno scomparve, di brutto. Non so proprio dove se ne fosse andato. Lo aspettavo, come ogni mattina, al muretto davanti al "Capriccio"; non si fece vedere. L'Ornella, la torinese con gli occhi azzurri, mi chiese dov'era finito; non le seppi dire niente e non mi riuscì mai di baciarla. Sfogliavo, e mi accorgevo che però continuava a dirmi qualcosa; era andato per le sue strade.

Molti e molti anni dopo, quando la consuetudine s'era fatta allegra disperazione, la sorte mi portò lontano; e talmente lontano da non riconoscere più il cielo. Erano le undici di sera e era ancora chiaro, alla fine di giugno; però bisognava mettersi qualcosa di pesante addosso, faceva freddo e le stelle indicavano qualcosa che non mi era consueto. Un giorno qualsiasi, dopo una mangiata colossale di salade au lard, con una scusa qualsiasi mi feci dare la macchina blu targata 08. E fu là che lo incontrai di nuovo.

Nella piazza della stazione, davanti al gazebo dove sonava un'orchestrina tutta compìta, elegante, davanti all'uditorio domenicale coi cappelli di paglia anche se non era domenica. "Toh, ma guarda chi si rivede", gli dissi; e mi fece cenno, con un sorriso di cortese complicità, di stare zitto. Aveva un quadernetto in mano pieno di seduti e di dormienti nelle valle, e con lui c'era un tipo grassoccio, palesemente rovinato dal bere, che gli lanciava occhiate che neppure l'amore immagina, e le occhiate sparavano camelie sanguinose. Capii di non dover essere troppo invadente; non eravamo più ragazzi, forse, eppure lo eravamo ancor di più di prima. L'orchestrina attaccò un motivetto idiota, alla moda; la stazione si disfaceva e il tempo assieme a lei. Nel cimitero circondato da palazzi moderni di quella piccola città gonzaghiana, una tomba di famiglia borghesava ritmi paludati mentre comitive di danesi scattavano fotografie berciando det er ham, den berømde digter. Il gazebo decollava e allora decisi di andarmene, ché ero fuori posto. Del resto ho passato tutta una vita a essere fuori posto, e una volta di più non faceva differenza; mi diressi verso il fiume.

Chiatte ormeggiate, birra dovunque, e il ponte. Sul ponte, una specie di tozza costruzione nella giornata di luglio che s'era fatta piovosa e quasi gelida. Non c'erano più né Santi né Guerrieri. C'era la comprensione del destino e dell'inadeguatezza; gli altri possono, e Arturo mi ha sfiorato, e quei venticinque giorni da diciassettenni all'Elba si dilatavano come chimere paracadutate a casaccio. Entrai nella costruzione, goffo, curvo, e al bancone una signorina graziosa sorrideva piuttosto mentecatta. Un biglietto, un soldo. Lo presi e mi scivolò di mano. Non so quale aura lo fece andare proprio sotto il bancone, in un posto pressoché irraggiungibile; la signorina mi guardava con aria fintamente desolata, pregustando un nuovo soldo.

Il fatto era che, sopra il bancone, Arturo mi guardava. Da un manifesto enorme, che lo ritraeva come quando lo avevo conosciuto all'Elba, seppure fosse vestito di tutto punto e persino con la cravattina lavallière. Un ghigno come a dire: "O dai, su, fagliela un po' vedere"; e allora le dissi che non c'erano problemi. Il bancone sarà pesato un centinaio di chili buoni. Lo presi con due mani, e lo sollevai di quel tanto che bastava per ritrovare il biglietto. La signorina era un po' sconcertata, un po' spaventata: Voilà le billet! E dentro c'erano foto, manoscritti, manonienti, manosilenzi, manovite e mano nella mano; ché era saltato fuori dal manifesto, con le sue armi da vendere e mi recitava, con aria divertita e lurida al tempo stesso, di certe sue stagioni, e di certi suoi inferni, e di certe sue volte in cui era morto per poi darsi, vivo, a chi era disposto a ricordarsi acque che cantavano di cristallo attraverso un sole che scivolava piano, piano, piano nel movimento d'un cuore sporcato da un fuoco maligno d'amore.