giovedì 3 dicembre 2009

Il Mannu ai domiciliari. Una lettera. Sempre galera.


Da ieri, 2 dicembre, il Mannu è agli arresti domiciliari. Quando ancora era in cella a Sollicciano, e quando abbiamo fatto il presidio sotto il carcere, ha scritto una lettera. La riproduco integralmente dal sito del CPA Firenze Sud:

LA VOCE DEI COMPAGNI

Un terrazzino, quello della mia cella, lo sgabello, un pacchetto di sigarette.
La musica che entra dentro le mura.
La musica, quella dei compagni, della solidarietà, quella che qua dentro mette i brividi sulle braccia e lungo la schiena.
Poi il carcere risponde!
Marocchini, rumeni, albanesi, italiani, molti picchiano con i pentolini sulle sbarre di cemento e in coro si alza una parola che tutti capiscono.
Molti stanno urlando LIBERTA', LIBERTA', LIBERTA'!
La vostra voce è entrata!
Da qui, in lontananza, si sentono anche le voci del femminile, dall'altra parte del carcere, si sbracciano, urlano anche loro.
La voce dei compagni entra, colpisce e torna fuori carica di forza.
Molti qua recepiscono e, anche se schiacciati da una realtà di sbarre, mura di cinta e cemento, almeno in questo istante, tirano fuori rabbia, passione e voce.

TUTTI LIBERI!

Un abbraccio grande a tutti e a presto.
A PUGNO CHIUSO

Mannu.


Forse sarebbe il caso che questa lettera la leggessero soprattutto certi pronipoti di Gramsci, o (assai) presunti tali, che per il resto non hanno trovato di meglio che aver eletto a propri rappresentanti, campioni e persino eroi dei magistrati. O meglio, dei mandaingalera, come da molto tempo preferisco chiamarli. È il loro sporco, sporchissimo mestiere. È il loro ruolo di servitori dello Stato. Come lo servano alla perfezione lo hanno detto e continuano a dirlo in molti: Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda, chi era dentro alla scuola Diaz, Gabriele Sandri, Giannino Zibecchi. I suoi assassini, tre carabinieri, li fece mandare assolti proprio il "signor Resistere al cubo", Francesco Saverio Borrelli.

Sono i fulgidi resistenti del 270 bis e successivi. Sono gli stessi eroi che ordinano perquisizioni, arresti, repressioni. E arresti domiciliari. Perché non bisogna certamente gioire troppo di questa cosa. Soprattutto non bisogna scordarsi che gli arresti domiciliari sono sempre galera. Una galera che viene spostata dall'edificio apposito alla propria casa. La propria camera, la cucina, il bagno trasformati in cella. Non si può vedere nessuno. Non si può comunicare con l'esterno. Al posto dei secondini, i carabinieri che vengono a controllare quotidianamente. Il Mannu è sempre in galera, anche se a casa sua. Che non ci si facciano illusioni. "Mannu libero" significa soltanto Mannu fuori. Fra noi. Assieme a noi.

Assieme a tutti gli altri. A Alessandro, ai ragazzi di Livorno e Milano, a tutti coloro che si trovano attualmente rinchiusi tra le mura di una galera. Anche di una casa-galera. E non bisogna mai dimenticarlo. Come non bisogna dimenticare le intimidazioni cui sono sottoposti i parenti, gli amici, i compagni di chi è dentro. Ne sa qualcosa Katiuscia, la compagna di Alessandro della Malva.

Lo Stato e la sua magistratura decidono che la cella può bastare. La sostituiscono con una casa. Dicono che puoi vedere soltanto la tua famiglia, e così anche la famiglia diviene perfettamente organica alla prigione. Sono i cosiddetti valori primari, che assumono un ruolo interscambiabile. La famiglia ridiventa la galera che era, per natura, quand'eri bambino. Una persona viene di nuovo sbattuta nella minorità.

Che cosa fossero gli arresti domiciliari me ne sono accorto definitivamente la mattina di domenica 18 novembre 2007.

Chiamato dal 118 per un intervento in un'abitazione, in un seminterrato, zona Coverciano. Ingresso dal garage. Sulla porta un avviso, scritto col pennarello:

PER I CARABINIERI. SONO IN CURA PER PROBLEMI NERVOSI
E DEVO ASSUMERE UN FARMACO CHE MI PROVOCA SONNOLENZA.
SE NON RISPONDO AL CAMPANELLO, INSISTERE O TORNARE PIU' TARDI.
NON SONO USCITO.

Quella domenica mattina non aveva però risposto ai carabinieri, né a nessun altro, perché la sera prima era morto. A tavola, davanti a un piatto con una fettina di carne e dell'insalata. Lo trovammo così, ancora seduto, irrigidito con una forchetta in mano mentre tagliava un pezzo di carne. E non riuscirete mai a immaginarvi che scena fosse. Morto agli arresti domiciliari. Morto in galera. Morto solo. Assassinato, perché, non potendo comunicare con l'esterno, gli avevano impedito di tenere un telefono cellulare e gli avevano tagliato la linea fissa.

La canzone del video è di un cantautore greco, Dionysis Savvopoulos. La scrisse mentre si trovava imprigionato a Atene dopo il colpo di stato fascista del 21 aprile 1967. Si intitola "Il discorso di Demostene".


Quando uscirò da questa galera
Nessuno ci sarà a aspettarmi.
Le strade saranno tutte vuote
E la città mi sarà estranea.
Tutti i caffé saranno chiusi
Ed i miei amici in esilio,
E il vento mi trascinerà
Quando uscirò da questa galera.

E il sole si addormenterà
Sulle rovine di Olinto,
Ed i miei amici, e i miei nemici
Saran come figure d'un mito.
Pietrificati innanzi a me
Staranno i retori ed i ladri,
Pietrificati gli accattoni,
E le puttane, ed i profeti.

Starò piedi davanti al portone
Con le coperte sottobraccio,
E farò un cenno con la testa
Per salutare il secondino.
Senza più voglie e senza un dio,
come un re in un antico dramma
pronuncerò il mio discorso
davanti a quel portone, in piedi.

Senza più voglie e senza un dio,
come un re in un antico dramma
pronuncerò il mio discorso
davanti a quel portone, in piedi.