martedì 1 dicembre 2009

Appunti liberi di un "Gucciniano" a Trieste


Molti anni fa, direi almeno una decina, con il pretesto di un concerto di Francesco Guccini passai alcuni giorni a Trieste, nel Carso e in Slovenia. In quelle zone abitavano, e abitano tuttora, delle persone che ogni tanto mi capita di rivedere; e ogni volta che ci si rivede, son sempre dei bei momenti. Da quel bizzarro soggiorno venne fuori, con relativo inserimento nel Newsgroup Usenet “IFMG” -it.fan.musica.guccini- uno dei miei rarissimi “resoconti di viaggio”, forse l'unico vero che io abbia mai scritto. Un resoconto dove il Guccini, e mi scuseranno coloro che magari non lo sopportano, è presente non dico in ogni riga, ma almeno una riga sì e una riga no.

L'ultima volta che ho rivisto quelle persone, pochi mesi fa, è stata anche -per una coincidenza del destino- l'ultima volta che sono stato in un altro luogo, a me carissimo. E ancor più che carissimo, oserei dire: consueto, familiare, fondante. Il posto dove, spesso, mi sono anche rifugiato in questi anni arruffati assai, andando a rompere le scatole al legittimo titolare. Vorrei chiedergli scusa e perdono per avergli invaso la casa così tante volte, ma deve anche sapere che lo rifarei diecimila volte. Tanto per essere chiaro. Ad ogni modo, un posto che resterà, e per sempre, dentro di me.

Così come Trieste. Non ci ho mai più messo piede, da allora. Mi è venuto quindi in mente di...ripubblicare quel “resoconto di viaggio”, nel primitivo spirito di questo blog (che era nato come una specie di “deposito” di cose già scritte; poi è andato estremamente per conto suo). Eccolo qui. Alcune cose, specialmente nella parte introduttiva, appariranno chiare soltanto a chi mi conosce e a chi ricorda quei giorni (“Ti ricordi quei giorni”, si potrebbe dire guccinianamente assai); ma le lascio comunque come sono, a parte qualche leggerissimo adattamento temporale e qualche piccola nota esplicativa. C'è, a dire il vero, anche un adattamento per nulla lieve, ad un certo punto; un adattamento che è, almeno per ora, un'eliminazione. Ma se ne avrà a riparlare fra un po', al momento giusto.

Il “resoconto” era diviso in quattro parti: le metto tutte assieme, numerate, per non fare l'ennesima mia cosa “a puntate” proprio mentre sono impegnato in una titanica storia “soprannaturale”. Se qualcuno desiderasse leggere bene questa cosa, consiglio di stamparla e di farlo con calma. È un tipo di scrittura, forse, che non mi appartiene più: ma, insomma, siamo a Trieste nell'anno 2000.

Solo un'ultima nota: la foto di intestazione è quella di Umberto Saba.


1. Introduzione. Il "Gucciniano" a Trieste.

Quella che scrive "rispetta chi digiuna", quell'altro che chiede del cantante di Sanremo, quell'altro ancora che ce l'ha con le flames* del cazzo, e Guccini, Stagioni, Primavere del '59, Inverni del '60**, estati del Chissaqquando, perché chissaqquando, come tutti sanno, è il gerundio del verbo chissaqquare...

Conosco un'arte sommessa: quella del girare insieme ai vortici. Un giorno, probabilmente, un d'essi mi porterà con sé. Chissaqquando. Mi chissaqquerà senza possibilità di fuga. E, allora, mi diletto del fissare gli attimi; e questa è la storia di alcuni miei vecchi attimi a Trieste, nel Carso e in Slovenia, in compagnia di alcuni amici di IFMG (il newsgroup di Francesco Guccini), di altri amici conosciuti in quelle plaghe e di quella che era mia moglie.

Nel titolo c'è una parola: liberi. E ce n'è un'altra: "Gucciniano". Non abbiamo saputo trovar di meglio, come se essere "Gucciniano" fosse una qualche sorta d'etichetta. Non la intendo come tale; vorrei, una volta per tutte, che tale termine fosse abolito.

Io sono Riccardo Venturi ed amo svisceratamente quel che scrive e canta Francesco Guccini. Lo amo coi miei pregi e i miei difetti, con le mie squinternatezze (è per questo che sono su Squinternet !) e le mie esattezze, con le mie parole e i miei silenzi. Ma resto quel che sono. Mi faccio migliaia di chilometri per andare a vedere altre persone come me, magari con la graditissima scusa d'un concerto; ma m'interessano occhi e immagini, arie e ricordi, sapori e gesti, storie e mani.

Tutto quel che forma una vita; il resto è il finale di Canzone quasi d'amore. Quella canzone in cui si parla dei goffi voli d'azione e di parola, del vivere in provincia.



Mi hanno accompagnato in questo viaggio tre donne dagli occhi belli, e un uomo che sembra uno scatto vivente, un'esplosione di vitalità, una mattìa che conosco bene, in questi posti davanti al mare. In questi posti fra mari e monti, fra storie e storie, fra culture e culture. Dovrebbero imparare a descriverli, a parlarne passando oltre la volgare cronaca, oltre la notizia, oltre l'apparenza. Dovrebbero imparare a chissaqquare. Chissà quando lo faranno.



2. Camminando

Camminando per Trieste scopri quanto è chiara. Una città chiara, luminosa anche quando il cielo è grigio, aerea, asburgica solo per chi si ferma all'apparenza delle pietre.

Ma quale Asburgo, ma quale città haideriana. Trieste sono piccole, dirompenti esplosioni di follia nascosta; dietro l'eleganza, dietro la Mitteleuropa, dietro tutte le poetiche e le celebrazioni c'è l'anima da gatto di tutti i porti. Che strana città austriaca doveva essere; i gran palazzi teresiani affacciati sul mare, il Canal Grande e, dietro, una Genova su un altro mare, sprofondata nella sua voragine carsica.

La Cavana: vicoli senza uscita (che qui si chiamano androne), miserie piccole e grandi, case mezze diroccate, gente che va e gente che viene. Coi suoi capelli spettinati da folletto mai stanco, Livio mi racconta che in quel quartiere c'era una concentrazione di bordelli impressionante.

Ad ogni porto i suoi poeti. Genova ha avuto i Caproni, i De André; Trieste ha Umberto Saba, Virgilio Giotti, Nereo Rocco. Sì, avete capito bene. Nereo Rocco, il paròn, l'allenatore di calcio. Chissà perché, in questi giorni m'è venuto a mente più lui che tanti e grandissimi facitori di parole. Sentivo parlare Fulvia coi suoi Lùnedi, Màrtedi e Vènerdi e mi veniva a mente un'azione travolgente a rete.


Camminare fino al mal di piedi, tentando ogni tanto d'adattare un verso o una canzone di Guccini a quel che stavamo vedendo. È uno strano esercizio che mi piace fare, che piace fare a tutti noi; l'esercizio dell'incastro d'una poesia conosciuta sulla realtà.

Quale Guccini potrebbe adattarsi a Trieste? Cambiando solo vento, quello di Scirocco. C'è qui un vento che davvero trasforma la realtà abusata e la rende irreale, e non è sempre ed esclusivamente la Bora. È, forse, il vento della stratificazione; Trieste è come una matrjòška russa. Un gioco di involucri che il visitatore deve saper scostare con delicatezza e grazia, se vuole farsi capire dalle strade che percorre.

L'insieme di questi involucri, la loro somma, mi si è rivelata in una piccola porzione d'una strada. La salita ripidissima che porta alla cattedrale di San Giusto. Venti metri dietro un angolo, due case colorate, un sole sfavillante, un muro, le voci, la mescolanza. Un rapidissimo giro di mestolo nella mia testa, come spesso mi accade; ho ricollegato. Come se, chissà quando e chissaqquando, fossi già passato di lì con gli stessi vestiti e la stessa impudente travolgenza. Avrei abbracciato tutto, se avessi potuto. Non mi capitava da tempo di sentirmi una nuvola in calzoni. Oblako v štanach!

Lasciate i porti a chi è nato davanti al mare. Giornalisti pretenziosi, via di qui. Fuori dai piedi, creatori di definizioni. Al macero tutte le retoriche, dalla patria al "ponte fra le culture". Quante lingue, quante pàtine, quanta gente diversa. È l'impronta del mare; alloggiavo ad un albergo gestito dalla comunità greco-ortodossa, mi divertivo a parlare in greco coi camerieri. L'albergo si chiama "Xenia". E, davanti alla Stazione, il monumento a Sissi l'imperatrice. Assassinata da un anarchico italiano, Luigi Lucheni, o Luccheni. La fiaccola dell'anarchia, ecco perché pensavo sempre a Nereo Rocco, fulgida figura di anarchico triestino.

Un convegno di anarchici.

L'anarchica Fulvia con la sua keffiah, l'anarchico Livio Metòn, l'anarchica Antonella Cippeccioppe hanno dato il benvenuto a Trieste a un anarchico livornese*** Che facevano là? Dovevano accendere una fiaccola; invece di una, se ne sono accese tante.

3. Le Osmizze

Sull'altopiano carsico che sovrasta Trieste i sono dei luoghi gucciniani. Anzi, fra i luoghi più intimamente gucciniani che io abbia mai visto: sono le "Osmizze".

Passiamo, dicono, la vita a ricercare osterie di fuori porta; qualcuno perché è già dottore, si è sposato e fa carriera...ma che dico? Quale carriera? L'unica che abbiam fatto, forse, è quella che ci ha portato ad un allegro, incommensurabile niente.

Che sia questo l' "Invecchiar bene, anzi, direi, benone"?

Dico questo avendo in mente la gente incontrata nell' Osmizza di Borst. È il nome sloveno; in italiano si chiama Sant'Antonio in Bosco, ma lì la gente è bilingue. Parla lo sloveno e il dialetto triestino. Quando i triestini di città vogliono prenderli in giro, però, cambiano tutte le "z" in "j" pronunciati alla francese.

"Osmizza" vuol dire "ottava". È, credo, la misura dei bicchieri dove si serve il vino.**** Sono garages, cortili di case, spiazzi, aie; qualsiasi spazio privato dove qualcuno decide di mescer vino e servire qualcosa da mangiare (salame, salsicce, uova sode -anzi: ovi duri). Non hanno altro tipo d'insegna che due o tre frasche di vite o d'altra pianta; quando un portone è infraschettato, lì si beve.

Si beve il Terrano, il Kraški Teran*****, un vinone talmente ricco di tannino da esser quasi di colore viola, da esser quasi da mangiare. Aspro, terrificante, dal sapor di tempesta buia. Si beve un bianco ventoso che va giù come una schioppettata. Ti portano il cesto con gli ovi duri da condir con pepe e sale, e guai a non mangiarli; non potresti più bere. Piattate di salame, prosciutto della Dalmazia, e giù, giù, giù.

La gente è a chiacchierare e a bere. Ho visto un signore rubizzo in volto come una melagrana fare dei complimenti alle donne con un garbo alcolofàsico che non vedevo da secoli; un altro affettava un salame distribuendolo rigorosamente con le mani, un altro ancora invitava la mia ex moglie a ballare senza musica. Son buoni tutti a ballare con la musica.

A questo punto qualcuno potrebbe dire: O Venturi, ma proprio tu ti lasci andare a tali simil-idilli campagnol-oleografici?

A parte il fatto che non sarebbero affatto oleografici, casomai enografici; a parte il non trascurabile fatto che ero imbenzinato come il serbatoio di una formula 1 (e il risultato si vide poi la sera a Udine, al concerto); a parte il fatto che sono il contrario dell'oraziano nihil admirari, perché io ammiro tutto e m'innamoro di tutto; perché, finalmente, mi son ritrovato in dei postacci dove si beve a garganella dalla bottiglia, dove si mangia a manate e si bestemmia ognuno nella propria lingua, in sloveno, triestino, fiorentino o livornese che sia.

E l'ho vista anche io, la Austroslava.******.

Una signora di 70 e rotti anni che spillava vino da due damigiane, una con scritto "bianco / belo" e l'altra "rosso / crveno". Così si chiama il vino: bianco e rosso. E il vostro dire sia: bianco bianco, rosso rosso, quel che è in più vien dal maligno (dal Vangelo secondo S.Giovese). Tranquilla, a servire il vino della sua vigna, a chiacchierare con tutti e a fregarsene di tutto il resto. In culo, probabilmente, alle patrie, al vento ed anche alla Storia.

Chissà se Guccini conosce le Osmizze; mi piace pensar di sì, ma non lo posso sapere. Quel che è certo, è che un raduno di Gucciniani in un posto del genere sarebbe semplicemente un dovere. Mi han detto che si può portare liberamente da suonare, che si può cantare, e che esistono ancora dei superstiti comunisti. Pensate un po'...

Mi han detto che si può persino, un giorno qualsiasi, aver voglia di star da soli davanti a una caraffa, andare a fare una visita al tempo e decidere financo che non esiste.


4. Cos'è un lager?

Cos'è un lager? Certo, è una cosa buia nata in tempi tristi, dove dopo passano i turisti. Lager. Che strana parola tedesca, vuol dire tutto o quasi, come il famoso Zug preso in giro da Mark Twain. Dalla birra agli strati, dal cuscinetto a sfere ad un campo. Konzentrationslager, Gefangenheitslager. Lager, un'abbreviazione di comodo.

Vedi pianure nevose e cieli grigi. Il fumo che sale lento; impossibile immaginarsi un lager d'estate. Eppure, dei terribili campi di concentramento sono esistiti ed esistono in luoghi arroventati dal sole. Per ogni cosa esiste un'iconografia, un immaginario collettivo; pianure, tristi pioppi e neve, neve, neve.

A Trieste esiste invece un lager di quartiere. I casermoni, lo stadio, il giardinetto, il bar, l'incrocio con il semaforo e il lager. Ci sono arrivato da Sèrvola, un raccolto, familiare quartiere periferico che mi dicono esser stato ed esser tuttora, in parte, una roccaforte della sinistra. Si prende poi una ripidissima discesa, un ratto. Ratto della Pileria. Non mi dicono niente, ma una pileria è un posto dove viene pilato il riso. Una risiera.

S.Sabba. Sabba. Chi vedi? Chi immagini? L'onnipresente Umberto Saba (che poi aveva preso il suo "nom de plume" dall'amatissima balia slovena, Peppa Sabaz)? Il sabba delle streghe? No, è un santo slavo. San Sabba o Savva. Esiste pure un celebre evangeliario manoscritto in antico slavo ecclesiastico che si chiama Sàvvina Kniga.

Attorno ci hanno costruito un muraglione di cemento armato; alle sei del pomeriggio, col sole già tramontato, si vedono spuntare delle porzioni di ammattonato rosso e il corpo centrale dell'edificio, con la ciminiera. La ciminiera. Doveva essere, mi raccontano, una sorta di centro di smistamento per coloro che dovevano essere avviati ai campi di sterminio dell'Europa del nord. I lager classici, quelli che ci immaginiamo tutti. Le "Case della Dogana" (Mauthausen), Auschwitz, Treblinka, Bergen-Belsen. Poi cominciarono anche lì a mettere in funzione la ciminiera.

Cose comuni trasformate in terrore. Le case della dogana, i pioppi, il riso. Non potrò mai più mangiare un piatto di riso senza pensare a quel tranquillo martedì sera in compagnia di amici, a quel giro attorno ad un sommesso lager d'una piccola città adriatica. Dentro è vuoto; dai finestroni sogghignanti si vedono lacerti di scale e brandelli di cielo grigio, solo un po' ingiallito dalla luce della lampada stradale all'angolo.

Il terrore sa invadere tutto. Specialmente quando un'epoca sembra perdere la memoria.


Note.

* Flame: "Guerra verbale" (spesso con insulti pesantissimi) fra partecipanti a forum, newsgroup, mailing list ecc. Ignoro se sia passata anche nel magico mondo di Facebook, ma presumo di sì.

** Canzoni, non molto note, di Guccini.

*** Allora abitavo a Livorno e dicevo di essere livornese. Lo dicevo perché lo ero!

**** Immane bischerata: le osmizze si chiamano così perché avevano un periodo di apertura, a turno, di otto giorni all'anno (osmica, da pronunciarsi "òsmizza", significa "periodo di otto giorni, ottavina" in sloveno).

***** Oppure anche Teràn Domacio, ove "domàcio" è l'adattamento dello sloveno domaci "domestico, casalingo, nostrale".

****** Austroslava. Mitica figura di donna idealizzata da uno dei più geniali troll usenettiani, il Dott. Federico Degni. Il quale vive tuttora, pur essendo romano di nascita, a Trieste (o così almeno credo). Se per caso mi leggesse, un saluto!