giovedì 29 ottobre 2009

Supernatural Voyage Inc. (3a puntata)

1a puntata - 2a puntata

Sono decisamente a disagio, con il volo meccanico: in realtà ho sempre una sottilissima paura fottuta, e cerco di evitare i viaggi in aereo come la peste bubbonica. Per somma di cose, aborro dover stare per ore e ore fermo a diecimila metri da terra su una pur comoda poltrona, come un salame, senza poter fumare, a leggere cose di cui dopo un po' non me ne importa più niente o a guardare filmetti in massima parte noiosissimi. Insomma, la prima parte del mio viaggio si stava rivelando assai poco supernatural: un normalissimo rioplano, sia pure di una compagnia abbastanza sui generis, i passeggeri che chiacchierano, qualcuno che cerca di dormicchiare (sempre con il retropensiero di risvegliarsi, si fa per dire, già direttamente a destinazione; e non più come passeggero, ma come ospite eterno di quel posticino che stavi andando a visitare per incontrare il tuo cantautore morto preferito). Si cerca di ingannare il tempo, ma il tempo è come San Giovanni: non vuole inganni. Ho il sacro terrore che qualcuno proponga di omaggiare il defunto con qualche canzone da cantare in coro; e menomale che a bordo non si possono portare chitarre o altri strumenti musicali. Nutrendomi di questa vana speranza, e impegnato in un principio di inquieto appisolamento, sento partire dalla seconda fila delle poltrone una voce femminile:

- Ehi, ma che mortorio! Che ne direste se cantassimo tutti insieme una canzone di Fabrizio?

Mi sveglio di soprassalto. Inutile. Mi gratto un momento la testa in un gesto a metà fra la rassegnazione e la bestemmia non detta, e mi accorgo che l'anziano signore con cui avevo parlato in aeroporto mi siede accanto. Si è infilato un paio di occhiali molto spessi, fuori moda, e legge attentamente un libro con eleganza, scorrendo le righe con l'indice destro. Si accorge che mi sono svegliato, e volta la testa verso di me; impercettibilmente, ma di quel tanto che basta per rivelare un sorriso ironico. Non dice niente e torna a leggere il suo libro. Non mi ero nemmeno accorto che si era messo a sedere accanto a me. Proprio in quel momento un'altra voce, stavolta maschile, si sovrappone ai consensi che provengono da una metà buona della congrega di viaggiatori soprannaturali alla ricerca del perduto mito e genovese; e, stavolta, la riconosco.

- Ma lo sapete che qui con noi abbiamo uno che sa cantare De André in tutte le lingue?

Stavolta niente può più porre un freno ai sudori freddi, specialmente quando la tua condanna te la sei fabbricata giorno dopo giorno, credendo di coniugare due passioni brucianti. La voce è peraltro quella di un tizio che, agli inizi della mia partecipazione attiva alla Lista, mi aveva, con meritata nonchalance, fatto rimediare una delle peggiori figure di merda linguistiche della mia vita. Non che non ne abbia fatto altre; una volta, completamente nel pallone, sono riuscito a scappare da una cabina di traduzione simultanea perché avevo accettato un lavoro che non sapevo fare (accadde, per la cronaca, all'auditorium del Porto di Livorno durante un convegno di autorità marittime; credo che la mia disgraziata datrice di lavoro, una simpatica signora iraniana trapiantata a Livorno da una vita, mi cerchi ancora con qualche arma tradizionale del suo paese per conficcarmela in quel che del mio corpo ci sia di conficcabile). Però, debbo dirlo, quella rivelò tutta la mia latente supponenza, che è una parte di me. C'è anche quella. In pratica, De André aveva cantato assieme a un gruppo delle valli occitane piemontesi, i Troubaires de Coumboscuro, un'antica ballata provenzale intitolata Misamour. Siccome nessuno ne capiva le parole, e in Lista c'era il principe dei linguisti, una sera a casa d'un altro partecipante mi occupai di fornire la mia emerita e definitiva trascrizione e traduzione. Ora, dovete sapere che io non ho mai parlato mezza parola di provenzale, né antico e né moderno, e che l'ho studiacchiato solo superficialmente; nonostante questo mi cimentai con impegno, certo che nessuno mi avrebbe smentito, proponendo una fantasiosa traduzione che aveva un quid della famosa decifrazione dei geroglifici di Athanasius Kircher.


Applausi in Lista, finalmente ci ha pensato il Venturi! Il giorno dopo, o un paio, ecco che compare una mail proprio a firma del signore che ora educe i passeggeri sulle mie linguate deandreiane, nella quale viene trascritto il testo corretto della ballata, ripreso dal libretto dell'album Canti randagi (l'omaggio a De André degli artisti di strada). Dice di non aver seguito molto la discussione, di essersi appena accorto che tutti cercavano il testo di quella canzone, e lo posta. Naturalmente ci avevo azzeccato una parola su dieci, e forse nemmeno quella.

- In tutte le lingue? Ma è bellissimo!

Invocavo, inutilmente, un vuoto d'aria che facesse pigliare un coccolone a tutti quanti, distraendoli da quei malsani propositi; cominciavo a pensare che rischiare di rimanere chissà dove, e chissà in quale dimensione, fino al 2670, per dover fare una specie di gruppo vacanze Piemonte? Si parte! non valeva poi così la pena; ma bisogna essere sempre curiosi e andare avanti. Anche far buon viso a cattivo gioco. Vogliono De André in tutte le lingue? E sai cosa si fa, si va a cantare proprio Misamour. Il viaggio in aereo, in fondo, non dura poi così tanto.

Si alza, per la prima volta dritto come un fuso vincendo l'incurvamento dell'età, l'uomo che siede sulla poltrona accanto alla mia; ha ancora quei suoi occhiali spessi, tiene il libro in mano, ma non ha più il minimo accenno di sorriso. Ha un'aria grave, mesta; sta in piedi non appoggiandosi a niente.

- Scusate se mi intrometto. Non state andando ad una gita di piacere, ma ad incontrare una persona che non è più. Forse sarà meglio che cantiate al ritorno, e starvene tranquilli.

Si rimette a sedere. Mi colpisce lo strano uso della seconda persona plurale, che è escludente; come se sentisse, o sapesse, di far parte solo del viaggio di andata. Mi risiedo anche io; nessuno parla più.

Sul retro di ogni poltrona è installato un piccolo schermo con una tastiera portatile; gli aerei della Baudel Air sono provvisti di collegamento Internet intrasatellitare, e mi viene in mente di andare alla pagina Soulbook di Fabrizio. Fondato solo due anni prima da due studenti della Indiana University, uno di origine bhutanese e l'altro di Rignano sull'Arno, Soulbook è diventato in breve tempo il principale Sepulchral Network della Rete; un vero fenomeno di massa che non conosce arretramenti. Qualsiasi defunto può, con poche e semplici manovre, avere la sua pagina dove tenere aggiornati i viventi su ciò che può essere definito altra vita, anche se gli utenti generalmente preferiscono non usare tale espressione per paura di confondersi con Second Life. Da quando Soulbook, sette mesi fa, è stato acquisito da Gargoogle®, il suo uso è stato esteso ai vivi che, così, possono crearsi liberamente la propria morte, e il proprio status parallelo di non vivi: un boom senza precedenti. Fabrizio, come tutti, ha una sua pagina; in Italia è una delle principali, con oltre 780.000 contatti.

Come sempre, la pagina è intasata. Mai una volta che, per caricarla interamente, ci vogliano meno di dieci minuti. Ma l'atterraggio si avvicina, si scorgono già le luci di Cleveland e il signore accanto a me, ora, si è addormentato con un'espressione di magnifica serenità. Una finta voce femminile ripete, in italiano e in inglese, l'avviso standardizzato: Ladies and gentlemen, we are landing to Cleveland. Passengers are kindly requested to carefully fasten safety belts. Stiamo momentaneamente tornando sulla terra per allontanarcene di nuovo, poi, in un modo molto, troppo diverso. La pagina Soulbook si è piantata, e ripenso per un attimo, curiosamente, tremendamente, a tutta la mia vita che sta per varcare una frontiera un tempo invalicabile.

(3. continua)