mercoledì 14 ottobre 2009

Due sarti


Tutti i giorni, io o degli altri, li andiamo a prendere con dei pulmini attrezzati; si tratta di disabili gravi, assolutamente non deambulanti, che il giorno vengono tenuti in un istituto specializzato sulle colline attorno a Firenze. A vederlo dal di fuori, sembrerebbe a tutti un bel posto: ma l'ingresso è protetto non da uno, ma addirittura da due cancelli elettronici, e per accedervi con quei grossi pulmini muniti di piattaforma di sollevamento per le carrozzine a rotelle, bisogna vedersela con uno strettissimo vialetto murettato da entrambi i lati. Una manovra e un percorso difficilissimo, sebbene di nemmeno cento metri, prima di arrivare al piazzaletto dell'istituto dove la mattina scarichiamo quelle persone, e il pomeriggio le andiamo a prendere per riportarle a casa. A quel piazzaletto possono accedere soltanto gli addetti, e non saprei dire se sia un bene o se sia un male; ho costantemente dei sentimenti contraddittori al riguardo. Da un lato penso che a tutti farebbe un gran bene ricevere un salutare shock nel vedere che cosa significhi far parte di un certo tipo di umanità, ed anche come lavorano quotidianamente coloro che se ne occupano (in questo caso egregiamente, lo devo dire); dall'altro, però, penso che non dovrebbe mai essere uno spettacolo, e men che mai edificante o roba del genere. Non sarebbe comunque un luogo che lascerebbe indifferenti. Ma, tanto, sono questioni puramente teoriche; per entrare in quel posto non ci sono che tre modi. O ci lavori, o sei autorizzato a trasportarvi le persone, oppure sei un disabile grave. Quartum non datur.

È un cosiddetto servizio sociale che svolgiamo (e svolgo) da anni e anni. Un “giro” piuttosto lungo che impegna, se c'è traffico, quasi due ore; una volta sistemate le carrozzine nel pulmino con la piattaforma di sollevamento, devono essere ancorate con dei ganci speciali a “cric” che farebbero bestemmiare anche san Francesco d'Assisi, e poi si deve procedere al massimo a quaranta all'ora. Sempre lo stesso percorso, e sempre le stesse persone; tra di esse un ragazzo, che abita in un quartiere di là d'Arno. Proprio accanto alla porta di casa sua, c'è un negozio; anzi no, una bottega. Comincia qui questa piccola storia d'un giorno qualunque, che potrebbe essere ieri, un anno fa o forse anche domani. Chissà.

La bottega accanto alla porta di casa di quel ragazzo, è d'un sarto. Anzi, di due sarti, piuttosto anziani: un siciliano corpulento, e sempre sorridente, e un fiorentino che se ne sta sempre su una sedia a imbastire, a segnare col gessetto, a ritagliare pezzi di stoffa. Non è una boutique, è proprio una sartoria artigianale, con due uomini che vi svolgono, con la porta aperta, il mestiere o l'arte del sarto. Poiché ci capito da anni quando riporto a casa quel ragazzo disabile dall'istituto, è andata a finire che, con quei due sarti, prima ci ho scambiato qualche cenno; poi un buonasera; e, infine, s'è fatta non dico amicizia perché questo è un termine che non ho più nessuna intenzione di sprecare quando non si deve, ma diciamo almeno una lieve conoscenza. Quando l'accompagnatore riporta in casa il ragazzo, io di solito mi infilo nella bottega per scambiare qualche parola coi due sarti, e particolarmente con quello siciliano; quello fiorentino è sempre occupato a lavorare sulla sua seggiola, e alza raramente la testa. Oramai è diventata una consuetudine, una di quelle abitudini che a lungo andare mancherebbero; a forza di cinque minuti alla volta, ci si è conosciuti, si parla magari non di gran cose (ivi compreso il tempo che fa e le stagioni che cambiano), e ogni tanto ci si fuma una sigaretta assieme. A volte gliela offro io, a volte me la offre il siciliano. Intanto li guardo lavorare, ogni volta. Assolutamente rapito. Segnare, tagliare, cucire con precisione. Con il pensiero che non si vedono quasi più cose del genere, in una strada non certo centrale, in un'epoca in cui il lavoro artigianale sta scomparendo.

Il sarto siciliano, a un certo punto, se ne è accorto e mi ha chiesto come mai mi piaceva così tanto starli a guardare; allora gli ho raccontato, in tre minuti, una storia di famiglia. Una di quelle che, nelle famiglie, si raccontano sempre. Gli ho detto per prima cosa che li guardavo perché io non so fare nessun mestiere, a parte tradurre dalle lingue e guidare le ambulanze; e poi che il mestiere del sarto ce lo avevo avuto lontanamente in famiglia, e per via diretta. Sarto era il mio bisnonno dalla parte della nonna paterna, Aldrovandi Ede, e sarto ambulante nelle campagne del Mugello. Di quelli che partivano da casa battendo ogni contrada e fermandosi alle case a chiedere se c'era da fare un vestito, da rammendare qualcosa, e persino da raccomodare o risolare un paio di scarpe perché sapeva fare anche il calzolaio. Costume voleva, specie se aveva da fare un vestito intero o comunque più d'un lavoro, che rimanesse ospite della famiglia per tutti i giorni che ci volevano; lo sistemavano da qualche parte, gli davano da mangiare, e poi lo pagavano. Non sempre con denaro: anzi, era più comune che rimediasse un presciutto, un paio di galline pelate, o una balla di fagioli. Una volta, sia detto semplicemente, si fermò a lavorare in una cascina vicino a Sant'Agata del Mugello; fece il suo lavoro, e quel che ne ricevette stavolta fu una delle figlie dei contadini. Il padre e la madre di mia nonna, insomma. Nata, se ben mi ricordo, nel 1903: siamo comunque più di un secolo fa.

In questo modo c'entra il mestiere del sarto nella mia vita; da qualche parte anch'io sono stato tagliato e cucito, per così dire. E non è nemmeno una cosa nuova che mi sia garbato fermarmi a veder lavorare dei sarti: mi ricordo, quand'ero ragazzino e mi capitava di passare per via Lamarmora, di essermi fermato spesso alle vetrine di una grossa sartoria artigianale ancora esistente, da dove si vedeva lavorare. E così gliel'ho raccontato ai due sarti che lavorano accanto al portone del ragazzo disabile, e il siciliano mi ha chiesto se non avessi mai voluto imparare il mestiere. Gli ho risposto ridacchiando che era stato assai meglio di no. Credo che, mettendo metri, forbici, aghi e fili in mano mia, l'arte della sartoria ne avrebbe ricevuto un colpo mortale. Poi così ho aggiunto, guardando la bella roba esposta, che se avessi avuto i soldi necessari mi sarebbe garbato farmi fare un vestito da loro.

Il fatto è che, pur con tutta la sartoria ambulante che devo avere nel DNA, col vestire ho un rapporto, come dire, particolare. In pratica, non me ne è mai importato niente. Non per affettazione o per snobismo, ma perché davvero non la reputo una cosa importante. Inoltre ho anche il problema delle mie dimensioni: oltre a essere un armadio, sono pure sproporzionato. Ho un' “apertura alare” che a volte riesce a coprire i due lati di certi vicoli del centro storico; comprarmi un vestito già confezionato è un'impresa non soltanto economica. Se mi va bene di lunghezza, quasi sempre le maniche della giacca sono troppo corte; oppure se le maniche vanno bene, i pantaloni o non mi stanno o sono talmente corti da farmi sembrare “con l'acqua in casa”. Alla fine, ci ho rinunciato. Eppure, ogni tanto, il vestito della festa mi servirebbe; un paio di volte all'anno ho anch'io delle occasioni in cui dovrei almeno cercare di sembrare meno sciamannato del solito. Ma farmi tagliare un vestito su misura non me lo posso permettere, men che mai ora. Così ho tirato ai due sarti quella che voleva essere, ed era, una semplice battuta. Una cosa che si dice così per dire. Il siciliano mi ha guardato, e ha acchiappato un metro. Senza nemmeno lasciarmi il tempo di ragionare.

Avrà una cinquantadue”, ha detto il fiorentino sulla seggiola, alzando impercettibilmente il capo. “Cinquantadue un accidente”, gli ha risposto il siciliano mentre misurava. “Questo qui ha una cinquantotto”; e io non sapevo che fare e che dire. Ero vestito da servizio, con il pile verde e i pantaloni gialli fosforescenti; l'accompagnatore era ancora in casa del ragazzo disabile. Il sarto siciliano ha posato il metro, è andato nel retrobottega e ne è tornato dopo pochissimo con una bella giacca grigia e un par di pantaloni di fattura perfetta. “Su, forza, vada a provarselo”, mi ha detto. E ci sono andato, vista l'aria imperiosa che aveva assunto all'improvviso.

Avete presente un vestito che sembra tagliato e cucito addosso? Mai avuta una giacca, mai avuti un paio di pantaloni belli che mi stessero meglio. Come se ci fossi nato. Sono uscito fuori vestito di tutto punto, guardato in modo esterrefatto dall'accompagnatore che nel frattempo era uscito e stava tornando a ritirare su la piattaforma di sollevamento del pulmino. Il siciliano mi ha chiesto se mi piaceva e se mi stava bene. Gli ho risposto che non avevo mai avuto addosso qualcosa di migliore, e mi ha fatto un sorrisone battendomi una mano sulla spalla: “Ecco, allora se lo tenga pure”.

Mi sono messo a farfugliare qualcosa, completamente imbarazzato. Devo avergli chiesto qualcosa come “Ma...come mai?”, oppure, “Ma no, non pos...”; mi ha interrotto. Dicendomi semplicemente che dovevo tenerlo e che gli faceva piacere regalarmelo, ribattendomi una mano sulla spalla. E io, allora, mi sono rimesso la divisa di servizio, mentre quello mi impacchettava il vestito piegandolo in due secondi come a me non riuscirebbe fare nemmeno in un'ora. Sono uscito, ringraziandolo a voce bassa; l'impulso sarebbe stato quello di abbracciarlo, ma non si poteva. Passava troppa gente sul marciapiede, e poi non lo so nemmeno io. Ero anche un po' stordito. Magari lo farò un'altra volta. Ancora ringraziando piano, sono uscito dalla bottega e sono rimontato sul pulmino col vestito impacchettato; c'era ancora da completare il giro e riportare a casa l'ultimo dei disabili. Uno che non è un affatto un ragazzo, ma un uomo di cinquanta e rotti anni, che non abita accanto a nessuna bottega, ma a una ferrovia. L'accompagnatore era già rimontato.

Venturi”, mi ha detto.

Sì...”

Me la spieghi questa?”

Ti arrabbi se te la spiego un'altra volta?”

No, no, ma...”

Ecco, allora te la spiego la prossima volta, d'accordo?”

Va bene, va bene. Ma ora che si va a riportare il ******, cosa fai, ti fai regalare una locomotiva da un macchinista che passa?”

In effetti ho sempre desiderato avere una locomotiva tutta per me; ma andrà a finire che non gli spiegherò un bel niente, ché tanto i blog non sa nemmeno che cosa siano. Andrà a finire che ora dovrò assolutamente cercare un'occasione qualsiasi per infilarmi quel vestito meraviglioso; e pensare che a volte mi sono presentato in pantaloncini corti anche per fare degli interpretariati. Andrà a finire pure che, un giorno, arrivando davanti a quella bottega per riportare a casa il ragazzo disabile dal posto in collina protetto da due cancelli, la troverò chiusa. Sono vecchi tutti e due, i sarti; e qualcosa mi dice che non ce ne saranno di nuovi. E può essere anche che quel vestito, standomi così bene, avrà un giorno un'occasione che non potrò proprio evitare.