domenica 17 maggio 2009

Il quarto uomo in barca



Leggere è una delle cose che più mi piace al mondo; però, nella lettura, seguo una strada tutta mia. Anzi, non la seguo affatto; piuttosto mi faccio trasportare, pigramente, senza intervenire. Questo perché sono profondamente convinto che siano i libri a decidere quando e come è il momento di farsi leggere. Ho comprato dei libri trent'anni fa che ancora non ho letto; se ne stanno lì a impolverarsi e a ingiallirsi sugli scaffali, intonsi, pazienti. Aspettano, in silenzio, l'attimo giusto; e, quando arriva, si cambia registro all'istante. Perché, nella lettura, sono generalmente rapidissimo, capace di sciropparmi un migliaio di pagine in tre giorni. Chi mi vede leggere (pochi, perché, almeno per me, la lettura è un fatto estremamente privato e mi piace immergermici in perfetta solitudine) ha l'impressione che io scorra soltanto le pagine. In realtà, per motivi che non sto a spiegare, riesco ad assimilare un testo scritto ad una velocità supersonica. Mi astraggo da ogni altra cosa, le parole scritte si trasformano in immagini (che sia un saggio, un romanzo, una grammatica swahili o l'elenco del telefono -perché leggo anche quello, quando mi va-, è del tutto uguale) e mi trasferisco in un altro mondo. Un libro, in fondo, non lo si “legge”: lo si mangia. I processi sono identici a quelli della nutrizione, dell'assimilazione, della digestione ed anche dell'evacuazione. Non a caso di parla, spesso, di libri “indigesti”. E, se un libro mi è piaciuto sul serio, me lo rimangio e rimangio, come una pietanza di cui si è ghiotti: il Caso di Charles Dexter Ward di Lovecraft, solo per fare un esempio, me lo rileggo almeno una volta ogni due mesi da quindici o sedici anni. Sempre con lo stesso piacere, sempre con la stessa ingordigia. O, per andare in un mondo estremamente differente, The Modern Greek Language di Peter Mackridge, dove l'autore, con la scusa di scrivere una grammatica descrittiva, racconta la lingua greca moderna. Un libro assolutamente unico.

L'ultimo esempio che farò è quello del Pinocchio di Collodi, che è un caso ancora diverso. Nelle sue pagine, trasformate in immagini, ci ho messo sin da bambino tutta una serie di paesaggi, di ricordi, di volti, di terre e di mari che sono tutta la mia vita. Sebbene un famoso ristoratore fiorentino appassionato di quel racconto sostenga che sia ambientato in origine a Peretola, per me si svolge, da sempre, tra Colle Val d'Elsa e la Maremma, sulla statale della Valdicecina, passando per Volterra, Ponteginori e Guardistallo, magari a bordo della vecchia 850 beige di mio padre in una giornata di sole accecante. Finché vivrò, quel racconto mi ricorderà quei posti; viceversa, ogni volta che mi ci trovo a passare mi viene a mente il Pinocchio. Proprietà transitiva dell'immaginazione. Se sono solo, mi viene da recitarlo a voce alta, a memoria. Ci riporto altre cose: il Pescatore di De André è, per me, quello cui Pinocchio si rivolge, dopo la “battaglia dei libri di testo” sulla spiaggia, per chiedere notizie del suo compagno ferito con un pesante dizionario. Alcuni anni fa arrivai a scriverne una parodia pagina per pagina, sostituendo i personaggi originali con persone che conoscevo, e facendola terminare in un modo un po' bizzarro e, diciamo, esplosivo.

Di conseguenza, con questo modo di fare (anzi: di farsi fare), ho un rapporto divertentemente problematico coi cosiddetti capolavori della letteratura, quelli certificati, quelli che tutti hanno letto -o sono stati, consciamente o inconsciamente, costretti a leggere. Ci sono dei capolavori che ho letto subito e che sono talvolta diventati come quei libri di cui parlavo prima: il Decamerone, ad esempio. Da ragazzino m'è toccato leggerlo in una traduzione in lingua moderna, ché altrimenti non ci avrei capito nulla; quando, poi, sono stato in grado di leggerlo così come lo scrisse davvero il Boccaccio, è diventato uno dei miei capisaldi, uno di quei libri che mangio e rimangio. Altri “classici”, invece, non li ho finora mai aperti nemmeno per leggerne due righe: il Don Chisciotte, per dirne uno. Ad un erudito spagnolo, che non mi ricordo come si chiama, chiesero una volta quale fosse il libro che preferiva; senza esitare rispose che era il Quijote, lanciandosi poi in una profondissima e appassionata disamina dei motivi. Concluse: “Sì, sicuramente non saprei mai separarmi da quel libro; mi piace talmente, che forse una volta o l'altra mi deciderò a leggerlo”. Ce l'ho, quel libro, in italiano e in spagnolo. Come tutti quanti so di Sancho Panza, di Dulcinea e dei mulini a vento; ma non ne ho letto mai mezza parola. Verrà, forse, anche il suo momento.

C'è un libro, invero assai meno ponderoso, di cui pure conoscevo l'esistenza e la vicenda fin da ragazzino. L'ho comprato, poi, oltre dieci anni fa, in un'edizione supereconomica, a un chiosco di giornali mentre andavo con la mia ex moglie a fare il bagno vicino a Piombino. Finalmente avevo intenzione di leggermelo sulla spiaggia, spaparanzato sull'asciugamano; nulla da fare. Sull'asciugamano mi misi a fare le parole crociate. Da allora me lo sono portato dietro ovunque: in treno, su altre spiagge, in bagno, a letto, di notte alle ambulanze. Non c'è stato mai verso, come mi respingesse. Alla fine l'ho lasciato da mia madre, me ne sono andato a giro per il mondo e lui lì a pigliarsi la sua polvere e il suo giallore. Sono tornato dal vasto globo ed è rimasto lì. Ho cambiato casa e non me lo sono portato mai dietro; fino a pochi giorni fa. Si tratta, pensate un po', di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. Il capolavoro dell'umorismo all'inglese.

Se un libro decide di non farsi leggere, ci sono pur sempre alcuni motivi. Il fatto è che l'umorismo inglese, in generale, proprio non lo sopporto. Ho provato, anni fa, a leggere alcuni volumetti di Wodehouse, quelli del maggiordomo Jeeves; ho provato dopo un po' qualcosa che si avvicinava al tedio assoluto. Non parliamo poi del Tristram Shandy di Sterne: uno dei pochi libri che ha rischiato di finire nella spazzatura. La cosa, forse, vale per tutta la letteratura volutamente “umoristica”, non solo quella inglese; chi si mette a scrivere con l'intento di far ridere, o sorridere, non mi smuove e mi annoia. Mi piace invece, e molto, la parodia intelligente: mi sono, ad esempio, sbellicato sul Libro Cuore (Forse) di Federico Maria Sardelli. E ancor di più mi piace l'umorismo involontario. Libri paludatamente serissimi mi fanno, a volte, scompisciare dalle risate. Uno di questi è l'acclamatissimo Neve di Orhan Pamuk, il turco premio Nobel; quando l'ho letto, con la sua città di Kars seppellita dalla nevicata del secolo e le vicende islamo-terror-turcoman-deliranti che vi si svolgono (ma forse sono deliranti perché mi riservo sempre il diritto che, di certe cose, non me ne freghi assolutamente e liberatoriamente un cazzo), passata la fase degli sbadigli è subentrata, fortunatamente, quella delle risate. Pensavo, leggendo, che se a quel tizio hanno dato il Nobel per la letteratura, forse qualche speranza di vincere perlomeno il Goncourt ce l'ho anch'io. Seicento pagine di pretenziosa rottura di palle che, per fortuna, hanno dato adito al ridere permettendomi di arrivare in fondo perché odio comunque lasciare un libro a metà.

Il libro in assoluto più umoristico che abbia mai letto è il Mein Kampf di Hitler. Lo leggevo e mi pigliavano conati di risate. Ritenevo impossibile che una serie talmente scientifica di comicissime stronzate fosse stata scritta sul serio; ma sembra, disgraziatamente, che per quell'umorismo (per giunta scritto da cani) ci siano stati svariati milioni di morti a giro per il mondo. Ma lasciamo stare e torniamo ai Tre uomini in barca. Per non dir del cane, of course.

Il suo Deus ex machina è stata la Daniela, che lo aveva letto da bambina e cui era piaciuto un sacco; e, a forza di parlarmene, una volta che sono andato da mia madre l'ho ritirato fuori dalla pila in cui giaceva dormendo tranquillo, e me lo sono portato a casa. E ho rivisto quell'oramai lontana giornata in cui lo avevo acquistato al chiosco piombinese, facce passate, situazioni distanti; perché questo riesce a fare un libro, anche se mai letto. Lo prendi in mano e mette in moto comunque ricordi e immagini, al semplice tatto. Può succedere, certo, con qualsiasi altro oggetto; ma un libro è fatto comunque per essere letto, e questo, finalmente, ho cominciato a fare. Un bel sabato svaccato su un prato vicino a Montefiridolfi, con i panini e una bottiglia di vino, la stuoia e tutto il resto. Era il momento giusto.

Tre uomini in barca, come dicono le storie della letteratura, non era nato per essere un libro “umoristico”. Doveva essere una sorta di guida turistica del Tamigi, con tanto di descrizioni e racconti storici dei luoghi, e con alcune parti “leggere” a far da intermezzo. Il suo autore, però, era un tipo particolare; era uno che aveva fatto la fame, l'attore girovago in una compagnia di guitti (poi fallita come d'ordinanza), il giornalista di quart'ordine e mille altri mestieri prima che qualcuno cominciasse a pubblicargli quel che scriveva. Ebbe a dichiarare: “Non intendevo scrivere un libro divertente. Non sapevo di essere un umorista. Nel medioevo avrei probabilmente continuato a predicare e sarei stato messo al rogo o impiccato. Doveva esserci un 'alleggerimento comico', ma il libro sarebbe dovuto essere 'Il racconto del Tamigi' con i suoi scenari e la sua storia.” Jerome Klapka Jerome era uno cui la vita aveva insegnato ad osservarne i più minuti e insignificanti particolari, sia delle persone che delle cose; e questo dice molto, forse tutto.

Dice, in primis, che l'umorismo, quello vero, è sempre involontario. Gli umoristi di professione mettono malumore e non fanno ridere o sorridere nemmeno i polli. Chi vaneggia e sproloquia di sense of humour ne è spesso totalmente privo. Jerome, invece, nella sua sequenza di gags ora surreali, ora iperreali legate da un'incredibile catena di associazioni mentali, ha messo in scena l'esistenza ordinaria, i piccoli disastri della vita di tutti i giorni, la sua minuziosa osservazione della realtà che lo circondava e di cui aveva esperienza. Tre uomini in barca fa sorridere, ridere, e pensare. Presa finalmente al volo l'occasione di farsi leggere, lo ha fatto in modo talmente bello e coinvolgente da farmi stare fino alle due di notte a parlarne, con un lunghissimo preambolo e con nessuna voglia di terminare questa cosa; senza contare che, in mezzo allo zio Podger che sventra una casa per attaccare un chiodo, alle stazioni ferroviarie che fanno scomparire i treni, alle scatolette di ananas che rifiutano di aprirsi e alla trota in gesso che tutti sostengono di aver pescato, c'è -e lo dico da animale notturno- una delle più belle pagine sulla notte che abbia mai letto:

Eppure sembra che la notte porti conforto e forza. Al suo cospetto, le nostre piccole contrarietà svaniscono come se si vergognassero di esistere. La giornata ci è parsa piena di ansie e di preoccupazioni, il nostro cuore è stato popolato da pensieri cattivi e amari, e abbiamo avuto l'impressione che il mondo fosse duro e ingiusto verso di noi. Poi, la notte, come una grande madre amorosa, ci pone con dolcezza la mano sulla fronte febbricitante, c'induce a volgere verso di lei il viso rigato di lacrime, e sorride...e benché non parli, sappiamo ciò che vorrebbe dirci: appoggiamo le gote scottanti e congestionate contro il suo seno, e ogni dolore si placa. Talvolta il nostro dolore è profondo, reale. Noi stiamo in silenzio al cospetto della notte, poiché non vi è linguaggio, al di fuori di quello delle lacrime, che possa esprimerlo.”

Tre uomini in barca è un libro che mi è parso tagliato addosso. A me, che in barca non so minimamente andare. Però, a ripensarci bene, questo blog è come il mio viaggio sul Tamigi. Ci ho raccontato le mie piccole catastrofi, gli amori e le amicizie finite male, le storie dei luoghi che amo. Jerome era innamorato del suo fiume come io lo sono della mia isola e del mio quartiere. Non ho mai inteso essere “umoristico” in questo; tutt'altro. Continuerò allora a raccontare senza preoccupare di essere questa o quella cosa, e lo dico in un giorno come tanti e, al tempo stesso, speciale. Ordinario e particolare come sono tutti i giorni.

Sono, è vero, fissato con le date e con le ricorrenze. Tre giorni fa questo blog ha compiuto due anni. Volevo scrivere qualcosa al riguardo, ma sono in uno di quei periodi in cui mi viene pochissimo in testa; quasi nulla. Non me ne curo. Questo non è un blog di canzoncine, di citazioni, di fotografie, di copiaincolla, di attualità o di cronaca: qui dentro c'è tutta roba mia. E basta. Bella o brutta che sia. Cupa o divertente. Reale, irreale o surreale. Per “festeggiare” i suoi due anni, mi sia permesso di fargli questo piccolo omaggio con tre giorni di ritardo. In una notte con le gambe indolenzite, perché trovo giusto andare a manifestare quando la polizia pesta e umilia dei ragazzini; in una notte in cui a quei tre uomini in barca se n'è aggiunto un quarto. Umoristicamente, col mio peso, forse creerei diverse difficoltà; inoltre sono sgraziato, impacciato, imbranato e nel fiume ci ho fatto il bagno una sola volta in vita mia, per tre minuti di numero. Eppure quel libriccino mi ha toccato il cuore, e non è mai cosa da poco quando un libro, une fois l'âge venue, si fa amare e mette nello scrigno dei tuoi luoghi anche un Tamigi mai visto e che non si vedrà forse mai.