martedì 28 aprile 2009

Piccolo questionario per C'helto-Fadani



Come tutti sanno, uno dei capisaldi della “cultura” della Lega Nord, dei leghisti e, più in generale, di tutti i “padani” che vanno alla ricerca frenetica e lyberatoria della loro identità e delle famose “radici” è la presupposta appartenenza storica ai popoli Celti. I poveri e innocenti celti, quelli veri, hanno avuto un destino decisamente amaro: un tempo effettivamente diffusi in buona parte del continente europeo, sono stati letteralmente spazzati via a partire dall'espansione dell'Impero Romano, riducendosi attualmente a pochi resti tra la Bretagna (quella francese), e le isole Britanniche. Ma non c'è nulla da fare: per leghisti, “padani”, destroni in genere tutti Tolkien e “signori degli anelli” e via discorrendo i Celti non si toccano. Anche il verde della loro simbologia è, in ultima analisi, da ricondurre al colore-totem delle “nazioni celtiche”.

Ancora più buffi sono questi signori quando si lanciano in disquisizioni “linguistiche”. Un tempo, quando frequentavo i newsgroup di linguistica, mi ci sono trovato parecchie volte a discutere; nella mia estrema ingenuità, credevo anche almeno porre davanti agli occhi di costoro alcuni argomenti linguistici del tutto inoppugnabili potesse servire a qualcosa. Non è bastato neppure ammettere onestamente che, in effetti, alcuni relitti sicuramente celtici (come i toponimi in -(a)te e -ago, ed anche il nome stesso di Milano) fanno parte dell'antico substrato sui dialetti settentrionali; un apporto, peraltro, di natura prettamente lessicale. Non hanno ottenuto alcun effetto i miei accorati appelli ad una distinzione fondamentale: se da un lato può essere vero, ad esempio, che un piemontese abbia lontani antenati celti (così come io posso averli etruschi), questo non significa che il piemontese sia una lingua celtica o il toscano un derivato dell'etrusco. Ovviamente non c'è stato verso: per alcune di queste persone, ebbene sì, il lombardo, il piemontese e persino il trentino, il veneto e tutti gli altri dialetti “galloitalici” sono lingue di “ceppo celtico”. Lo ha detto il Grande Capo, e il Grande Capo non si discute.

Però almeno una piccola soddisfazione me la sono presa. È infatti dal 6 aprile 2003, uno dei miei ultimi giorni di residenza in una lontana località del nord della Francia che un nome celtico ce lo aveva sul serio. che aspetto una risposta al seguente Piccolo Questionario per i “Celtopadani” pubblicato sul newsgroup it.cultura.linguistica. Non avendo ancora ricevuto una risposta che sia una, ed oramai dipartito dal mondo dei newsgroup (tranne uno, per questioni di fede calcistica), lo ripropongo su questo blog.

Quelle che seguono sono le principali caratteristiche delle lingue celtiche, ovverossia le caratteristiche comuni a tutte le autentiche lingue celtiche che non si riscontrano altrove (ovvero nelle lingue neolatine, germaniche, slave ecc.). Le eventuali risposte al questionario dovrebbero ovviamente consistere in esempi pratici di tali fenomeni che si riscontrino nei parlari piemontesi, lombardi, veneti, trentini ecc.

1. MUTAZIONE

Viene cosi' definito un complesso sistema di modificazioni di certe consonanti iniziali in collegamento con determinate altre parole (mutazione di contatto) oppure dal valore morfologico (mutazione grammaticale). In quest'ultimo caso, spesso, la mutazione marca il genere femminile oppure il plurale maschile animato. Cosi', ad esempio, in bretone:

  • /B/ iniziale muta in /V/ per il femminile:

    bihan “piccolo” → ur voger vihan “un piccolo muro” (“muro” è di genere femminile in bretone)

  • Così anche per il maschile plurale animato:

    ar baotred vihan “i bambini piccoli”

  • Sempre /B/ iniziale muta in /P/ dopo alcuni possessivi:

    ho pihan “il vostro piccolo”

e così via. Le consonanti “mutabili” sono /K/, /T/, /P/, /GW/ (labiovelare sonora), /D/, /B/, /M/; un altro caso tipico di mutazione si ha con l'articolo determinato davanti ai sostantivi femminili:

  • moger “muro” → ar voger “il muro”

  • karantez “amore” → ar c'harantez “l'amore”

  • tud “gente” → an dud “la gente” ; ma zud “la mia gente”

  • bugale “bambini” → ar vugale “i bambini”; ho pugale “i vostri bambini”.

Analoghe serie di mutazioni si ritrovano in gallese, cornico, mannese (Manx), gaelico irlandese e gaelico scozzese; in pratica, in tutte le lingue celtiche superstiti. Seguendo tale principio inderogabile delle lingue celtiche, la comune parola veneziana putèo “ragazzino, bambino” dovrebbe così comportarsi:

  • el butèo (articolo determinato singolare)

  • i phutèi (articolo determinato plurale)

  • el me vutèo (possessivo 1a persona singolare)

Oppure ancora, la Castagnata Padana del manifesto nella foto dovrebbe essere una c'hastagnata fadana; e così via. Però non mi risulta (mi risulta invece che "Halloween" si scriva con due "e", e persino con l'apostrofo: Hallowe'en; però i Good Old Boys sono imperdibili).


2. STRUTTURA “VSO” DELLA FRASE PRINCIPALE

Propria più particolarmente del gruppo celtico insulare (gaelico e mannese), la si ritrova comunque, seppur con delle sfumature, anche nel gruppo britannico (gallese, cornico, bretone). In pratica:

La struttura tipica della frase principale affermativa consiste nel Verbo (V) in prima posizione, seguito dal Soggetto (S) e dall'Oggetto (O), o dal predicato, o dai vari complementi; da qui la misteriosa sigla “VSO”. Cosi' in gaelico irlandese:

  • thá an cú mór “il cane è grande”; alla lettera: “è – il cane – grande”

frase nettamente distinta da:

  • thá an cú mhór “è il grande cane” [si noti la mutazione: si legge “v”]

In gallese:

  • mae'r ty mawr “la casa è grande” (“è – la casa – grande”)

Secondo questo principio, una comune frase milanese come el gatt l'è mort dovrebbe esprimersi come l'è el gatt mort, che però vuol dire un'altra cosa; oppure, per fare un esempio più complesso, i cumpàign de la Ringhera han faa sü el so regiment (mi scuso con Ivan della Mea ma non mi vengono altre frasi in milanese...) dovrebbe essere:

  • han cumpàign de la Ringhera so rhegiment sü faa

(Si notino altre “lievi” differenze di costruzione tra il milanese e le lingue celtiche, ed anche una necessaria mutazione in presenza del possessivo).


3. STATO COSTRUTTO

Sebbene, storicamente (come può essere ben osservato nell'irlandese antico) il rapporto di possesso/specificazione fosse affidato ad un caso genitivo ben distinto (ancora osservabile nei dialetti gaelici irlandesi moderni e nel gaelico scozzese, ma non nell'astigiano o nel bellunese), le lingue celtiche britanniche seguono regolarmente una costruzione particolare che, essendo del tutto simile a quella dell'arabo e dell'ebraico, possiamo chiamare "stato costrutto". In pratica, per esprimere tale rapporto:

  • la cosa posseduta precede il possessore e obbligatoriamente è priva di articolo;

  • il possessore può invece avere l'articolo (o il possessivo) e segue la cosa posseduta in semplice giustapposizione. Quindi, ad esempio, in bretone:

  • ti mamm “la casa di una madre” (“casa-madre”)

  • ti ar vamm “la casa della madre” (veneto: ciasa mi' vare, almeno così dovrebbe essere con l'onnipresente mutazione per mare).

  • ti ma mamm “la casa di mia madre”

Oppure, in gallese (lingua che ispirò un idioma tolkieniano; ma quello principale, il Quenya, sembra piuttosto essere una trasposizione del finlandese, per stessa ammissione del suo autore):

  • bwythyn y nain “la fattoria della madre” (“fattoria-la-madre”)

  • bwythyn fy nain “la fattoria di mia madre” (“fattoria-mia-madre”)

NB. Naturalmente anche in italiano e nei suoi dialetti è possibile usare la giustapposizione, per diversi motivi: "Via Garibaldi", "elenco spese", "sala professori" ecc.; ma non si tratta di un sistema regolare ed obbligatorio (si può sempre dire "elenco delle spese", "sala dei professori"). Nelle lingue celtiche, invece, non esiste altra possibilità.

Queste, in estrema sintesi, sono le caratteristiche salienti delle lingue celtiche. Bisognerebbe magari anche parlare delle tre coniugazioni differenti che uno stesso verbo bretone può assumere a seconda del contesto sintattico, dell'uso delle cosiddette "particelle relative" e di altre cosette non trascurabili; ovviamente, ora come allora, torno a ripetere che qualsiasi seria confutazione di quanto sopra, atta a dimostrare che anche in un solo sperduto dialetto della Val Camonica si abbia una struttura VSO, una serie regolare di mutazioni morfosintattiche e l'uso sistematico dello stato costrutto, mi farà -come si dice nei telefìrmi americani quando due si sposano, tacere per sempre.

Ma non credo.


giovedì 23 aprile 2009

Blogspost



Care frequentatrici, cari frequentatori dell'Asocial Network,

Scrivo questo post per darvi conto di una mia decisione, temporanea ma pregnante (non nel senso di "incinta", oh!), che sono finalmente riuscito a prendere dopo la quotidiana lettura delle informazioni. Oddio, "informazioni" forse è una parola grossa; però non si può avere tutto dalla vita.

Le notizie di oggi riportano infatti una maschia risoluzione del nostro illuminato, savio, radïoso (e, più che altro, televisionoso), geniale, irremovibile ma assai mobile primo ministro, Silvio Berlusconi.

Come tutti sanno, nei casi di emergenza, il nostro Silvio si sposta; e, quando si sposta, con le sue Mani e la sua Volontà i problemi hanno magicamente fine. C'è Napoli invasa da tonnellate di monnezza? Silvio va a Napoli, e la monnezza scompare magicamente. C'è la crisi economica mondiale? Silvio si muove, e la Fiat ingloba la Chrysler (che, d'ora in poi, verrà ridenominata nel più italico e pronunciabile Crislèri). C'è il terremoto? Silvio interviene, e non v'ha dubbio alcuno che, in breve tempo, ponti, strade, case (specialmente dello studente) e quant'altro si ricostruiranno da sole.

In questi ultimi tempi, Silvio è sempre all'Aquila. Il 25 aprile lo celebrerà a Onna; è in Abruzzo un giorno sì e un giorno sì. L'ultima sua decisione è quella di spostare all'Aquila anche la prossima riunione del G-Qualcosa (oramai ho perso il conto: non si sa mai se sono 8, 20, 16, 48...), programmata per luglio nell'isola sarda della Maddalena. Non importa se i lavori alla Maddalena erano oramai quasi a termine: Silvio ha detto che sarà all'Aquila, e all'Aquila sarà. "I no-global non avranno il coraggio di venire in una città disastrata", ha dichiarato Silvio; ma ben più problematica presenza si sta preparando.

Sobbalzando a tale notizia, infatti, sono qui a comunicare la mia decisione: poiché, oramai, chi non si sposta non è più nessuno, e vincendo la mia attuale & consolidata tendenza all'Etica del Sedentario, ho risolto di spostare questo blog all'Aquila.

Certo, è una decisione che presenterà, seppur temporaneamente, non pochi problemi logistici; prima di tutto le connessioni telematiche, per le quali però mi sto attrezzando facendo confezionare dall'elettricista di via Torcicoda un cavo usb di 45 chilometri da attaccare al modem di un mio conoscente a Teramo. Per l'alloggio non vi saranno problemi: non volendo gravare sulla già precaria situazione della zona, ma fiducioso che i pochi giorni Silvio avrà trovato una confortevole casetta anche per me, ovviamente costruita con tutti i più moderni criteri antisismici, mi installerò provvisoriamente nella "Polverosa", vale a dire la mia automobile Citroën Saxo del '98 grigia smetallizzata, 115.000 km portati con disinvoltura, mezzo tachimetro che non fa, uno sportello posteriore che non si apre e strati di polvere artisticamente distribuiti in tutto l'abitacolo (da cui il nome, che vorrebbe peraltro echeggiare quello della Poderosa, la moto del Che Guevara e del suo amico Granado).

Risolti questi problemi, finalmente anch'io potrò uniformarmi al trend attuale: oramai, chi non si sposta all'Aquila non è più nessuno. In Sudafrica stanno tremando per l'oramai certo spostamento all'Aquila dei mondiali di calcio del 2010 (finale prevista all'edificando megastadio Rosa Berlusconi, 140.000 posti a sedere, dotato del sistema antisismico RBAS, Rubber Band Around the Stadium, consistente in un elasticone di 2 km avvolto tre volte attorno all'intera struttura). Sempre in ambito calcistico, dopo la clamorosa contestazione alla squadra e all'allenatore Ranieri, la dirigenza della Juventus ha deciso di abbandonare l'ingrata Torino e di stabilirsi all'Aquila; d'ora in poi, quindi, si parlerà di Juventus L'Aquila e il sentito derby non sarà più col Torino, ma con il Pescara.

È ovviamente in avanzato stato di attuazione lo spostamento tout court all'Aquila della capitale d'Italia: per tacitare Gianni Alemanno, Silvio gli ha solennemente promesso d'interessarsi per lo spostamento a Roma dell'intera Wall Street (che sarà, naturalmente, ribattezzata Via der Muro). Sembrà però che gli abitanti della vera via del Muro, che a Roma sicuramente c'è, abbiano protestato vivacemente; e che Silvio, che sa tastare la volontà del popolo, abbia assicurato costoro che la loro via sarà ribattezzata Via Guido Bertolaso.

Stanti così le cose, come potevo pensare ancora di rimanermene chiuso nel mio parallelepipedo ipogeo dell'Isolotto? Almeno fin quando questo quartiere fiorentino non subirà una catastrofe, non conterà assolutamente niente. Qualche maligno dice che la mia presenza sarebbe già una catastrofe sufficiente per spostarvi almeno la sede nazionale del Partito Democratico, ma si tratta di voci false e tendenziose.

Dunque, care amiche, cari amici, mi preparo a questa nuova avventura. Vettovaglie pronte, scorta di sambuca e di Diana Blé, settimane enigmistiche, di come vada a finire Lost non me ne importa un cazzo, e tutto il resto. Potrò così, magari, documentare in real time se all'Aquila si è finalmente spostato anche un ospedale da campo, potrò dedicarmi alla raccolta ed alla catalogazione dei pupazzi di pelouche ritrovati tra le macerie, potrò esaurire da solo le magre scorte alimentari della città e, più che altro, se il Destino me lo concederà, potrò incontrare Lui.

Magari in luglio, con la segretissima ma fattiva speranza che una piccola, ben assestata e circoscrittissima scossa di terremoto intervenga sul luogo scelto per la riunione del G-Qualcosa, seppellendone -ovviamente- solo i partecipanti. In tal caso, sarò il primo ad accorrere sul luogo, profondendo ogni sforzo per ritrovare la bambolina di pelouche della Carfagna in topless. Sembra che Silvio se la porti sempre dietro. Che tenero!


lunedì 20 aprile 2009

Il Patio delle Camelie



Da un po' di tempo ho imparato ad essere più attento, quando mi metto alla tastiera con l'intenzione di raccontare qualcosa. Di solito, qualunque fosse la consistenza di quel che narravo (nel senso che ha nella lingua sarda: narrare è il verbo comune per “dire”), mi piaceva essere molto preciso: luoghi e nomi. Poi mi sono accorto che il mio modo di elaborare le cose che vedo è soltanto mio; e, allora, meglio essere tanticchia più prudente. Ad esempio per questa storia; vi avevo accennato qualche giorno fa. Avevo cominciato a scriverla, ma c'era qualcosa che non andava. La stavo scrivendo, a partire dal titolo, coi suoi veri nomi; meglio di no. Meglio stendervi un paio di veli sopra. Meglio ricoprire tutto quanto. Anche perché non è poi tutto 'sto gran ché di storia, come del resto tutte le altre. Io non vivo e non ho mai vissuto avventure mirabolanti; forse una sola, ma non amo affatto parlarne.

Restando quindi estremamente sul vago, dirò che, per certi miei motivi, qualche notte fa mi sono trovato in un posto un po' bizzarro. Bizzarro forse per molte persone, che la notte sono (giustamente) abituate a dormire; questa, per me, è invece un'abitudine che sposto quasi sempre alla mattina, o al pomeriggio. La notte, generalmente, sto sveglio. In casa o fuori. Quando sono fuori, mi capita spesso d'entrare in altre case dove non sono mai stato e dove non starò mai più; una fugace apparizione, in situazioni quasi sempre poco piacevoli, faticose, a volte persino comunemente dure, banalmente pericolose. La notte, quando dormite, c'è un'altra città; ma non ha nulla di straordinario. A nessuno prenderebbe mai la voglia di farci un film o un fumetto. C'è solo il buio sopra ogni cosa.

Da un suo capo all'altro, a volte addentrandomi in improbabili campagne, la percorro. Coi capisaldi del conforto per una birra, un panino, un caffè: tutta la mappa dei bar aperti 24 ore, dei porchettari, delle pasticcerie che aprono alle cinque -che di questa stagione comincia a essere l'alba. E càpita davvero di doverla girare tutta la santa notte, la città: in due, fumando anche se non si potrebbe, ragionando del più e del meno, in compagnia di qualcuno che vedi solo in quell'occasione. Raccontandone, sento il bisogno di farlo senza esagerare niente, senza indulgere alla minima nota di “autoeroismo”: si tratta semplicemente di un servizio, anche se succede di mettere un granello per salvare una vita. Succede poi di vedere anche cose buffe e divertenti. Succede di vedere diciotto minuti d'una disperazione. Succede di rischiare di pigliarti una piattata in testa, durante una lite familiare. Succede di osservare cosa può fare un coltello. E di dover stendere un lenzuolo sopra qualcuno che non se ne accorge più. Finita la notte, si torna a casa; chi va a lavorare, chi si mette a letto, chi fa altre cose. Non se ne parla più. Ne parlano i giornali nei casi che interessano la cronaca, ma a me la cronaca interessa poco; l'unica volta che sono finito, involontariamente, su un giornale con una foto avevo un'espressione a metà fra l'imbecille e il cadavere, e di cadaveri ne avevo visti cinque. Due di loro avevano un'espressione stupita, incredula.

Già, ma dovevo raccontare la storia. A pensarci bene, è presto detto. Verso le tre della notte mi sono ritrovato in uno spazio dove sembrava non ci fosse più il tempo; o, perlomeno, è l'impressione che mi stava in quel momento facendo. Non che non ci fossi mai stato, tutt'altro; sovente, addirittura, in medesime notti. Anche quando bisognava farci aprire il cancello dalla guardia armata, perché là dentro c'erano i matti (che, peraltro, scappavano lo stesso). Anche quando, a volte, si sentivano delle urla di quelle che non si scordano tanto facilmente; urla in una notte normalissima. Ora, invece, il cancello è sempre aperto. Non c'è più nemmeno un custode. I luoghi delle urla sono diventati decine d'altre cose: il bar, il teatrino dei musicanti, la villa occupata dagli anarchici, il percorso di educazione stradale, l'unità sanitaria, i centri diurni. E' un luogo vastissimo, con viali e vialetti senza nome pur avendo le dimensioni di un paese; in uno di questi vialetti c'è una vecchia costruzione, mezza diroccata, con le vestigia di un mural.

Ricorda, questo mural, di un episodio vecchio e dimenticato; di un ragazzo ammazzato mentre manifestava contro la repressione; di un grande poeta che arrivò, una volta, in questa città, a parlare di maestà del popolo che regnava. Il poeta era morto da due anni, allora; si sta scrostando tutto. Tra poco non ne rimarrà più niente, e nessuno ovviamente pensa più, ora, a preservarlo sia pure come semplice memoria. Può darsi che, semplicemente, la costruzione che gli fa da supporto crolli da un giorno all'altro: e così, via tutto quanto. Via il ragazzo morto. Via il grande poeta. Via pure la maestà del popolo, ché quella, del resto, è andata via oramai da un bel pezzo senza che ci sia stato bisogno di far crollare quella povera stamberga. Di fronte, un'altra costruzione. Senza nessun pericolo di crollo, almeno sembra e si spera. Notte umida, freddina dopo un'illusione d'inizio estate. Ha un nome, questa costruzione.

Si chiama, anzi non si chiama affatto, Il Patio delle Camelie. È un bellissimo nome, senz'altro; solo che non c'è nessun patio, e non si vede alcuna camelia. Magari c'è anche; ma è buio pesto. È appena cominciata l'ora e mezzo della notte più fonda, quella che va dalle tre alle quattro e mezza; l'ora del deserto, come la chiamo sempre. Camelie o non camelie, patio o non patio, noialtri che si gira di notte in quegli strani recessi lo sappiamo benissimo cosa sia e chi ci stia dentro; bisogna aspettare che qualcuno venga a aprire una portaccia vetrata di metallo, ché, di certo, quel posto non lo si poteva chiamare L'Uscio a Vetri. C'è il tempo per dare un'occhiata al mural che si disfa, illuminato dalle fotocellule ausiliari sulla Barra Federal (si chiama così ma non vi dico che cos'è). Lo sappiamo benissimo, sì, cos'è. È la storia di quel posto. Ci stanno i matti. Prima stavano ovunque, lì dentro; ora, alcuni di quelli che non hanno più nemmeno una porcilaia dove stare, stanno nel Patio delle Camelie; come R.V. (iniziali false), ad esempio, che aveva deciso di far ammattire tutti quanti, compreso il qui presente. Quando un matto decide di far ammattire, ha una competenza estrema; siccome è matto, si fa meravigliosamente e straordinariamente beffa d'ogni logica, e agli ammattendi chiamati a prestargli assistenza non resta che armarsi di pazienza.

Che cosa avesse lamentato R.V. non ha importanza dirlo; ma, addirittura, era arrivata una specie di mezz'esercito. Appena arrivata l'armata, era guarito. Non voleva più l'esercito. Voleva tre cose: un bicchiere d'acqua, una sigaretta e che non gli mettessero addosso tutta una serie di apparecchi che fanno bip bip. Per l'ultima di queste cose aveva degli argomenti convincenti: si trattava infatti d'un nòdo d'un metro e ottantacinque per una novantina di chili; in più, matto. Hai voglia di ragionarci tu con uno del genere? Vieni, vieni. Anche se magari sai le tènniche. Anche se hai una preparazione specifica. In quel caso, sei molto più matto di lui. Io non lo sono; e allora sono rimasto bello fermo e zitto. Pure con una leggerissima strizza addosso. Ma non è questa la storia. La storia è un'altra.

In quel posto là, anni e anni prima, avevo visto come si procedeva in questi casi. Una cosa che, tra l'altro, devo avere raccontato quando facevo ancora nomi e cognomi veri. Credo sia stata una delle esperienze più schifose della mia vita. Stavolta, invece, è successa una cosa assai differente. Proprio mentre, con somma prudenza e l'intenzione di darmela coraggiosamente a gambe al minimo accenno di trattamento, ché non sono certo nato per fare l'eroe e che comunque ne avrei toccate quante un ciuco, mi ero messo a vagare un po' per il Patio delle Camelie, fuori dalla stanza dove R.V (iniziali sempre più false) faceva il diavolo a quattro. Edificio di rara bruttezza, quel “Patio”. Corridoi spogli pitturati d'un begìno squallido. Un tranquillo, silenzioso squallore. Ma anche, cosa del tutto singolare, un pochino d'ordine e i bagni pulitissimi; ché me li ricordavo i bagni di prima, da quelle parti, con un puzzo di piscio atroce (come dovunque) e la merda incrostata sui muri. Mi ricordavo le monture degli addetti ai lavori, più zozze dei muri incrostati di merda. Mi ricordavo tutto e forse anche troppo. E' comparso un addetto, appunto; o forse c'era già e non me ne ero accorto. Giovane. Coi vestiti in ordine, mentre l'esercito si addannava col matto che aveva cominciato persino a prenderci gusto; e che gli vuoi dire. Sarà stato il suo divertimento. In quei posti non ci si diverte tanto, per non dire punto.

Con la massima calma ha fatto tutto quello che non si doveva fare. C'era il cartellone “VIETATO FUMARE” e lui, carezzando il testone rasato di R.V. (iniziali falsissime), ha cacciato fuori dal taschino una MS e gliela ha offerta. E pure accesa. O andate a dirlo a Sirchia! E poi, puttana dell'eva, mica aveva chiesto un bicchiere di Dom Pérignon; voleva un bicchier d'acqua. E così, il tizio giovane è andato alla cannella del bagno e, pensate un po', ha riempito un bel bicchierone d'acqua e glielo ha portato. E R.V. (delle iniziali oramai non dico più niente) se l'è bevuto e ha tirato pure un rutto. Noialtri, quelli dell'esercito, tutti quanti zitti come mosche. Siccome siamo tanto bravi, non c'era venuto a mente di fare così; e mal ce n'era incolto, perché s'era lì da un'ora a fare i bischeri, chi a berciare, chi a girare per i corridoi. È arrivato un ragazzo, ché ragazzi come lui prima non ce n'erano e c'erano invece avanzi di galera che facevano gli ex-pugili, e ha contravvenuto alle regole. Sigaretta e acqua. E carezze sul testone del matto. Ci si è messo anche a scherzare, mentre, buono buono, finalmente s'è fatto sistemare gli apparecchi che hanno rivelato che era più sano di me, di te e anche di tua nonna in carriola, caro il mio lettore, cara la mia lettrice. E alla fine, per la gioia di tutti, s'è addormentato. Non proprio come un bambino, ché russava come una sega circolare; ma su questo fatto io devo ragionevolmente stare zitto. Ho costretto una giovane cittadina della Confederazione Elvetica a dormire coi tappi nelle orecchie per tre anni; e temo, se mai rimetterò piede nella terra di Guglielmo Tell, di essere additato al pubblico disprezzo per non dire messo alla gogna.

Insomma, tutti felici e contenti? Una sega. Quando il tizio giovane che contravviene alle regole, e un suo collega, hanno richiuso la porta del Patio delle Camelie, quando metà dell'esercito se n'è andata a correre altrove, quando l'ora del deserto si stava avvicinando alla fine, mi son venuti dei pensieri un po' confusi; e siccome sono confusi, non li dirò. Dovevano avere a che fare, però, col fatto della porta chiusa; e con l'immaginarmici io, in quella stanza, a chiedere un bicchiere d'acqua e una sigaretta, solo come un cane. Oppure, caro lettore, diletta lettrice, prova almeno per mezza volta a immaginartici tu, così per fare; o anche no, va da sé. Sia mai. Non darmi retta e vivi felice, magari senza giocherellare alla distruzione e senza lamentarti eccessivamente del mondo di merda.

Per quel che mi riguarda, prima di riavviarmi, ho dato un'ultima occhiata al mural là fuori. Mi sentivo, al cospetto di quei gesti semplicissimi d'uno sconosciuto, un mediocre circondato da me stesso. Accettando questa mia condizione, e prendendone pienamente atto, mi è caduto l'occhio sulla scritta della “maestà del popolo che regna”; e avevo appena visto regnare la maestà d'un ragazzo qualsiasi, che faceva il suo lavoro per mille euro al mese, se li piglia. Ho rimesso in moto, ho spento le fotocellule e il buio ha inghiottito ogni cosa. Un buio al quale vorrei offrire una specie di fiore; magari, che so, una camelia.

domenica 19 aprile 2009

Sindaci e fotografi


Stamani, sulla Repubblica online, c'è una notizia per la quale vorrei riuscire a trovare un aggettivo esatto. Dico “vorrei”, perché davvero non mi riesce; quello che forse, nella mia testa, più si avvicina all'entità dell'evento è miracolosa. Una notizia miracolosa, ecco; è infatti una sorta di miracolo che, a capo delle nostre città, abbiamo persone dotate di una fronte talmente spaziosa. Del resto, siamo o non siamo la culla del Rinascimento?

La notizia, in sintesi, è questa: Stufo che la sua città, Venezia, sia dipinta come sporca, indecorosa, degradata eccetera, il sindaco, vale a dire il filosofo Massimo Cacciari, ha deciso di passare al contrattacco. Approfittando della Pasquetta, come un turista qualsiasi si è recato in due “città d'arte” rivali, Firenze e Roma, armato di macchina fotografica; e ha cominciato a scattare foto su foto per dimostrare che, al confronto con Venezia, le altre due città sono ben più sporche, indecorose e degradate. Tornato in laguna, il sindaco-filosofo-fotografo ha convocato una conferenza stampa sul decoro per esporre le sue lamentele, promettendo addirittura di inserire le sue foto sul sito del Comune.

Naturalmente, il metro di giudizio cacciariano per misurare il grado sporcizia, indecorosità e degrado è quello in voga attualmente: “Il dilagare di vù cumprà, sudiciume e disservizi vari provocati dalla pressione dei turisti non sono una prerogativa lagunare. [...] Non è vero che solo a Venezia c'è degrado, anzi le due città sono sicuramente più sporche della nostra, anche lì ci sono venditori abusivi e maleducati che buttano immondizia ovunque.”

Apriti cielo: le reazioni da Firenze e Roma non si sono fatte attendere. Dal capoluogo toscano, Graziano Cioni, inventore di fantasiosi decreti anti-lavavetri e regolamenti di “civile convivenza” poi inciampato in certe questioncelle di malaffari più o meno edilizi, risponde piccato a Cacciari: "Di certo lì ho visto molti più ambulanti abusivi che a Firenze, anzi i senegalesi si davano il cambio con i vigili, non c'è proprio bisogno di fare paragoni.” Da Roma, invece, Alemanno fa il propositivo: “Anziché farci le pulci a vicenda, non sarebbe più utile studiare insieme delle best practice (!!!) per migliorare i servizi delle nostre città?”

Insomma, come si può osservare, il degrado delle “città d'arte” è ricondotto dai loro “primi cittadini” sempre e comunque ad una sola causa: i venditori abusivi. Che sono invariabilmente sporchi e maleducati. A questo punto manca soltanto aggiungere che sono negri e si ha l'esatta misura di tutta la questione. Ripensando al fatto che lo smunto, sofferto e concupito Cacciari sarebbe un filosofo, m'immagino, che so io, Platone che, munito di arnesi da disegno, si reca a Sparta per dimostrare che quella città è ben più degradata di Atene (tutta colpa di quei maledetti e sporchi iloti!), oppure Kant che da Königsberg va a Berlino per documentare la mancanza di decoro di quella città, dovuta alla massiccia presenza di bavaresi, renani, vestfali e rozzi villici dello Schleswig-Holstein.

A questo punto, però, vorrei anch'io fare una piccola proposta. La faccio ai venditori abusivi (definiti perlopiù dai sindaci con la sprezzante espressione di vu' cumprà, quando è probabile che diversi di loro siano in possesso persino di lauree in filosofia). Si muniscano a loro volta di macchine fotografiche e girino per le “città d'arte” italiane fotografandone i sindaci, gli assessori e le giunte comunali. Fatto questo, documentino anche le loro eccelse opere & operazioni per renderle veramente più “vivibili”, le città. Documentino i prezzi raccapriccianti e indecorosi che, con il pieno avallo degli amministratori, gli spacciatori autorizzati di pizze a taglio, caffè schifosi, paccottiglia turistica e altra roba del genere propongono ai turisti di mezzo mondo. Fotografino e riferiscano. Poi prendano il tutto e lo spediscano ai giornali delle città senegalesi (le quali, con tutta probabilità, avranno sindaci e amministratori un po' meno imbecilli dei nostri) e del resto del mondo con un bel titolo: “Ecco, questi qui sono quelli che ci accusano del 'degrado' delle loro città.” Tutti, così, potranno trarne le adeguate conclusioni.

venerdì 17 aprile 2009

Ogni promessa è debito...


Qualche giorno fa avevo promesso, ma non mi ricordo più a chi né mi va di ricordarlo, di aggiornare la mia foto su questo blog. In effetti ve n'era urgente bisogno, per svariati motivi. Prima di tutto perché era oramai vecchia di quasi cinque anni, e, specialmente negli ultimi mesi, il mio aspetto esteriore è decisamente cambiato. Sono un po' dimagrito, sebbene rimanga un "peso massimo". Però non mi taglio più i capelli dallo scorso ottobre e oramai quasi più nemmeno la barba (a parte sul collo, ché mi dà noia). Mi sono tornati i riccioli (che, più correttamente, nel mio caso dovrebbero essere chiamati con l'intraducibile termine elbano/corso di cirnistri); insomma, il risultato è quello che si vede nella foto, che mi sono fatta da solo nel bagno di casa mia. Nei periodi di cambiamento "dentro" è bene, a volte, fargli corrispondere anche un po' di cambiamento "fuori".

Ora, naturalmente, so bene che il Venturi "new look" potrebbe deludere molti dei suoi innumerevoli
fans, che si contano a migliaia (ebbene sì: oramai ho deciso di sfruttare Lorenzo Flaherty e quel suo cazzo di capitano dei RIS, l'altro giorno ho detto di esserlo ad un'esterrefatta operatrice del 118/Firenze Soccorso); ma il superamento dell'esistente lo impone senz'altro. E poi, è o non è venerdì 17, oggi?...Sant'Incoerenzio da Valpolicella. Proprio nel giorno della mia più maestosa invettiva contro Facebook pubblico...la mia faccia. Ma, almeno, questo "book" è mio e basta. Così come la faccia e tutto il resto. Ma ora ne approfitto anche per un'altra cosa.

Do il benvenuto nei "links dell'asociale" ad una salma che mi è cara; una salma di tali dimensioni da poter essere definita un salmone (ah ah ah che battutona!): quella di Nicone Chillemi. Per un motivo o per un altro mi ero scordato di farlo prima (anche perché il blog chillemiano è, come dire, di "andamento lento"); e dire che, a quanto risulta da ShinyStat, dal suddetto blog proviene la maggior parte degli accessi da siti per l' Ἐκβλόγγηθι. Addirittura più di quelli da Google!

La soavità di Corkman




Avvertenza: questa è una cosa molto lunga e parla di cose probabilmente incomprensibili ai lettori fugaci o occasionali di questo blog. La ritengo un'avvertenza opportuna. Se però decidete comunque di leggerla, cliccate sul video col Canone di Pachelbel: è naturalmente un consiglio, non un obbligo.

Stamani mi sento soave. “Soave” è una parola che non solo non uso spesso, ma che mi accade raramente persino di pensare; però, come dire, stavolta non trovo davvero parola migliore per significare come sto.

Sarà forse perché sono tornato a casa mezzo sfatto dopo una nottata al 118 che chiamare da tregenda è poco; per la famosa legge del contrappasso, invece di sentirmi pesante, cupo, scuro, abbattuto e con la voglia soltanto di mettermi a dormire, mi sento leggero, luminoso, pimpante e sveglio. In una parola: soave. Magari non ne è neppure la definizione esatta, ma chi se ne importa: per me, stamani, tutto questo equivale alla soavità.

Ho aperto la porta di casa, posato lo zaino, bevuto un bicchierone di succo di frutta. Probabilissimo che interrompa questa cosa che sto scrivendo per farmi un caffeino. Che c'è di meglio d'un caffeino? Volevo raccontare d'una cosa che m'è successa proprio stanotte, e l'ho persino cominciata; ma non mi soddisfaceva. Pazienza; la scriverò un'altra volta.

Mi sono messo, allora, con un sorriso tranquillo, a leggere qua e là delle cose che m'interessano. Non sono molte, del resto; si contano sulle dita di una mano. Tra di esse, come saprà chi legge questo blog, c'è Minimi Termini, un altro blog. Scomparso qualche mese fa, e tornato da pochi giorni in forma “Reload”; un ritorno che, l'ho già detto e lo ribadisco con estremo piacere, mi rende felice.

Ma stamani, in questo mio stato d'animo soave, la sua lettura mi ha reso ancor più contento. Perché mi ha ulteriormente schiarito alcune cose in cui persistevano delle piccole zone d'ombra. Mi viene da pensare che la soavità non arrivi affatto a caso, ma al momento giusto e con un intento ben preciso.

Sotto gli articoli dell'autore del blog, sulla cui bellezza e qualità non intendo soffermarmi per non essere accusato di piaggeria a buon mercato, ci sono infatti i commenti. Sapete, i commenti, quella cosa che il qui presente ha eliminato da questo blog con una decisione soavemente irrevocabile; ma, naturalmente, è una decisione che riguarda esclusivamente me stesso.

Proprio scorrendo i commenti su un post di Minimi Termini Reload, stamani, la mia quota di soavità ha raggiunto livelli assolutamente impensati, mai conosciuti prima. Il post, nella fattispecie, è proprio il primo, quello in cui si annuncia il ritorno e che reca, curiosamente, lo stesso titolo di una mia vecchia cosa che parlava delle bislacche avventure d'un cantautore morto.

I commenti a quel post manifestano lo stesso piacere per il ritorno del blog, ed è una cosa che trovo molto bella. Ce ne sono poi un paio che, addirittura, mi riguardano in prima persona. Anzi: uno sicuramente mi riguarda, l'altro è invece di tenore più generale anche se, probabilmente, è quello che più mi ha chiarito le idee. Li ha scritti la stessa persona, e sono entrambi muniti di “faccine” :-)

Poiché questo è un post improntato alla più rigorosa soavità, dirò subito che quanto segue non è e non vuole essere assolutamente una “polemica” verso quella persona (che magari non lo leggerà neppure), bensì un ragionamento tra me e me. Però, appunto, per ragionarne meglio sarà opportuno quotare per intero quei due commenti. Cominciamo con il primo:

Ciao, ***, sei tornato. Tanto lo sapevo :-) Però, mi raccomando, non denunciare nessuno se ti apre una pagina facebbok [sic] a nome tuo! :-)

Questo primo commento :-))) è quello :-)))))) che mi riguarda personalmente :-))))))) [NB: nella mia soavità d'oggi mi è presa una strano accesso di “faccinite acuta”; chiedo perdono per questo bizzarro inconveniente :-)))))))))))))))))))]. Il riferimento è naturalmente all'episodio della falsa pagina Facebook a mio nome, per la quale sono arrivato a minacciare una denuncia alla Polizia Postale.

Ragionandone fra me, ripenso dapprima a come mi sono sentito quando ho scoperto quella cosa. Non ero da solo; altre persone hanno avuto modo di vedere quando ne sia rimasto in primis desolato, rattristato. L'incazzatura nera è venuta dopo. Nemmeno tanto per l'idiozia della cosa in sé, quanto nel vedere altre entità in effigie che mi cercavano, contente di trovarmi, ed alle quali non potevo minimamente rispondere (non avendo, ovviamente, accesso reale, fisico alla pagina: password eccetera).

Il fatto che io detesti Facebook qui significa poco, sebbene lo detesti sinceramente. In quella pagina vedevo foto di facce conosciute. Persino una che non mi aspettavo, una conoscenza molto lontana, quasi dimenticata; e dico “quasi” perché, per un caso fortuito, soltanto pochi giorni prima m'era capitato di nominarla. Un affioramento alla memoria. Granelli di passato. Remoto e prossimo. Il mio passato. Una delle cose che trovo più terrificanti di Facebook è proprio questa: voler trasformare il passato in presente, in modo del tutto artificiale, meccanico. Un “clic” innaturale. Ma c'è senz'altro di più: una pagina falsa, senza controllo da parte della persona che sembra averla aperta, riduce facce, storie e tutto il resto ad una farsa silenziosa. Il passato di una persona ridotto ad un volgare modo per metterla in ridicolo.

Da qui la mia reazione estrema. E voglio essere soavemente ma maledettamente sincero: sì, se quella pagina non fosse stata eliminata, ci sarei andato sul serio alla Polizia Postale. Anche se, magari, ora riesco a capire meglio gli scopi di chi l'ha fatto. Non soltanto mettermi in ridicolo ma, in un certo qual modo, cercare di “attirarmi”. Una specie di canto delle sirene. C'è la pagina falsa, e -ora che ci penso- persino smaccatamente falsa? Suvvia, prendi la cosa con ironia! E se non la prendi con ironia, sei permaloso! Piuttosto fattene una vera, dove sei te stesso!

Il problema è che non sono mai stato tanto me stesso in vita mia, quanto adesso che tutte queste interazioni in rete mi sono diventate estranee. Anche accettando cose spiacevoli. Trovo spiacevole aver desiderato di andare a denunciare qualcuno che, in fondo, è solo un soave imbecille; trovo orrendo ribadire che lo avrei fatto. Ma è la verità, e se per questa verità qualcuno mi troverà ancor più odioso, o stupido, o incoerente, o permaloso, o ridicolo, o meglio ancora buffone, oppure addirittura tutte queste cose assieme, pazienza.

Sono stati dei mesi in cui non ho mai detto tanta verità agli altri ed a me stesso: paradossalmente ma non troppo, sono stati proprio i mesi in cui, da un lato, mi sono allontanato dai paladini della verità; e, dall'altro, i mesi in cui mi sono dichiarato libero dalla verità a tutti i costi. Mi riuscirà magari, un giorno, riuscire finalmente a dirla sempre e comunque, la verità, anche se sgradevole, anche se a base di Polizia Postale; senza per questo perdere la mia fantasia, che considero il mio unico vero tesoro. Quel giorno, lo prometto, farò a modo mio. Niente facebbok. Piglierò il telefono. Anche a rischio d'essere seduta stante mandato in culo, ma lo piglierò. Anche a rischio di sentirmi dire che la cosa non ha nessun senso, ma lo piglierò. Il senso lo avrà comunque per me.

Ma, perdio, su questa cosa mi sono soffermato anche troppo. Passo quindi al secondo commento:

Comunque, ti aspetto su facebook, è solo una mailing list con qualche ammennicolo in più ;-)

Ecco, qui l'autore del commento ha colto veramente nel segno. Come definizione di Facebook non fa veramente una grinza; anche se, vedendo per la prima volta una pagina Facebook in occasione dell'episodio oramai più che sviscerato, l'ho trovata a dir poco allucinante. Non solo ammennicoli, ma soprattutto le facce. Facce di qui, facce di là, facce ovunque ridotte alle dimensioni di un'icona. Non più Piero, Paolo, Genoveffa o Adalgisa, ma simulacri. Niente che assomigliasse di più ad un cimitero. Facegrave. Così come cimiteri, del resto, sono le mailing list. O i newsgroup. O gli instant messengers. Delle prime due cose nominate ho fatto parte per anni. Le conosco bene. Una delle loro caratteristiche, infatti, è stata quella di trasformarsi invariabilmente in tombe. Tombe di amicizie. Tombe di amori. Tombe di ogni cosa. Fanno nascere cose che poi, in un modo o nell'altro, uccidono.

Ed è proprio da questo che mi sono voluto liberare. Certo, in ottemperanza alla verità, se non fossero intervenuti precisi episodi non lo avrei fatto. Sarei sempre lì a ragionare di niente su una mailing list. Forse sarei -ne guardi Iddio- persino su Facebook. I cimiteri piacciono. Ci si sta bene. Ci sono tanti amici. Ci si trova persino da trombare qua e là. Ciononostante, resti un morto, ed un morto prigioniero. Non ti riesce staccartene, da quel tuo bel sepolcro. Nella tomba sei finalmente qualcuno. Ci son gli altri morticini che ti stanno a sentire, che ti idolatrano, che ti mandano affanculo, che ti amano, che ti detestano, che rivoluzionano, che commentano; l'indifferenza è comunque bandita! Ci sono le espressioni tipiche, ci sono i codici, cla coazione a rispondere (che ti trasforma, ahò, ner coatto d'a'a risposta). E poi ci sono i morticini fuori di testa: se n'è mai visti tanti come in questi posti? E poi , facendo pure gli scandalizzati, ci se ne chiede il perché.

La risposta, finalmente, l'ho trovata. Dopo anni e anni ci sono arrivato. Perché questi posti, dai newsgroups a Facebook, dalle mailing list fino all'ultimo dei forum, non sono soltanto dei cimiteri: sono anche, per natura, dei manicomi. La legge Basaglia non li ha toccati. Logico che, oltre ad essere tombe, lo siano anche in modo folle. Una Narrenschiff carica di cadaveri; come tutte le “navi dei folli” (e come tutti i morti) può essere spesso divertente, può confondersi con la vita, può farti imparare tante cose, può metterti in contatto con belle storie, interessantissime salme, simpatici feretri , condividenti tabbùti: ma non ha nulla di reale. E se, giustamente, Facebook è soltanto "una mailing list con qualche ammennicolo in più", se ne deve concludere che è un cimitero e un manicomio con qualche gadget aggiuntivo. Qualche lumino in più. L'immaginetta, come sulla tomba. Si può "esprimere approvazione", come quando i dottori esaminavano il matto per vagliare i suoi progressi.

Ecco, su questa nave ho fatto un bel viaggio. Sicuramente. Poi è arrivata la tempesta e m'ha fatto cascare in mare. Ho fatto plonk; anzi, autoplonk. Ora come ora mi trovo a dire che è stata la mia salvezza. Una risciacquata più che salutare. C'è più realtà in una sana solitudine, che in un marasma di fuochi fatui che sembra brucino, ma che non sono veri (anche quando parlano di verità). Tanto, poi, quei fuochi fatui si dissolvono. Restano le persone, quelle vere, che, spenta la scatoletta delle meraviglie, ad un certo punto si ritrovano comunque sole, senza altra alternativa che riaccenderla e cliccare sulle facce, o scrivere parole su parole che se le porterà comunque via il vento anche se tutte belle archiviate su Google. Come queste, del resto. Palabras en el viento, tanto per citare un altro blog che mi piace. Solo che, ora, l'ho capito e ne ho piena coscienza; e il vento è molto, molto, molto soave. In qualsiasi sua forma, anche quella più violenta.



mercoledì 15 aprile 2009

The Eagle Earthquake Show


Ammetto di non essere, per mia precisa scelta, un televisionaro. Ad un certo punto della mia vita, la tv ha smesso semplicemente di interessarmi; ce l'ho in casa, ogni tanto la apro mentre mangio, guardo un film o una partita di pallone se c'è la Fiorentina, mi faccio due risate crassamente sbilenche con Voyager (il programma più comico in assoluto della tv mondiale), di tanto in tanto mi concedo i Simpson e qualche notte fa, verso le 3 e mezzo, ho beccato per caso la replica di un vecchio sceneggiato sulla vita di Dante Alighieri, interpretato da fior d'attori di teatro: Giorgio Albertazzi, Luigi Vannucchi, Tino Schirinzi, Ilaria Occhini...

Per il resto, non mi riesce attribuire alcuna valenza ai cosiddetti programmi di informazione né ad altro. Niente che mi spinga a sprecare un'ora del mio tempo per Lost o per il Dottor House; preferisco dedicarmi alla lettura di un fumetto. L'intrattenimento televisivo non mi intrattiene per niente, anche considerato che le mie forme di intrattenimento attengono assai più sovente alla ricerca di minuti dettagli nella realtà che mi circonda (la quale può limitarsi alla strada dove abito, e neanche tutta). I film che passano sul teleschermo sono al 99% visti e rivisti.

Fatte queste premesse, forse sembrerà bizzarro che mi occupi un pochino di tivvù; in effetti, non mi trovo perfettamente a mio agio. Anche perché me ne occupo senza aver minimamente visto il "programma" in oggetto, dato che non nutro eccessiva stima neppure per tale Santoro Michele, uno che svariati anni fa voleva servire il popolo e che, come accade sovente, ha finito per servire meravigliosamente il suo conticino in banca. Tiene, sembra, un programma intitolato Annozero, dove ci sono politicanti che berciano nel più puro stile italico, ospiti prestigiosi, giornalisti e giornalaj: tutto il consueto teatrino basato sull' "attualità". Pallone. Chi fa il tifo per Santoro, chi per Vespa, in un sistema del tutto autoreferenziale che dell'informazione ha solo il nome; e dire che saremmo in tempi di Internet, in cui, chi lo desidera, la propria informazione (o meglio, controinformazione) può costruirsela da solo in modo ragionevole e con uno sforzo solo un po' maggiore di quello necessario per pigiare il bottone di un telecomando.

Però, dall'insignificante e mefitico pianetino della televisione italiana giunge una notiziuola che fa comunque riflettere.

Ospite fisso di Annozero è il signor Senesi Vauro, da Pistoia, in arte semplicemente Vauro. Professione: vignettista satirico, forse il migliore di questo paese dove per "satirico" riesce a passare quell'ignobile servo del potere di Giorgio Forattini. In questi giorni in cui The Eagle Earthquake Show ha imperversato in tv e sui media in generale, trasformando come al solito una disgrazia nel miglior modo per fare audience e spettacolo di bassa lega, il signor Vauro ha presentato in onda una serie di sue vignette ispirate al terremoto abruzzese. Vignette di parte, naturalmente, come di parte sembra essere la trasmissione santoriana intera: in questo paese funziona così. La parte "santoriana", attualmente minoritaria secondo i canoni della democrazia rappresentativa, si ritrova confinata in alcuni fortini, la parte maggioritaria imperversa, e il pubblico rincoglionisce sempre di più, in mezzo a urla, litigate furibonde in diretta, lucie annunziate che se ne vanno, porte su porte e chi più ne ha, più ne metta.

Una di queste vignette "di parte" del Vauro, quella effigiata anche nel presente post, ha provocato gli sturbi dell'altra parte: secondo costoro, "offenderebbe i morti", sarebbe "sciacallaggio" e via discorrendo. E via reprimende e censure. Santoro che deve fare la "trasmissione riparatoria"; Vauro eliminato; scontri Santoro-Vespa; il regime a pieno regime.

Tronco qui questa banale descrizione della cosa, ché del resto tutti oramai la sanno. Non sto neppure a ricordare quanti e quali atti di sciacallaggio politico e mediatico siano avvenuti in questi giorni di spettacolino post-sismico: quintali, tonnellate, bizzeffe. Sciacallaggio pienamente trasversale: sul superportalone di Repubblica, lo stesso che proprio oggi tuona contro la censura a Vauro, da giorni sono presenti interessanti e fichissimi Earthquake Gadgets come i filmini di vari registi di grido a giro per le rovine dell'Aquila. Nonché, ovviamente, una massiccia dose di orsacchiotti di pelouche sinistrati, ça va de soi. Tutto fatto non per informare, ma per colpire il pubblico. E dire che, tra le varie foto pubblicate dai giornali, quella che più simboleggia non soltanto il terremoto, ma l'Italia intera, l'ho trovata quella in cui si vede un cesso pendere nel vuoto, aggrappato solo alla tubatura, in una casa sventrata. Questo siamo attualmente: un cacatoio che pende nel vuoto.

Censura. Già. Le vignette censurate. Perché in tutto questo, come dire, c'è sempre tutto il senso del ridicolo che avvolge oramai tutto quanto. Gli stessi che adesso tuonano contro la vignetta di Vauro e che lo "sospendono", sono quelli che non più di un paio d'anni fa inneggiavano alla "libertà di espressione" durante la vicenda delle vignette anti-islamiche dello Jyllandsposten. Sono gli stessi che se le riproducevano anche sulle magliette, quelle vignette, sbottonandosi la camicia in diretta. Sono gli stessi che dicevano "Siamo tutti danesi!", arrivando a riprodurre un gigantesco Dannebrog, la bandiera danese, al posto della prima e dell'ultima pagina. Gli stessi "paladini della libertà", che è sempre e soltanto la loro libertà: quella degli altri, e la sua espressione, non conta. Va semplicemente tolta di mezzo.

In mezzo a tutto questo, verrebbe da dire che i veri pupazzi tra le macerie siamo noi. Che all'Aquila ci sono, purtroppo, anche le macerie fisiche; ma che le macerie sono in realtà ovunque. Il terremoto diventa spot elettorale, belletto pseudoartistico, finta emozione in svendita presso la grande distribuzione mediatica, occasione di "scontri" tra false fazioni, un ignobile show che fa rimpiangere l'avanspettacolo, la misura dell'ipocrisia tacitata con una scatoletta di pelati e uno SMS da un euro.

*

Post Scriptum. Non appena terminato e messo in rete questo post, mi sono accorto che dello stesso argomento (e riproducendo la medesima vignetta di Vauro) ha parlato Minimi Termini Reload. Perché, in mezzo a tutto questo, bisogna pur sempre dar conto delle (scarse) buone notizie: "Minimi Termini" è tornato in rete, insomma. Per mia scelta, come si sa, poiché non accetto commenti su questo blog, non ne pubblico sui blog altrui; però il ritorno in rete di blog come "Minimi Termini" mi rende oltremodo felice.

lunedì 13 aprile 2009

Evoluzione & Aggiunte



Ho visto che il decerebrato autore/la decerebrata autrice della falsa pagina "Facebook" a mio nome (e a mia immagine) ha velocemente provveduto a cancellarla. E ora vorrei dirgli/le qualche altra cosina.

Questo blog asociale è in realtà quanto di più autenticamente sociale possa esistere; in quanto riporta un numero di telefono reale, esistente, attivo. Non basta? Va bene; appena terminata di scrivere questa cosa provvederò ad inserire sotto il titolo anche l'indirizzo di casa mia, sempre reale, esistente e con tanto di porta e campanello. Drin drin!

Hai qualcosa da dirmi? Vuoi "richiedere un'amicizia", come si dice nello stile facebucchiano? Desideri riprendere un contatto interrotto 35 anni fa perché ti avevo rubato la merendina oppure mi avevi ficcato mezza boccetta di Guttalax nella cocacola? Sono diventato il tuo idolo per qualche ragione che mi è ignota? Sono diventato il bersaglio del tuo odio più profondo per qualche ragione che mi è altrettanto ignota (oppure potrebbe essermi anche nota, ma in tal caso vaffanculo te, tu' ma' majala -ivi compreso se morta- e il tuo odio)? Sei una mia ex fidanzata che mi ha piantato per mettersi col figlio del vicesindaco? Vuoi richiedere un'inimicizia? Vuoi esprimere disapprovazione? Vuoi intavolare con me una pacata discussione sull'àstio, il rancóre o il livóre con sottili distinguo? Vuoi presentarti da me con tre scatole di praline belghe ed un mazzo di gerbere, oppure con una Smith & Wesson ed una bottiglia di tequila alla stricnina?

Bene, fallo pure! Basta che tu ti presenti, ma di persona. Niente clicchini e tastini. Niente IP. Niente "profili". Niente chat. Abiti lontanissimo, dall'altra parte del mondo? Cazzi tuoi, t'avevi a stà più vicino. Ti fa problemi spendere 3 euro per una telefonata? Esistono i servizi di chiamata con addebito al ricevente, morto di fame. Soprattutto, ti fa problemi trovarti davanti una persona in carne ed ossa, e non una fotina su una paginetta tutta bella colorata, dove delle vite umane sono ridotte a icone con un cursore sopra?

Di problemi & casini ne ho avuti tanti in vita mia. Ho commesso e continuo a commettere errori. Dico e faccio delle cose, accettandone le conseguenze. Ho sparato anche delle cazzate inenarrabili. Ma l'ho fatto sempre a mio nome. Non mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello di fingermi un'altra persona, e di ingannare altri; nemmeno per uno stupido gioco, nemmeno per una ripicca. Quindi, caro il mio ignoto o cara la mia ignota. se ci hai da esprimere qualsiasi cosa tu voglia nei miei confronti, vieni a farlo qui da me. Altrimenti ti riduci a un povero piccolo pusillanime telematico, a un trollino da mezzo soldo bucato. E alla prossima stronzata che fai non ti avverto nemmeno: in via della Casella 19 ci vado diritto. Ci metto dieci minuti a piedi, a andarci. Sono sempre, chissà perché, passato per un "pacioccone" o roba del genere, forse perché ho le "guanciotte"; ti dico che ora sulle guance ho una barba fitta fitta (dovrò aggiornare la foto, per farti vedere come sono in questo momento), che sono incazzato come una jena, che quando sono incazzato come una jena te le do io le guanciotte e il pacioccone, e che ti apro un culo come il traforo del Fréjus. Stai attento. Ti è andata anche bene perché ho scoperto 'sta cosa il giorno di Pasqua e che un certo posticino è chiuso fino a martedì; sennò c'ero già stato.

Quindi, a buon intenditore. Ne approfitto anche per dire a chiunque mi legga che se putacaso trovasse qualche altro "Riccardo Venturi" su Facebook, non si tratta di me. Spero di essere stato chiaro. Anche chi mi considera ancora amico e ha piacere di avere rapporti con me, usi il metodo di cui sopra. Telefono, autobus, macchina, treno, piedi, mongolfiera, astronave, bicicletta, risciò.

Infine. Questo blog non esiste per queste ignobili stronzate. Oggi mi è toccato sprecare due post per farvi fronte. La cosa, garantisco, non si ripeterà più.

Nella foto: la statua del beato Cottolengo a Bra. L'autore/autrice della prodezza facebucchiana farebbe meglio a sostarvi dinanzi, in compìto raccoglimento.



domenica 12 aprile 2009

Allo stronzo/a/i /e che mi ha/nno fatto una falsa pagina Facebook



Qualche schifoso e infame pezzo di merda, forse conoscendo la mia totale avversione nei confronti di quella emerita stronzata da cialtroni chiamata "Facebook", ha pensato bene di aprire una falsa pagina a mio nome, mettendoci la stessa mia foto che compare su questo blog, ma con una data di nascita inesatta e un indirizzo email fake.

A questo modo, naturalmente, l'inventore di questa bella pensata avrà pensato, nella sua infinita idiozia, di "sputtanarmi" o chissà cosa; tipo: "Avete visto? Il nemico di Facebook si è fatto la sua brava paginetta! Bella coerenza, ma del resto lo si sapeva, l'ABC della sinistra e pititì e patatà." Beh, comunque vada, questo povero deficiente (o poveri deficienti) si sbaglia/no, e di brutto.

Avendo avuto modo di vedere la falsa pagina, ho visto che diverse persone che conosco vi si sono iscritte. Questa cosa ovviamente non è rivolta a loro, che non ne hanno nessuna colpa (o almeno così spero). Mi spiace soltanto che queste persone si siano lasciate abbindolare; spero di risentirle per telefono o per altra via che non sia quella di quella ignobile puttanata di Facebook.

Ma poiché l'intento era probabilmente quello di dimostrare la mia "incoerenza", mi pregio di dire all'escogitatore di questa encomiabile trovata che stavolta gli/le darò piena soddisfazione, in quanto sarò incoerentissimo. Nel senso che, del tutto incoerentemente con quel che di solito penso, stavolta andrò a fare un bell'esposto all'Escopost per appropriazione indebita di identità. Avverto che si tratta di un preciso reato penale denominato per l'appunto "Usurpazione di identità". Martedì mattina, alla riapertura dei relativi uffici mi recherò alla Polizia Postale di Firenze, sita in via della Casella al n° 19; del tutto casualmente, si trova a non più di 400 metri da casa mia.

E giuro all'imbecille che ha inteso così divertirsi, che gli si sta preparando un pessimo quarto d'ora. Gli/le rimane qualche ora per provvedere a cancellare quella pagina, salvandosi così il culetto. Martedì mattina controllo se c'è ancora; se non c'è, bene; se c'è, mi faccio una bella passeggiatina dalle parti del Warner Village. E assicuro che sarà una passeggiatina del tutto umoristica.


venerdì 10 aprile 2009

Disegni


Verso le quattro e mezzo, le cinque, le cinque e mezzo di mattina, sento, con tocco gentile e strano, bussare alla porta. Sono le Storie; e io sarò morto quando avrò smesso di raccontarle. Anche se, putacaso, fossi ancora vivo. Entrano, si accomodano tranquille, mi aprono il frigorifero e si servono. In casa mia non c'è nessun problema, poi: si fuma a proprio piacimento. Le case che non puzzano di fumo sono case senza storie, sono case di televisioni che troneggiano, case d'inutili e lindi soprammobili, di famiglie inebetite. Arrivano nel mezzo, le Storie, delle mie curiali notti d'ingaglioffato in un quartiere di periferia; e con esse viaggio libero, navigando fino al porto dell'alba quando, da dominatrice, nel silenzio acuto entra la luce.

E le Storie vengono, in parte grande, dall'Isola. Per due motivi principali. Perché l'Isola è il mio luogo della memoria; e perché il più della mia gente, o di quel che ne rimane, viene di lì. Specialmente le donne. Le Storie sono donne. Sono nonne, zie, parenti anche lontane; sono vicine di casa, vecchie di passaggio, cugine di quando da ragazzi s'amava ragionar di sogni. Da parte di mio padre, ci sono invece sempre state poche storie. Mio nonno ne raccontava poche, e quella più grande che aveva se l'era seppellita per sempre dentro se stesso. Mio padre lavorava, chino sul suo tavolo da disegno tecnico, tra inchiostri, normografi e pennini. Faceva a mano, in venti giorni, quel che un plotter ora fa in due ore e mezzo; però io, che disegnare proprio non ho mai saputo, non guarderei mai affascinato un plotter. Mio padre, spesso, lo stavo a guardare sbalordito, chiedendomi come facesse, e perché a me non riuscisse. Disegnare. È stato anche stando a guardare mio padre che m'è nata la voglia di disegnare con le parole, per quanto mi fosse possibile.

Però ne raccontava sempre una, di Storia, mio padre. Periodicamente. Diversa da quelle delle donne dell'Elba, dove il sole a picco, la polvere di granito e il vino grosso fabbricano le mattane della fantasia e del rimbeccarsi su dettagli che dicono, a chi le ascolta, di stare al gioco e d'entrarci dentro, nelle Storie. Da bambino ho imparato a ascoltarle in questo modo; ché quelle donne sapevano raccontare proprio perché l'ascoltatore chiudesse gli occhi e non solo s'immaginasse, ma partecipasse. Perché avesse la libertà di cambiarle come e quando gli pareva.

Diversa, quella storia di mio padre. Diversa e semplicissima. Nessuna mattana, nessuna fantasia. Era la storia, sua propria, d'un ragazzino di tredici anni che, in una città lontana dal mare e da ogni isola, aveva finito la scuola elementare; che, allora, durava fino alla sesta. Se ne usciva a dodici o tredici anni, e le scuole medie erano già per i ricchi. Lui era figlio d'un ferroviere e d'una casalinga, con due sorelle maggiori che già portavano i soldi in casa, coi lavori manuali e donneschi. Ricamo a mano, rammendi, pulizie nelle case dei signori. Mio padre era del '24; l'anno è il 1937. In quell'anno, finite le scuole, e con il maestro che implorava i suoi genitori di fare un sacrificio e di mandarlo alle medie perché era intelligente e aveva gran predisposizione alla tecnica e al disegno, gli toccò invece d'andare a fare l'apprendista operaio. Rispose così mio nonno: “Qui se tutti vanno a scuola, chi ci va più a fa' l'operaio?”

Ché, essendo l'unico maschio tra i figli, uno stipendio d'operaio faceva comodo. Poco guadagnavano le sorelle coi tomboli, coi ricami e con i cenci da dare in terra, e guai se non si tirava a lucido da scivolare. Dopo la fine della scuola, a mio padre fu permessa una cosa bizzarra, come del tutto bizzarro era mio nonno: un'estate per la strada. Senza orari. Senza costrizioni. Dai primi di giugno fino al venti di settembre in punto. Gli brillavano gli occhi a mio padre, quando ricordava l'estate del '37; abitavano, allora, in via Taddeo Alderotti ch'era quasi campagna, verso Careggi. L'ospedale ancora non c'era; pochi passi in quel quartiere allora di periferia, e c'erano campi e colline. C'erano ragazzacci e ragazzine. A volte non tornava a casa manco di notte, tra le proteste di mia nonna; mio nonno diceva: “Avrà da patì' dopo”. Una volta un vigile urbano lo riportò a casa tenendolo per un orecchio, perché s'era messo a spaccare lampioni a sassate. Probabile, anche se non l'ha mai detto, che qualche bimbetta gliel'abbia fatta vedé' e magari pure toccà'. Le prime sigarette arrotolate; e con quell'estate di libertà totale, mio padre cessava d'essere un bambino e diventava un uomo, anche se forse non lo sapeva, anche se forse non gliene importava nulla. Il ventuno di settembre, alle sei di mattina, dovette presentarsi alla fabbrica dove mio nonno, con qualche sua conoscenza in ferrovia, gli aveva trovato un posto da apprendista: una fabbrica di chiavi.

Con la tuta da operaio cucitagli dalle sorelle. La gavetta col mangiare. Il basco messogli in testa da suo padre, ché voleva dire: tu sei un omo. Allora nessun omo usciva senza il copricapo. E furon le sei e mezzo di mattina, quando entrò un tizio in mezzo ai macchinari che mio padre guardava affascinato, appassionato com'era di qualsiasi cosa che fosse tecnica, ruote che giravano, meccanismi, marchingegni. Il tizio era il direttore del personale, ma si faceva chiamare “capoccia”. Girava con un'uniforme della Milizia fascista, di cui faceva parte, e teneva un frustino in mano. Chiese dov'erano gli apprendisti; assieme a mio padre ce n'erano altri cinque o sei.

Senza nemmeno dire un “buongiorno, ragazzi”, li prese con sé e li mise a delle macchine dove c'erano degli operai esperti, quelli che dovevano insegnare il mestiere ai nuovi entrati. Tredici anni, quattordici, quindici; bene farlo presente, e presente sul serio, a quelli che dicono che i “sindacati sono la rovina”. Come apprendista, mio padre prendeva un salario di centesimi cinquanta all'ora; la giornata di lavoro durava dalle sei di mattina fino alle sei di sera, con mezz'ora per mangiare, il divieto di parlare se non per fare domande sul lavoro, l'assenza di ogni assicurazione e guai a sgarrare perché il capoccia il frustino non lo teneva per figura. Lo adoperava.

Le chiavi sono quelle cose che servono per aprire e chiudere le porte. Proprio allora era stata importata da altri paesi la cosiddetta “serratura all'inglese”, quella che usiamo ancora oggi, con le chiavette zigrinate; i macchinari erano nuovi, gli operai specializzati ancora li sapevano usare male, ed erano pericolosi. Da rimetterci un dito o una mano. E, infatti, al quinto giorno di lavoro uno degli apprendisti che erano entrati con mio padre, ci rimise due dita. Gli apprendisti dovevano imparare alla svelta perché non erano lì per giocherellare: dovevano far fare soldi al sor padrone, iscritto al Partito Nazionale Fascista, con la villa a Settignano e l'automobile. Il capoccia passava ogni mezz'ora, a passo marziale, e controllava i ritmi di lavoro con un cronometro a cipolla. Se non si rispettavano i ritmi di lavoro previsti, al primo avvertimento erano urli e minacce; al secondo, due colpi di frustino sul culo; al terzo, il licenziamento in tronco. La fabbrica era stata messa apposta in un quartiere di comunisti; quello in cui era nata la prima società operaia della città, all'inizio del secolo; quello che, alla fine della guerra, gliela fece pagare salata al sor padrone. Al capoccia no, perché aveva pensato bene d'immolarsi per la Patria in Albania, o in Grecia, o chissà dove; al sor padrone, invece, lo rincorsero e lo bastonarono fitto in piazza Dalmazia, lasciandolo per terra con qualche ossicino da raccomodare. E gli andò pure dimolto bene, perché lo lasciarono vivo.

Quando mio padre raccontava del capoccia col frustino, lo vedevo a volte alzarsi in piedi e mimarne il passo; quando non aveva voglia d'alzarsi, mimava il passo con le dita. Anche a tavola, a volte, mentre si mangiava. Abituato a lavori di pazienza, certosini, era un tipo per natura ripetitivo; quella storia la finiva sempre con la frase più tipica, rivolta a me e mio fratello. “E vu' avete visto un bei' mondo”. Imparò a fare le chiavi. Due mesi dopo, a novembre, con un freddo da pelare nel capannone perché di riscaldamento non ce n'era, nel maneggiare roba d'acciaio gli presero i geloni alle mani e dovette restarsene a casa per qualche giorno; senza stipendio. Mica penserete che gliela dessero la paga, se era malato, e perdipiù se si era ammalato proprio grazie alle condizioni di lavoro (per un tredicenne): se stai a casa non pigli nulla. Gli operai ch'eran padri di famiglia andavano a lavorare anche malati, anche sputando sangue se necessario. Tornò dopo dieci giorni senza paga e lo rimisero alla macchina, col suo maestro; ma aveva ancora le mani non a posto, perché al terzo passaggio del capoccia gli toccò assaggiare il frustino sul culo. Tornò a casa e lo raccontò a mio nonno.

Il giorno dopo, alle sei di mattina, mio padre si presentò in fabbrica accompagnato da suo padre. Il quale aspettò il capoccia che arrivasse, tronfio, vestito da miliziano. Chiese di parlargli a quattr'occhi e i due s'appartarono. Mio padre dice di non aver mai saputo cosa si fossero detti; vide il capoccia tornare dentro senza salutare nessuno e con la divisa un po' in disordine, zoppicando leggermente. Mio nonno prese mio padre e se lo riportò a casa: “Babbo...ma devo anda' a lavorare!” “No, a lavorare qui 'un ci vai più. Vai a fa' qualcos'altro. Se trovo i soldi ti mando alle professionali”. Però gli ci vollero anni per trovarli, quei soldi; da mandare i treni fino a Ancona, a Roma, a Genova e a Milano s'era ritrovato a mandare quelli per Carmignano o per Bagni di Lucca. Stipendio dimezzato o quasi, sulle tratte locali; il capoccia era andato dal sor padrone, il sor padrone era andato da qualche altra parte, e il macchinista s'era ritrovato sui trenacci di campagna. Lui che sapeva mandare l'elettrotreno. Lui che era stato tra i primi a fare la Firenze-Bologna con la galleria degli Appennini, quella stessa galleria sotto la quale i nipotini del capoccia e del sor padrone avrebbero, qualche decennio dopo, messo le bombe sui treni. Quando c'era Lui i treni arrivavano in orario; quando non c'era più, i suoi seguaci i treni li facevano ritardare. A volte per sempre.

Bei' capo di laòro t'ha' fatto”, diceva mia nonna a mio nonno. “Se tu' avessi dato retta a'i' maestro e tu gli avessi fatto continuà' la scola!”. Mio nonno non diceva mai nulla; poi arrivò la guerra. Così come ora sta arrivando la luce del giorno. Le Storie salutano, gentilmente, e se ne vanno; stanotte avevano poca voglia di fantasia, e volevano forse saldare un debito. Finisce la notte, la città si sveglia e io vado a letto; ci son disegni di meraviglie, ci son disegni di macigni e tutti quanti bisogna disegnarli.

giovedì 9 aprile 2009

Sovversive ciabatte



Originariamente, si tratta di un piccolo commento ad una canzone postata su Canzoni contro la guerra. Ma, poiché il banale episodiuccio che vado a raccontare anche qui mi sembra indicativello di un certo climàttolo, lo riporto fedelmente. Nell'introduzione alla canzone di cui sopra, Alessandro, un collaboratore del sito, parla di Ian Tomlinson e di Giuseppe Turrisi. Ian Tomlinson è l'edicolante londinese ufficialmente "morto per infarto" durante il recente G-Qualcosa (non mi ricordo se erano otto o venti, tanto sempre di luridi stronzi si tratta), infarto -come dire- quantomeno "aiutato" dai poliziotti britannici; Giuseppe Turrisi è il clochard ammazzato a botte dalla "Polfer" alla stazione centrale di Milano. Senza ovviamente dimenticarci dello Spaccarotella che prende la mira a due mani.

Un signore di mezza età, già. Aveva 47 anni, Ian Tomlinson, edicolante; praticamente la mia età. Un anno in più. Indi per cui, anche io sono un signore di mezza età, oramai. Il quale, un giorno, se non è a una manifestazione (quelle cose per cui, poi, arriva sempre qualcuno che dice: "Ma potevano restarsene a casa"...), può anche andarsene tranquillo per i fatti suoi. Come stanotte, verso le 3 di una delle mie notti normali, senza sonno. Ho finito le sigarette e sono uscito per andare a comprarmele alla macchinetta all'angolo. Ma siccome mi faceva fatica mettermi le scarpe e la macchinetta dista non più di 50 metri, ci sono andato in ciabatte, con le crocs blé. Non c'era nessuno.

crocs
Tranne una pattuglia di solerti tutoridellòddine carrabbinèra, la quale pattugliava er territorio perché la SICUREZZA ora è la dea assoluta. I cittadini, alle 3 di notte, dormono tranquilli nelle loro case; sempre che, ovviamente, qualche moderna casa costruita in modo un po' fantasioso non crolli loro sulla testa. I cittadini non vanno, alle 3 di notte, a comprare le sigarette in ciabatte. Tanto è bastato per un'inchiodata, e per un controllo. E menomale che avevo i documenti dietro. Mettiamo caso che non li avessi, che quelli fossero stati in vena di "divertirsi", che mi fossero girate le palle perché oramai la SICUREZZA impone di uscire rigorosamente con le scarpe; ed ecco il cocktail che ne viene fuori. La "sicurezza" è soltanto il controllo totale sul cittadino, sulla persona. La "sicurezza" è il nazismo, è la sua forma aggiornata.

Così non si può voler tornare a casa come Ian Tomlinson (il quale, sembra, non era affatto lì per curiosare ma per tornare a casa, visto che abitava a due passi e i poliziotti inglesi non volevano lasciarlo passare); non si può puzzare alla stazione; e non si può neanche andare a comprare le sigarette in ciabatte. E me l'hanno pure chiesta, la ragione perché Venturi Riccardo, nato a Firenze il 25/09/1963 e professione interprete e traduttore (come risulta dai documenti), a quell'ora tipicamente da sovversivi fosse uscito in ciabatte. E mi è toccato pure risponder loro: "Perché mi faceva fatica mettermi le scarpe". Guardavano. Forse impressionati dall'enormità delle mie crocs, che ci si potrebbe fare lo sci d'acqua. Stavo dicendo loro la verità, ma in cuor mio c'era una vocina incollerita che mi diceva: "Digli che sono crocs-bomba di Al Qaeda! Digli che sono crocs bulgare con il puntale avvelenato! Levatene una e comincia a tirargliela sul muso a 'sti cialtroni!"; per fortuna sono rimasto fermo e "compos mei", nonostante le tre sambuche che mi ero bevuto. "Lei dove àbbbita? Ce li ha i dogumendi?", mi ha chiesto uno dei due, proprio con quell'accento, non è uno stereotipo; e, mentre tiravo fuori il portafoglio dalla giacca (ero in giacca e ciabatte), la solita vocina di prima: "Dove vuole che àbbiti? All'Aquila! Sono scappato dal terremoto in giacca e crocs, cosa crede?" Ma ho spento la vocina, hanno controllato i dogumendi e finalmente si sono levati dai coglioni per andare a proteggere il territorio da pericolosissimi sconosciuti che, la notte, si aggirano in ciabatte.

Così, la prossima volta che finirò le sigarette alle 3 di notte, dovrei mettermi le scarpe e vincere la mia naturale e salvifica pigrizia. Dovrei; ma col cazzo. Vincere la pigrizia per vincerla, invece di mettermi le scarpe, mi levo i calzini. E ci vado scalzo. Magari coi pantaloni arrotolati fino al ginocchio. A costo anche di andarci in mutande, non l'avranno vinta. Il fascismo securitario, ora come ora, credo che bisogni combatterlo anche così.


martedì 7 aprile 2009

Facce



C'è bisogno del terremoto, perché questo paese -o comunque lo si voglia definire- ritrovi e riveda le sue facce. Quelle non mediate da niente, perché il dolore spiana quasi più del terremoto. Quelle nella polvere di un'alba livida, quelle dei vaganti nel vuoto, quelle del risveglio che sembrava un incubo, e che invece era ben peggiore. E tornano le facce antiche d'un paese antico, quello che si credeva sepolto nell'ignava pancia piena; persino la faccia di Bruno Vespa, nella sua città devastata, riesce ad assumere un barlume di umanità. La riperde immediatamente, non appena varcata la Porta a Porta.

Ci sono le facce degli abruzzesi in questo terremoto che, per la prima volta, propone morti venuti da lontano. In Friuli erano tutti friulani. In Irpinia erano tutti irpini. In Abruzzo ci sono bambine russe, studenti greci, badanti albanesi, lavoratori macedoni, immigrati magrebini e rumeni. C'è persino il ragazzo scappato da Gaza, la cui storia viene raccontata contemporaneamente all'offerta di fraterno aiuto alle popolazioni colpite da parte di Israele. Mi sono immaginato la scena. Il ragazzo di Gaza sepolto nelle macerie abruzzesi che viene magari salvato da una squadra di soccorso israeliana. “No! Ancora voi!” -dice mentre lo tirano fuori. “Avete raso al suolo anche L'Aquila!” Fine dell'immaginazione.

Facce di ragazze, di vecchi e di vecchie, di uomini. Non si sa da dove vengono. Il terremoto cancella esistenze che nemmeno lontanamente si riescono a immaginare, e stavolta non c'è più niente di compatto. I paesini di montagna, quelli dove le case vecchie o addirittura decrepite costano meno, sono proprio quelli dove si concentrano gli immigrati e le loro famiglie; villaggi ancora coi nomi da Víteliú entrano nel mondo nel momento esatto in cui la morte li trascina con sé, assieme a nomi del Riff, di Priština o del Banato. E chi vive ancora, mostra la propria faccia senza più nulla. Le proprie mani che scavano.

Scava alla ricerca della ragazza rumena sepolta anche chi, tre ore prima, davanti alla tv inveiva contro quella maledetta razza di criminali. Scava alla ricerca della vecchia aquilana il ragazzo marocchino che, tre ore prima, meditava di tornarsene a Marrakech e di lasciare questo paese di razzisti. Scavano mentre arrivano autocolonne da regioni del nord dove gli abruzzesi sono più o meno visti come i marocchini. Si invocano magari tutti gli dei e tutti i santi di questa o quella religione mentre crollano le chiese. Si sarebbe scavato anche nelle rovine dell'eventuale moschea alla ricerca di sopravvissuti, tre giorni dopo l'altrettanto eventuale manifestazione di protesta contro la sua costruzione.

E sempre facce, facce livellate nella paura, ché la paura è un anticipo tremendo dell'equalizzazione della morte. Le televisioni sono spente. Dimenticata ogni differenza. Si arriverebbe a voler linciare l'abruzzese che sciacalla nella casa distrutta del macedone. Si arriverebbe persino a ricordare che siamo tutti esseri umani messi in questo mondo, che é largo e stretto al tempo stesso, e che ha anche una sua profondità di cui ci si ricorda soltanto quando invia le sue onde sismiche da dieci o venti chilometri più sotto.

E si apre davvero il Libro delle Facce, quello vero, non quello inventato per perdere tempo. Si apre, e un giorno si richiuderà quando tutto sarà tornato alla famosa “normalità”. Allora torneranno gli immigrati che tolgono il lavoro agli italiani. Torneranno i rumeni che stuprano. Qualcuno dirà allo studente di Gaza di tornarsene a casa; nel frattempo, le placche tettoniche fanno il loro lavoro. Lo fanno da milioni di anni. Il lavoro di far notare ad ogni essere umano che la vita è tutto quel che si ha davvero; e tutto il resto è superfluo. E a tutte quelle persone che sono state colpite dal terremoto, lo si legge in faccia.