martedì 24 febbraio 2009

Una storia di strade


Credo che a volte qualcosa guidi in certi luoghi, e cosa sia non so dirlo esattamente. Non voglio neanche dirlo, non credo ne sarei capace; e, forse, mi lascerei andare a considerazioni assai campate in aria.

Mi atterrò quindi ai fatti. A dieci minuti da casa mia c'è l'antichissima abbazia di Badia a Settimo. Dico proprio dieci minuti, nella piana di Scandicci, arrivandoci -come mi piace- non per le strade principali, per i vialoni anonimi di recente costruzione, ma per le viuzze traverse della campagna. In fondo a via dell'Argingrosso, quando diventa anch'essa una stradetta in mezzo ai campi, si tira per Ugnano. Sono strade che esistono fin dalla notte dei tempi, e hanno nomi solenni e semplici: via del Tabernacolo, via del Donicato (dal latino Dominicatum “proprietà di un nobile signore”), via di Fagna, via del Pellicino (probabilmente il soprannome di un contadino). Bisogna conoscerle bene per non perdervisi; io campo ancora sulle mie esplorazioni ciclistiche, quando avevo diciannove o vent'anni e mi partivo da lontanissimo. Dagli antipodi della città, dov'ero nato e abitavo, a due passi da una piccola strada dedicata a Dino Campana. Una strada del tutto insignificante, senza uscita, un piccolo cul-de-sac. “Via Dino Campana – Poeta”, dice tuttora la targa stradale; e siccome quella strada era sul percorso che tutti i giorni facevo per andare a scuola, fin da bambino mi chiedevo chi fosse quel Campana poeta. L'ho appreso molto più tardi.

Sabato scorso Daniela ed io abbiamo deciso di andare a fare un giro. Le campagne attorno a casa mia sono ricche di pievi molto antiche: già a Mantignano e Ugnano ve ne sono tre. Prima siamo capitati a San Colombano a Settimo, dove siamo rimasti per un po' al tramonto, su una panchina, forse disturbando un po' una giovane donna che leggeva la Bibbia e che se n'è andata palesemente scocciata dal nostro cinguettìo da coppietta; ciò le ha valso da parte nostra qualche battutaccia leggermente blasfema (del tipo: “Ora a febbraio legge l'Esodo; a fine agosto, il Controesodo”); poi ce ne siamo andati, decidendo d'impelagarci nel dedalo di stradette là attorno. Ce n'è una che si chiama Via di Porto, dritta all'ingresso della pieve, tra un filare di cipressi. Sono zone, quelle piane là, che sono state pesantemente violentate dall'espansione della città, dall'industrializzazione, dalla “nuova viabilità” che in certi casi ha interrotto una rete stradale millenaria; ma riescono ancora ad avere un fascino indicibile.

Mi sono letteralmente lasciato andare. Le mie conoscenze terminano a Ugnano, e non mi ero mai spinto in quei posti, pur vicinissimi a casa. Mi sono lasciato letteralmente guidare dall'istinto, confidando sul senso dell'orientamento che ho innato. Ad un certo punto, invece, mi sono smarrito. Impegnato nello spiegare che San Colombano, o San Columba, era un monaco irlandese che nel V secolo s'era gettato dalla sua isola (che aveva preservato la cultura occidentale) nell'Europa e nell'Italia buia dell'altissimo medioevo per fondare ovunque pievi e monasteri (ed è per questo che dei “San Colombano” si trovano sia al Lambro che a Scandicci), mi sono ritrovato in un posto fantasmagorico. Una specie di foresta alla mia destra, tra il lusco e il brusco delle cinque e mezzo del pomeriggio, e un campanile la cui sommità in mattoni rossi svettava nel cielo nuvoloso.

La Badia a Settimo, o meglio, l'abbazia di San Salvatore e San Lorenzo a Settimo. Ci siamo messi a cercarne l'ingresso e l'abbiamo trovato. Una specie di fortezza in mezzo alla campagna, una cittadella a sette miglia dalla città quando la città doveva essere ancora bambina. Io e Daniela siamo rimasti letteralmente senza parole. Siamo entrati piano nella chiesa, che era aperta, sbalorditi da quel posto a pochi minuti da casa mia. Non vi avevo mai messo piede prima. Stava per chiudere, ma un avviso diceva che la domenica, dalle 15 alle 18, si poteva visitare tutto il complesso abbaziale addirittura con una guida.

Il bello è che, tornando a casa, e attraversando il borgo semideserto di Badia a Settimo dove l'unica cosa aperta era una Casa del Popolo (ultimo sparuto baluardo della classe operaia), mi sono ritrovato all'improvviso di nuovo in strade dai nomi noti; dall'altra parte di via del Pellicino, passato l'incrocio con via dello Scalo di Peino che è l'ultimissima strada del comune di Firenze, o la prima per chi vi torna. Siamo tornati come per incanto a Ugnano, e poi di nuovo a casa con l'intenzione di tornare il giorno dopo alla Badia a Settimo; cosa che abbiamo fatto.

Domenica è bastato, da Ugnano, fare il percorso all'inverso. Quelle stradette, quelle viuzze, aiutano la memoria in un modo assolutamente incredibile. Quanto i vialoni imbecilli che le hanno tagliate come mannaie sono tutti cretinamente uguali coi loro nomi standardizzati, tanto quelle piccole strade tortuose che seguono l'andamento dei campi hanno ad ogni centimetro un particolare che permette di fissare il cammino senza più nessun timore di sbagliarsi. Siamo entrati nell'abbazia ancora alle cinque del pomeriggio, dalla chiesa, chiedendo a un tizio se si poteva ancora fare la visita guidata; ci siamo ritrovati in un chiostro meraviglioso, ma tagliato a metà da un muro. Una parte dell'abbazia è attualmente una parrocchia; l'altra parte è, state un po' a sentire, “proprietà privata”. Risale tutto allo smembramento dei beni ecclesiastici eseguito dal granduca Pietro Leopoldo; cosicché, ancora adesso, una consistente parte di quel tesoro è in mano ad un privato cittadino che la sta facendo tranquillamente andare alla malora. La parte parrocchiale è stata accuratamente restaurata (soprattutto perché, minata durante la II guerra mondiale dai tedeschi che non volevano che il campanile fungesse da punto di osservazione su tutta la piana, aveva riportato danni enormi); quella “privata”, quella al di là del muro, sta cadendo in rovina. Effetti strabilianti della proprietà privata; molto meglio quella ecclesiastica. E se lo dico io!

Ci siamo fiondati sulla guida che stava terminando il giro proprio in chiesa. Le prime parole che abbiamo udito sono state: “...là c'è la tomba di Dino Campana”. Daniela può testimoniare della mia espressione a quelle parole. La tomba di Dino Campana. E dire che il giorno prima, quando pur sempre un giro della chiesa lo avevamo fatto, non c'eravamo assolutamente accorti di nulla. Forse distratti, comprensibilmente, dal quadro del Ghirlandaio; forse perché, semplicemente, non lo sapevamo. Ci siamo avvicinati. Ricordando persino alla guida che conoscevamo un giovane cantautore che sulle poesie di Campana aveva scritto un intero album. Mi è venuto da sorridere, di quei sorrisi che si hanno quando in un qualche modo si sente d'aver chiuso inconsapevolmente un cerchio iniziato, altrettanto inconsapevolmente, da bambino. Seguendo sempre strade quasi alla cieca, ma che non si può fare a meno di pensare che nascondano un percorso, e in quel percorso una sorta di disegno.

Dopo la tomba di Campana abbiamo potuto visitare tutto il resto dell'abbazia, o meglio tutto il resto di ciò che può essere visitato. Le prigioni abbaziali, perché la cittadella era autosufficiente anche riguardo alla galera. Il refettorio riservato, con i busti lignei di nobili fanciulle. La cripta del VIII secolo, ovvero il primitivo nucleo dell'abbazia, con le colonne romane; uno di quei posti che metterebbero i brividi soltanto al pensiero, e figurarsi un po' ritrovarcisi dentro. Per uno come me, poi, che se potesse lascerebbe ogni cosa e questo tempo idiota e si trasferirebbe armi e bagagli nel Medioevo, quello vero, quello che gli è caro da sempre.

E Dino Campana, che là riposa per sempre. Che la bellezza, che non ha potuto avere nella sua vita tragica, lo accompagni per sempre in quel posto meraviglioso dove le strade, in un fine settimana mezzo assolato e mezzo brumoso di febbraio, mi hanno guidato in questa storia che qui si chiude.

Nella foto: la tomba di Dino Campana nella Badia a Settimo.