lunedì 23 febbraio 2009

Una bottiglia di orzata



Ora che sono passati gli anniversari, della morte e della nascita, vorrei dare il benvenuto a Fabrizio in questo posto del tutto defilato. Chiedendogli magari scusa per avere, in questi anni, parlato e straparlato di lui in altri luoghi, facendo quasi a gara, trattandolo a volte come una specie di oggetto di studio ed altre prendendolo come pretesto per raccontare storie e vendere a gratis la mia vita, i miei fatti, le mie fantasie. In quei luoghi “virtuali” la mia frase preferita era: attraverso le sue canzoni, Fabrizio ha raccontato la vita di tutti. Non è vero. Le canzoni di Fabrizio sono soltanto sue, come sua è la vita che c'è dentro. Io, come gli altri, sono un illuso che non sa scrivere canzoni. Punto e basta. L'unica cosa da fare è continuare ad ascoltarle, quelle canzoni, senza nessun obbligo di quotidianità e senza più nessuna voglia di infiorettarci sopra. Se si ha voglia di raccontare la propria vita, lo si faccia senza pretesti, senza delegare ad altri la fornitura del tema.

Così, una mattina qualsiasi al di fuori degli anniversari e delle celebrazioni, basta fare dei gesti semplicissimi, quasi dimenticati in tutti questi anni di furore giaculatorio mal terminato. Alzarsi, andare a prendere un cd o un qualsiasi altro supporto musicale, anche di quelli oramai sorpassati, e infilarlo in un apparecchio per la riproduzione del suono. Questi apparecchi, ora, sono perfezionati; fanno ricordare quando non lo erano. Quando si doveva ascoltare dei gracchi sul mangianastri, quando le bobine si spezzavano, quando sentire una canzone era solo per fissarsi dentro le parole e la melodia. Poi si cantava, da soli; mentalmente o a voce più o meno alta. Succedeva addirittura che una data canzone, la prima volta, non la si ascoltasse nemmeno da un disco o da una cassetta, ma da qualcun altro che la cantava; poi si cercava di procurarsela, in qualche modo. Non sempre ci si riusciva. A volte passava del tempo, ma quando finalmente la si poteva ascoltare dalla voce del legittimo titolare, era già conosciuta, già una cosa propria.

Oggi non ho più la minima voglia, e penso che non la avrò molto a lungo, di fare o farmi domande, di cercare o esigere risposte, di sviscerare questo o quel significato palese o recondito. Facendolo per anni ho paura di aver perso di vista il nucleo di tutto quanto. Così mi prendo, ad esempio, “Bocca di Rosa”, e la smetto di farne un blob di “spunti”; mi ascolto per la milionesima volta quella storia, mi lascio portare dalla musica e dalle parole, la canto o canticchio assieme a Fabrizio e basta. Alla fin fine, faccio quel che avrei dovuto sempre fare. Non mi pongo più il problema se Fabrizio sia “morto” o “vivo”, ché tanto moriamo tutti quanti. Ha avuto in sorte di vivere in un tempo dove la sua voce e le sue canzoni hanno potuto essere registrate, incise, riprodotte, moltiplicate con mezzi sempre più sofisticati; ha vissuto la sua vita e potrà essere ascoltato, da chi lo vorrà, per sempre.

Non rinnego, e non potrei mai farlo, di averlo preso per un certo periodo come una specie di “compagno di strada” che in realtà non è mai stato. Le strade di ognuno sono separate. Non esiste una strada buona o cattiva, esiste soltanto la strada; e se, per caso, qualche tratto sembra coincidere è appunto soltanto un caso, una coincidenza. Gli incontri per strada sono fuggevoli, anche se ci si lascia prendere a volte da facili entusiasmi. Dopo un po' ci si accorge che quel che sembravano comunanze, sono miraggi. Quel che sembravano unisoni, sono dissonanze. Quel che sembravano vicinanze, sono allontanamenti. Non c'è nemmeno da porsi il problema se ne sia valsa la pena o meno; qualcosa resta sempre. Ci si ragiona un po' sopra, si fanno sorrisi e si stringono i pugni, e poi ci si alza e si va a mettere su una canzone.

Naturalmente, il “benvenuto a Fabrizio” che apre questa cosa è soltanto un (peraltro banale) artificio retorico. Fabrizio non sarebbe mai entrato qui dentro neppure se fosse stato ancora vivo. Era solo un modo per dire che non mi scordo delle sue canzoni, nella solitudine di una mattina qualsiasi; non me ne scordo e continuo ad ascoltarle senza più sovrastrutture, liberandole da ogni altra cosa. Ho purtroppo il timore che, a forza di parlare di Fabrizio de André, prima o poi si dimentichi che ha scritto delle canzoni, e che le ha addirittura cantate. A costo di essere preso per matto (ma senza cercare di imparare Wikipedia a memoria, ché oramai la Treccani nessuno sa più che cosa sia), se mi piglia la voglia canto “La domenica delle salme”, “Coda di lupo”, il “Pescatore” e persino “E fu la notte” in coda alla cassa del supermercato, in macchina da solo, nell'intervallo fra il primo e il secondo tempo della partita; quante cazzate ho scritto, e per scriverle quante canzoni mi sono perso. Quante domeniche a fabbricare salme; ora basta. Anche se fa ancora freddo e il sole è pallido, mi voglio mettere sulla porta di casa, mentre abbaia un cane, spettinato. Mi piacerebbe averci una bottiglia di orzata da stappare, ma senza brindisi a nessuna salute. Solo per godersela e cantare; e se si affacciano dei pensieri, che con certe canzoni arrivano sempre, tenerseli.