giovedì 19 febbraio 2009

Ronde, rondini




Duro inverno, questo; freddo, nevoso, lungo. Esistono dei popoli la cui storia è stata tutta un inverno, senza soluzione di continuità; e il popolo rumeno è uno di questi. Ma, forse, sarebbe meglio parlare di tutte le genti che vivono in quell'area chiamata “Balcani”: un territorio aspro che ha saputo dare all'umanità tutto e il contrario di tutto. Dalle crudeltà più infinite alla grandezza di poeti sconosciuti, perché sconosciute ai più sono le lingue che vi si parlano. Guerre, pastori, codici di onore, componimenti popolari dove tutto è espresso in poche righe: cattiverie, bassezze, bellezza, amore, slanci, sangue, sogni, realtà. Nei miti dell'eroe serbo Marko Kraljević tradire e picchiare la moglie innamoratissima va di pari passo con le più alte espressioni della solidarietà umana verso i compagni; ma alla moglie, poi, Marko morente dopo la battaglia di Kosovo Polje riserva gli ultimi e più toccanti pensieri. È un mondo dove i miti si formano ancora velocemente; pochi anni dopo l'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, quando lo studente Gavrilo Princip uccise l'arciduca Francesco Ferdinando dando l'avvio al primo macello mondiale, già i guslari balcanici ci avevano ricamato sopra miti con tanto di angeli, spade, ninfe color madreperla del Danubio (sedefne vile) e persino resurrezioni.

La si dovrebbe conoscere almeno un po', la cultura di quei posti. Aver letto almeno una volta la Mioriţa o il Luceafăr di Mihai Eminescu. Conoscere un paio di canti partigiani bulgari o greci, di quelli dove Lenin combatte assieme agli opliti spartani; o la lettera del quattordicenne condannato a morte dai nazisti a Kessariani, dove persino uno come me riesce a capire che cosa possa essere l'amor di patria (“addio Grecia, madre di tutti gli eroi”; si confronti tale espressione con un quattordicenne italiano attuale, dedito alla Playstation e a mettere su YouTube il filmino del compagno di classe down brutalizzato).

Genti con cui non è mai stato facile trattare. Genti che si sono anche, e spesso, sbudellate fra loro. Tra rumeni e greci, ad esempio, non corre storicamente buon sangue. Ai tempi dell'impero Ottomano, l'amministrazione delle terre valacche era stata affidata dalla Sublime Porta ai greci del quartiere costantinopolitano del Fanar (i Fanarioti, appunto), che si distinsero per la sistematica, scrupolosa, capillare vessazione del territorio e dei suoi abitanti. Quello che dai greci è considerato un eroe dell'indipendenza del 1821, Alexandros Ypsilantis, dai rumeni è considerato un traditore, uno strozzino, un furbastro dedito solo alla spoliazione. Degli zingari non parliamone nemmeno, perché gli zingari sono odiati da tutti; almeno qui si sa come regolarsi. E non parliamo poi di tutti gli incroci, i miscugli e i pot-pourri che queste genti si sono creati: i rumeni sono arrivati fino all'Istria (ancora nel XX secolo c'erano dei villaggi in Istria dove si parlava un dialetto rumeno), ci sono i bulgari in Turchia e i turchi in Bulgaria, c'erano gli shtetl ebraici dove si parlava yiddish, c'era di tutto e ancora in parte c'è. Ci sono ancora gli sbudellamenti, come fanno fede le recenti guerre jugoslave. C'è che noi, dalle nostre belle parti, ancora non ci avevamo avuto troppo a che fare. Posti matti, lontani, oscuri. Posti di montagne spaventose e gelide. Non sono bastati i racconti dei nonni che avevano combattuto in Jugoslavia, in Grecia, in Albania, a farcene un'idea. Non sono bastate le fanfaronate del Dvce, che voleva “spezzare le reni”: a quelli lì, le reni non gliele spezza nessuno. Senonché, per quelle fanfaronate sono morte migliaia e migliaia di persone.

Nel XV secolo i rumeni, o meglio i valacchi, si accorsero con stupore di parlare una lingua abbastanza simile all'italiano. Dall'Ungheria rinascimentale, dove peraltro si parla una lingua diversa non solo dall'italiano ma da tutte le altre, erano arrivati dei viaggiatori napoletani, fiorentini, milanesi. Mercanti, perlopiù. La voglia di fare soldi vince anche il timore d'inoltrarsi in terre strane. Figurarsi quando il fiorentino si accorse che, nella lingua dei valacchi, “casa” si dice casă, “uomo” si dice om (ma si pronuncia uom) e “avere” si dice avere nella "forma lunga" (e aveà in quella "breve"). Figurarsi il pastore valacco quando si accorse che lapte si dice “latte”, che carne si dice “carne” e che iarbă si dice “erba”. Un nobile erudito valacco del XVI secolo, che scriveva la sua lingua ancora nel bellissimo alfabeto cirillico paleoslavo, e che in Italia non era mai stato, cominciò ad infiorettarci sopra: nelle città italiane scorrevano latte e miele nelle fontane, il clima era sempre primaverile, le donne tutte bellissime, leggiadre e istruite nelle lettere (e nelle arti dell'amore), i prìncipi erano tutti saggi e generosi, il paesaggio coltivato e rispettato con genialità e cura, e così via. L'Italia: un paradiso in terra. Fu grazie a quei miti, e alle comunanze linguistiche, che il popolo rumeno prese coscienza della propria origine latina; e nella sua storia è un avvenimento di non poco conto. Fino ad allora, il termine rumân aveva voluto dire soltanto “contadino, villano”; quando si accorsero che derivava da Romanus, divenne il nome di tutto un popolo. Nel XIX secolo, quando sotto la spinta culturale del romanticismo si volle abbandonare l'alfabeto cirillico per quello latino, fu preso a modello l'alfabeto italiano, a volte con l'esagerazione di alcuni che volevano italianizzare artificialmente la lingua (certuni arrivarono a italianizzarsi il cognome: così nella storia rumena troviamo dei Rosetti e dei Negruzzi). Per un lungo periodo, la Romania intera ebbe una sorta di “febbre” italiana, senza che in Italia se ne sapesse assolutamente nulla.

A questo punto dovrei fare il salto al giorno d'oggi. Ad un popolo che ha vissuto una delle dittature più oscurantiste del XX secolo. Ad un popolo che, prima di essa, ha avuto a che fare con il maresciallo Antonescu (che ha dato al mondo la parola conducător) e con Corneliu Zelea Codreanu, attuale idolo dei giovinotti di via Maruffi. Ad un popolo che, ritrovata la democrazia in mezzo al generale tripudio del vasto mondo, si è poi ritrovato anche povero in canna; ed essere poveri in canna quando trionfa il “mercato” è un bel problema. Allora hanno cominciato a andarsene, da quelle terre senza latte e miele, senza prìncipi saggi e generosi, senza donne leggiadre e colte, senza primavera; e sono arrivati nell'Italia di fine d'un millennio e d'inizio d'un altro. Un paese, notoriamente, dove nelle fontane scorre attualmente anche l'aspartame, oltre che al latte ed al miele. Dove i prìncipi saggi e generosi si chiamano, che so io, Borghezio, La Russa, Calderoli, D'Alema e Casini. Dove donne coltissime e dall'eloquio meraviglioso, come ad esempio Maria de Filippi o Alda d'Eusanio, si esibiscono in pubblico diffondendo l'intelligenza e l'amore pel bello. Dove il paesaggio è coltivato con ancor più cura e genialità, tipo a Punta Perotti. Dove in primavera si è messo persino a nevicare, a volte; tanto ci pensa Emilio Fede a farci il titolo di punta del TG4, quello sulla primavera più fredda degli ultimi 43,6 anni.

Brutta situazione, la fame. Ancor più brutta, non contare nulla. Sentirsi accolti come estranei, quando magari a scuola ti avevano spiegato che l'Italia era un “paese fratello” facendoti leggere il famoso brano di Miron Costin (si chiamava così il nobile erudito del latte e miele). Sentirsi additati come il popolo degli stupratori di ragazzine, quando si sa benissimo che la maggior parte degli stupri, compresi quelli delle ragazzine, in Italia come nel resto del mondo avvengono tra le mura domestiche (ma questo non si può dire in questo santo paese cattolico basato sulla Famiglia). Come un popolo di delinquenti da fare oggetto di leggi speciali, di limitazioni, di pogrom. Senza potere nemmeno incazzarsi e rendere con gli interessi le legnate agli squadristi di Forza Nuova che ti entrano nel bar, perché sennò ci perdi magari quel lavoro da fame che hai. Siamo fatti così: se s'arrabbiano i cinesi, e si ribellano ai soprusi dei vigili meneghini con tanto di bandiere nazionali, console e ambasciatore che fa la voce grossa, ci inchiniamo e chiediamo umilmente scusa perché la Cina è oramai la prima potenza economica mondiale. Se s'arrabbiano i rumeni, “fratelli latini”, ci possiamo permettere di sbeffeggiare anche un presidente o un primo ministro, ché in Romania ci abbiamo impiantato le fabbrichèètte outsourcizzate, ché in Romania ci fanno affaroni gli imprenditori del Nordest i quali magari, ci si trombano tranquillamente pure la tredicenne all'insaputa dell'intoccabile e santa famigliuola lavoratrice, ex-democristiana e ora leghista. Ché la Romania, così come l'Albania, possiamo ora come ora trattarla senza problemi da colonia, pigliandoci i suoi calciatori più bravi, qualche soubrettina, migliaia di lavoratori regolari e al nero, qualche volatore dalle impalcature, qualche bruciato vivo dall'imprenditore lombardo, un esercito di badanti perché nelle sacre famiglie italiane i figli non si occupano più dei genitori vecchi, bavosi, pieni di merda e di decubiti, e un uguale esercito di puttane, ragazze che volevano magari il latte e il miele, e la primavera e che invece hanno avuto non soltanto lo sfruttamento, ma anche le perversioni notturne del tizio che, al mattino, le vorrebbe tutte al muro, schedate, espulse.

Hanno avuto i progetti di “ronde”, quelle fatte dai bravi cittadini che sorvegliano il territorio. Le ronde invece delle rondini. Ci vorrebbe un nuovo Rembrandt, per ritrarre, invece della compagnia del capitano Frans Banning Cocq, la compagnia dello sciùr Mazzacurati in camicia verde o der sor Projetti in camicia nera alla ricerca del fratello valacco stupratorizzabile che dorme sotto un ponte a Quarto Oggiaro o in una baracca nella pineta di Castelfusano (dalla quale lo scaccerà il borgomastro in persona), o della sorella valacca disprezzata persino dalla vecchia cui amorevolmente medica la piaga puzzolente, e che alla televisione ha sentito che i rumeni altro non sanno fare che violentare le bambine.