sabato 7 febbraio 2009

Io so che un giorno




Oggi alle ore 21, il cantautore Alessio Lega terrà un concerto al circolo anarchico fiorentino di Via dei Conciatori, sordido vicolo nelle vicinanze di piazza Santa Croce. Quello che segue è un commento ad una canzone di un sito che contribuisco a gestire, una canzone di Ivan Della Mea. Lo ripropongo, perché il concerto di Alessio parlerà di "matti", e di un periodo, come ha avuto a dire stasera in occasione di un altro concerto, in cui una massa di persone diceva no a dei lager, a dei campi di concentramento legalizzati chiamati manicomi. Un periodo in cui, ha detto ancora Alessio, questo paese era un po' meno di merda di ora. E a volte fa bene pensarlo.


Il 28 maggio 2006, trovandomi a Brescia in piazza della Loggia (e no, non mi ci trovavo affatto per caso), mi sono messo a parlare con Ivan Della Mea. A un tavolaccio improvvisato in piazza, in un casino di chitarre e bottiglie di vino, mi è sorta dal profondo la classica domanda idiota. Anzi, la madre di tutte le domande idiote. Proprio quella: "Ma senti, Ivan, qual è la tua canzone che ami di più?" M'aspettavo che mi guardasse con quella sua aria là e mi dicesse roba del tipo "Quarantaquattro gatti" oppure "Papaveri e papere". Ben meritato me lo sarei! Invece m'ha anche risposto, e senza nessuna esitazione. "Io so che un giorno". E allora ve ne vorrei parlare un pochino; perché in Italia, anni fa, c'erano i manicomi, e c'erano i matti dentro ai manicomi. Qualcuno lottava perché non esistessero più quei luoghi ancor peggiori della galera, e qualcuno ci scriveva sopra persino delle canzoni per aiutare quella lotta.

A Firenze, prima della soppressione dei manicomi, c'era il vecchio manicomio di San Salvi. E mi è capitato tante volte di entrarci dentro, e spesso di notte, come volontario e autista di autoambulanze. Ho visto cos'è un ottavo padiglione, e la cosa non era per nulla giocosa come nel nome del vecchio gruppo di Bobo Rondelli. Mi è successo di vedere, una notte di luglio che si crepava dal caldo, un infermiere gigantesco, tale Giustarini, massacrare di botte un ricoverato che aveva dato in escandescenze. Sono nomi che non si scordano, perché era arrivato il dottore, in pantaloncini corti e con la sigaretta in bocca, e gli aveva detto, alla lettera, "Giustarini, rimettilo a posto te". E giù cazzotti e calci a quel povero essere umano. Finché il caposquadra dell'ambulanza, Stefano Guidotti (a me i nomi piace sempre farli), non aveva urlato basta, e aveva minacciato di andare alla radio di bordo per chiamare la polizia. Il ricoverato, si chiamava Carlo, era a terra mentre i compagni di stanza, alcuni legati, urlavano e urlavano. Tranne uno che si era cacato addosso e si stava beatamente tirando una sega nella sua merda. Ecco, non so se a qualcuno è mai capitato di sentir dire dalla parrucchiera o dal pizzicagnolo frasi come "Ci rivorrebbero i manicomi, lì almeno li curavano!". Se sentite qualche deficiente dire una frase del genere, raccontategli questa storia, coi nomi e coi cognomi.

"Io so che un giorno", Ivan della Mea l'ha scritta nel 1966. E continua a cantarla, a quanto mi risulta. Anche se i manicomi li hanno chiusi. Forse continua a cantarla perché il manicomio si è semplicemente dilatato, è tutta questa società, tutto questo mondo che è un manicomio. Ma è una canzone che parla di un manicomio dall'immagine "classica", con i camici bianchi, le tendine bianche, i letti bianchi (ho un odio feroce verso il colore bianco, devo proprio dirlo). Ed è una canzone che parla di libertà, della libertà che non si vuol fare più esistere, della libertà che però è un fatto. Magari qualcuno non l'ha mai sentita. Nella sua incisione storica comincia con un motivo popolare di fisarmonica, che poi è la melodia di un'altra canzone di Della Mea, "A quel omm". Poi si sentono dei rumori di martello pneumatico. Sulla melodia propria della canzone, ma senza accompagnamento strumentale, Della Mea comincia a cantare; poi entra una chitarra, e poi un'altra.

C’è da chiedersi se “Io so che un giorno” sia una canzone dal manicomio, o se sia piuttosto una canzone in cui l’immagine del manicomio (un’immagine, come detto, decisamente stilizzata) serve a parlare di qualcosa che va persino oltre. E questo “oltre” si chiama a mio parere repressione. Non serve aver visto com’era fatto per davvero un manicomio per rendersi conto che quello di “Io so che un giorno” è piuttosto ciò che molti s’immaginavano che fosse. Un luogo asettico, dove tutto è bianco; nel testo, Della Mea insiste volutamente con il bianco, sin dall’inizio; la canzone assume quindi un valore “cromatico” che ha una grande importanza, il bianco come nebbia separatrice, come attutimento delle sensazioni e dei rumori, come barriera, come isolamento e quindi, in definitiva, come preciso simbolo di allontanamento coatto, di “campo”, di lager.

Sebbene stilizzata, tale immagine non è del tutto irreale e si basa su criteri che venivano effettivamente adottati nei manicomi. Anche nel più putrido, il bianco (come colore delle pareti, delle tende, delle suppellettili, dei letti) la faceva da padrone. Il bianco doveva separare e doveva soprattutto contribuire ad obnubilare la mente di chi era rinchiuso nel manicomio (scopo del manicomio non era quello di “curare”, ma di contribuire a mantenere la follia, e spesso di indurla in coloro –numerosi- che vi erano costretti dentro senza essere minimamente “matti”). Il manicomio veniva quindi percepito come un luogo “tranquillo” (da qui i tanti nomi sullo stile di “Poggio Sereno”, “Villa la Quiete”, “Loggia Paradiso” –il bianchissimo paradiso come perfetto manicomio, insomma), e la tranquillità è bianca. Si deve opporre, con la sua sorridente, paradisiaca e rassicurante repressione, alla confusione di colori, al violento caleidoscopio con cui viene raffigurata la mente del “matto”. Il mondo della repressione è sempre terribilmente monocromatico. Esiste la repressione nera della polizia, e quella bianca del manicomio. Sono andate spesso e volentieri perfettamente a braccetto. Strumenti dello stesso potere.

Ritengo inutile dilungarmi sul modo in cui l’istituzione “manicomio” è stata utilizzata dal potere per reprimere, e non importa neppure andare all’ovvio esempio stalinista (il manicomio e il gulag sono del tutto intercambiabili). Il manicomio e la galera sono istituzioni del tutto universali, sono strumenti-principe dello stato repressivo. Per la galera non è stato trovato nessun sostituto; per il manicomio, diciamo, si è passati piuttosto ad una dilatazione. Il manicomio “chiuso” (inteso come luogo ben definito di concentramento di persone la cui marginalizzazione era stata sancita in termini “psichiatrici”) è stato sostituito da forme di manicomio “aperto”, dove le barriere fisiche tipiche dei vecchi manicomi (i cancelli, le grate, le inferriate, le cinghie, le camicie di costrizione) sono state sostituite da barriere sociali. Dal manicomio-fortezza si è passati quindi al manicomio-ghetto; ma verrebbe da dire che non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole. Proprio nulla.

“Io so che un giorno” è una canzone che, ambientata in una specie di manicomio di rappresentazione immaginaria collettiva, parla invece del manicomio di classe che l’essere umano deve vivere ogni giorno della sua vita. E’ un manicomio generalizzato dove chi parla di libertà è semplicemente matto. Chi si azzarda a presentarla come un fatto, come qualcosa che “resiste”, deve essere legato al letto. Arrivano i signori bianchi e forti e sei legato. 1966, l’anno in cui viene scritta. Mancano due anni al ’68, ma già da qualche parte ci sono dei ragazzi, ovviamente matti, che “parlano dei loro sogni come se fosse la realtà”. Gli sforzi per presentarli come completamente pazzi cominciano fin da subito. Qualcuno parla loro di libertà, qualcuno che può avere un nome (Orwell, Marcuse, Vaneigem, Débord) o può non averlo. Matti. Matti che hanno visto tutto chiarissimo, lucidissimo (come nella più pura tradizione dei matti). Qualcun altro arriva a dire che “la libertà più non esiste”, e presenta ciò che la sostituisce: la seicento, la lavatrice, il supermercato, l’immagine, lo spettacolo. E’ il grande e bianco sonno della società dello spettacolo. 1966. L’anno dopo, Débord, scrive il suo libriccino. “Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire (-‘mio caro amico, tu sei stanco’-). Lo spettacolo è il guardiano di questo sogno”. Così Débord descrive perfettamente non solo la società dello spettacolo, ma anche il manicomio. E’ la stessa cosa.

“Io riderò /il mondo è bello”. La famosa risata che seppellisce. Non so se questa risata seppellisca, ma sicuramente è un’espressione di resistenza, di ribellione; e la risata, non per niente, è sempre stata associata con la follia! “Il riso abbonda nella bocca degli stolti”, recita l’antico adagio, e viene senz’altro a mente anche la feroce opposizione al riso di Jorge da Burgos. Il matto ride. Ride sempre! Questo è intollerabile. Deve essere rinchiuso. Deve essere eliminato. E cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia: chi ride è matto.

Per avere un posto in questa società, quindi, è necessario vendere il proprio cervello. E non solo quello. Assieme al cervello bisogna vendere anche l’intero proprio corpo, la propria forza. Venderla al lavoro, per il quale ti viene data la possibilità di comprare, comprare, comprare una miriade di oggetti inutili. E così la vita è bella nel mondo della Seicento e della lavatrice (nel 1966) o della Grande Punto e della megativvù al plasma (nel 2006). Continuano ad esserci però dei matti che, per necessità o per disperazione, distruggono. Matti. Per nulla vestiti di bianco. Di nero. Black. Black bloc. Presentati come folli, distruggendo gli oggetti-simbolo essi compiono in realtà un atto di opposizione al manicomio, cioè un atto di libertà e di sanità mentale.


Viva la vita
pagata a rate
con la Seicento
la lavatrice.
Viva il sistema
che rende uguale e fa felice
chi ha il potere
chi invece non ce l’ha.

Io so che un giorno
verrà da me
un uomo bianco
vestito di bianco
e mi dirà:
«Mio caro amico tu sei stanco»
e la sua mano
con un sorriso mi darà.

Mi porterà
tra bianche case
di bianche mura
in bianchi cieli
mi vestirà
di tela greggia dura e bianca
e avrò una stanza
un letto bianco anche per me.

Vedrò il giorno
e tanta gente
anche ragazzi
di bianco vestiti
mi parleranno
dei loro sogni
come se fosse
la realtà.

Li guarderò
con occhi calmi
e dirò loro
di libertà;
verrà quell’uomo
con tanti altri forti e bianchi
e al mio letto
stretto con cinghie mi legherà.

«La libertà
- dirò - è un fatto,
voi mi legate
ma essa resiste».
Sorrideranno:
«Mio caro amico tu sei matto,
la libertà,
la libertà più non esiste».

Io riderò
il mondo è bello
tutto ha un prezzo
anche il cervello
«Vendilo, amico,
con la tua libertà
e un posto avrai
in questa società».

Viva la vita
pagata a rate
con la Seicento
la lavatrice
viva il sistema
che rende uguale e fa felice
chi ha il potere
e chi invece non ce l'ha.

Ivan Della Mea.