mercoledì 17 dicembre 2008

E si vedono altre terre




L'Elba in dicembre è un po' di tempo che non la vedo, da anni e anni. Torno a vedermela per un due o tre giorni, in questo mese, dopo un periodo in cui ho addirittura, mi si perdoni l'orripilante parola, lavorato. È ora di smetterla, e di inforcare il traghetto da Piombino con una scusa qualsiasi, quando è soltanto la voglia di vedere spiagge vuote, la stufa accesa in casa, il paese deserto, i vecchi imbacuccati, l'isola come isola. Un tempo fu appurato qui dentro che le isole non esistono. Benissimo. Non esistono, e per me vadano anche a farsi fottere, piccole e grandi, una dopo l'altra; ma esiste l'Elba, che è un'isola, che è la sola. Perché io la voglio così e la sento così, e io sono il re di me stesso.

Ci voleva, per quest'Elba dicembrina, una partenza strana. Ho deciso di non andare a dormire, ché tanto non ho sonno. Parto alle tre di notte per pigliare la nave delle sei e quaranta. Sarà ancora buio quando infilerò il muso della macchina dentro l'Oglasa, o la Marmorica, o quel che sarà. Sarà ancora buio quando sentirò le sferzate fredde del vento di mare. Sarà l'alba quando mi apparirà Portoferraio. E sarà prima mattina quando arriverò al Formicaio. Poi, probabilmente, me ne andrò a letto a sognare qualcosa e qualcuno. A casa. Sull'isola, ché isola è. L'unica, la sola, la mia.

È uno di quei periodi in cui si ricuperano le cose vecchie, cose delle quali ci si è forse persino vergognati a lungo. Come le poesie, seppellite, impolverate, buone soltanto per un sorrisetto imbarazzato al ripensare d'averle una volta scritte. Poi, invece, ci si accorge che sono anch'esse una parte di te. Una di queste parlava dell'Isola in inverno. Avevo ventun anni quando l'ho scritta col pensiero, perché non ero all'Elba; si chiama Isola, così, e basta. La voglio dedicare a me stesso, a quel che ero, a quel che sono. Non me ne frega un cazzo se sia brutta o bella. Sono parole che mi sono venute fuori in un tempo oramai lontano.

È un giorno di sole invernale,
Con aria limpida, e si vedono altre terre:
Col corpo fermo qua nelle piazze
Sto dirupando giù dai tuoi pendii.

Ci sono barche dai colori smorti
E spiagge che si specchian nei calanchi:
Col corpo fermo qua, in queste vie
Da un pino guardo verso casa mia.

Ti seguo per i sentieri, tra i pruni,
Tra le miniere stanche ed irreali,
Mani di dei accendon fuochi fatui
Nelle tue chiese dai venti consacrate.

Nave che lascia una scia di gabbiani
Staglia alla vista una tua profondità.
Grida delle tue coste addormentate
Nel giorno di gennaio lungo e breve.

Ed i tuoi vecchi abitanti senza pelle
La insegnino a mutare a quelli nuovi,
Stridono a centinaia, senza nome,
Vigne e terrazze, casematte abbadonate.

Dalla tua vecchiezza vengo, e dalla rabbia
Che mi riempie nel vederti confiscata;
Figlio di un'isola sono, figlio del mare,
Della separazione, della sete.

Figlio delle tue fughe, delle tue grettezze,
Figlio di questo sole ipocondriaco;
Dei tuoi gatti rugginosi, dei tuoi colli,
Della tua pesca, del tuo carcere son figlio.

Se potessi, t'avrei dal fondo sradicata
E gettata seimila miglia ancor più al largo;
Ti vedo sporca, umiliata ed insabbiata,
Ti ho nel cuore, con le tue forme, isola.