lunedì 29 settembre 2008

Il veneziano matto




Una specie di zuppa di giornali, gazzettini, corrieri e diari presi, sfogliati freneticamente e rimessi a posto scompaginati, sgualciti. Il rumore dei fogli che s'accartocciano. Nei giorni scorsi, all'Elba, da uno dei due giornalai-librai di Marina di Campo. Che cos'è l'intuito? E, probabilmente, un'associazione talmente forte ad un ricordo da provocare un riconoscimento quasi certo senza l'immediata visione diretta. Non poteva che essere lui, a fare quel casino di giornali e di fogli, nascosto dallo scaffale metallico girevole; il veneziano matto.

Quando poi ha sporto il viso oltre lo scaffale, davanti al giornalaio che guardava piuttosto incazzato, s'è sentita una voce dall'accento difficilmente confondibile; “tranquillo, compro tutto!” E, infatti, s'è avviato al bancone con una pila di cartaccia stampata, bell'e pronta per essere appallottolata. Eccolo là, proprio lui, che fra l'altro nemmeno mi ricordo, o non so, come si chiama. Mi è balenata in testa l'idea di salutarlo, ma sarebbe stato solo assurdo. Sono passati, quanti? Quasi sette anni. Non mi avrebbe mai riconosciuto.

Sette anni fa, nel gennaio del 2002, io e delle persone cui volevo e voglio bene ci stavamo preparando a scoppiare. Magari non è la parola esatta, o chissà. In quell'anno, a turno, ci è successo qualcosa che ha azionato uno scambio, un “prima” e un “dopo”. Perlomeno per me è stato così. Decidemmo, io e altre due di queste persone, di andare all'Elba un giovedì d'inverno, quando l'Isola è isola e basta, al di là di tutte le possibili considerazioni che anche in questo blog, a suo tempo, sono state fatte. Una macchina e tre òmini, tre persone che fino a pochissimi anni prima ignoravano l'esistenza l'uno dell'altro. L'esistenza e le storie.

Storie di cui non parlerò perché da un po' di tempo il pudore nel metterle in piazza mi è aumentato a dismisura. Si sbarcò ch'era già buio, e si cercò un posto aperto dove mangiare qualcosa; lo trovammo sul ciglio d'una strada provinciale, quasi fosse una di quelle “posadas” messicane aperte in mezzo al nulla. Non c'era assolutamente nessuno. Locale deserto. A un certo punto comparve un tizio, e gli chiedemmo se si poteva mangiare qualcosa.

In un battibaleno aveva già apparecchiato, con dei movimenti simili a quelli del Road Runner inseguito da Vilcoyote. Un autentico vortice. Dalla lista scegliemmo i salumi misti come antipasto, perché s'aveva una fame da stiantà'; in 45 secondi compare il tizio con una piattata simile a una ruota di camion, stracolma di affettati disposti in modo artistico. Si ferma. Posa il piatto sul tavolo e si comincia una conversazione durante la quale si viene a sapere che è di Venezia; ma si deve immaginare il tutto svolgersi in un minuto scarso.

Si doveva essere accorto che c'era qualcosa che non andava, in quel piatto. Già con le forchette in mano pronti a infilzare quel bendiddìo, si vede il veneziano afferrare il piatto e portarlo via blaterando parole incomprensibili. Ci doveva essere una fetta di salame o di prosciutto disposta male; inaccettabile! Dopo trenta secondi torna con un'altra piattata, diversa. Aveva sostituito tutto quanto perché c'era la fetta fuori posto; ed è da allora che ce ne ricordiamo, di quella persona. Che ogni tanto ritorna quando si sta a parlare, come ritornano tutte le cose di quei tre giorni bizzarri e meravigliosi. Tutte le cose di quel bivio, al cui inizio c'è stato in qualche modo anche lui, il veneziano della posada deserta.

Non lo saprà mai chi eravamo e cosa stavamo a farci, lì. Non saprà nemmeno di quante volte sia stato nominato. Gli affettati erano buonissimi, e pure il resto. Serviva come un tornado, e il tornado si è manifestato in mille e un modo. E dal giornalaio sono uscito con un sorriso, e con i soliti due minuti di niente da raccontare.

sabato 27 settembre 2008

Le corse non finiscono


Si assottiglia la "lista dei nemici" del presidente Nixon.

Aumenta un'altra lista, invece. Aumenta, maledizione!

A proposito...io faccio il bookmaker.

Di bottigliette di Newman's Own ne ho visto una sola, in una cucina, tanti anni fa.

Mi è venuta a mente.

Vengono a mente tante cose, e forse troppe.

E comincia una corsa che, comunque vadano le cose, non finirà mai.

venerdì 19 settembre 2008

A volte funzionano




" Malanova! Addi a'vinìri u'tirrimòtu cu'l'occhi i adda ammazzari vui birbanti i ttutta Missina! "

(" Sia male! Che venga il terremoto con gli occhi [= che scelga le sue vittime] e che ammazzi voi farabutti e tutta Messina! ")

Questa frase, sembra, fu gridata da una donna messinese all'indirizzo del giudice e di tutta la corte che le avevano condannato il figlio alla galera. Era il 27 dicembre 1908.

Alle 5,21 del mattino del 28 dicembre...

martedì 16 settembre 2008

Sarà sempre là



Via della Scala è sempre là
ed io dal letto 26
malato di pazienza sto
e aspetto chi non torna più.

È un ragazzino magro che
cantava sempre insieme a me
e morì un giorno che non so
e i suoi bei sogni mi lasciò.

E Biancaneve è ancora là,
è un po' invecchiata, ma che fa
le mele non le mangia più
mangia i ragazzi giù del bar

Ricordo tanto tempo fa,
veniva a scuola insieme a me.
La guerra gia non c'era più,
e poi non c'eri neanche tu.

La brillantina e via così,
si incominciava il lunedì
ad invidiare quello che
aveva un libro da studiar

Diceva: "Non ti serve a niente,
la scuola non ti servirà",
e invece io tra quella gente
capivo un po' di verità

La marijuana ti fa male,
il chianti ammazza l'anemia,
i vecchi amici li ho lasciati,
ho preferito andare via

Così ho comprato un giradischi,
uno di quelli che non va
per non dar noia a quel vicino
che non riesce a riposar.

Ho conosciuto tante donne,
cattive, oneste, senza età
a tutte ho dato un po' qualcosa
con tanta generosità

A lei, mia madre, i dispiaceri
mentre a mia moglie dei bambini,
al primo amore i sentimenti,
i baci e l'acne giovanile.

Via della Scala è sempre là
ed io dal letto 26
io chiudo gli occhi e penso a te,
ti sento e invece non ci sei.


Good luck up there, Stefano.

lunedì 15 settembre 2008

Shining


Shining. Si chiama proprio così il baretto dei due, padre e figlio, che ieri, a Milano, hanno preso un ragazzo di 19 anni, pure di Milano ma con la pelle un po' troppo scura per l'attuale “degrado” e per l'ancor più attuale “sicurezza”, e lo hanno sprangato a morte. Così, una domenica mattina, aspettando le partite di pallone, aspettando il pranzo dagli zii. Cos'aveva fatto questo ragazzo? Aveva, secondo i due, cercato di rubare dei biscotti. Come potrebbe fare un ragazzino qualsiasi, tipo con la famosa marmellata. Cosa si fa a un bambino che cerca di fregare un biscotto o un dolcetto? Gli si tira uno scappellotto, ma attenzione a non farlo perché in questa società tanto sensibile c'è chi dice che si potrebbe causare un trauma incancellabile. A condizione che il ragazzino non sia, che so io, originario del Burkina Faso; allora è permesso causargli un trauma definitivo, rincorrerlo e finirlo a sprangate urlandogli “negro di merda”. Anzi, anche: “Sporchi negri vi ammazziamo”. Detto, fatto. Orsù, mandateci ora a leggere di quel che succedeva nell'Alabama alla fine degli anni '50. Sentiamoci superiori perché da noi “certe cose non succedono”. Mi viene quasi il sospetto che, da noi, certe cose non sono successe per un bel po' di tempo solo perché di negri non ce n'erano (ma c'erano comunque i napoletani, i siciliani, i “terroni” in genere). Una volta avuto un congruo numero di negri, ecco le sprangate. Ecco lo “Strange Fruit”. O forse, chissà, perché i negri, fino a allora, eravamo andati ad ammazzarli direttamente a casa loro, in Africa.

Il bar “Shining”. Il bellò è che, quei due, padre e figlio assassini, manco sanno che voglia dire, “Shining”. Uè, come lo chiamiamo il barètto? Scìningh? Ma no papà, si pronuncia Sciàiningh, uè proprio figo! Cosa volete che ne sappiano del film, di Jack Nicholson con la scure in mano, del mattino che ha l'oro in bocca. Eppure quel che è successo ieri in quel bar va ben oltre. Questi due non sono impazziti come Nicholson nel film. Fra un po' ci saranno i telegiornali, e intervisteranno di sicuro i passanti o i vicini di casa. “Due brave persone”. Come sentirli. Naturalmente ci sarà anche chi invocherà il degrado-esasperazionedeicittadini-quinonsenepuoppiù eccetera. Arriveranno a giustificarli. Magari diranno che sono stati “esagerati”, però....il famoso “però”, quello che usualmente accompagna l' “io non sono razzista”. Ops. Ma questi dicevano “negri di merda”; capito? Uno nato a Legnano può permettersi di dire ad un altro essere umano “negro di merda”, magari prima di ammazzarlo a sprangate. Ma la avete presente Legnano?

Dei cosiddetti “politici” non intendo parlare. Non m'importa nulla di quello che hanno detto o diranno. Né delle loro “condanne”, né delle loro “giustificazioni”. La stessa masnada di sciacalli, e chiedo anche scusa a quegli animali innocenti che seguono solo la natura, che non più di qualche mese fa, durante la campagna delle loro “elezioni”, hanno fatto a gara a chi proponeva più “sicurezza”, più repressione, più misure restrittive. Gli stessi che, quando il rumeno ha ammazzato la signora a Roma, hanno montato su un battage che ha prodotto i pogrom sperati. Gli stessi che ora parlano di “strumentalizzazione”. Gli stessi che vi hanno ridotto il cervello ad un ammasso di putredine, cari concittadini. Gli stessi che hanno fabbricato l' “operaio di Piombino” che ce l'aveva con la “sinistra radicale” perché si occupava di difendere solo “negri e finocchi”. Gli stessi dei loro sindaci-sceriffi e dei regolamenti di “civile convivenza”. Qui, di civile, non c'è più nulla. E neppure di convivenza. La convivenza sarebbe bene che qualcuno cominciasse a impararla raccogliendo finalmente la paura e il razzismo che ha seminato.

Che i “negri”, e i rumeni e tutti gli altri, si organizzassero per dare una lezione di convivenza a tutti noi. Che la “legalità” passasse prima per un bel po' di Black Panthers, di George Jackson. Che il baretto Shining fosse dato sanamente alle fiamme, magari assieme a qualche quotidianello, locale o meno, che fa andare avanti la baracca a suon di titoloni incendiari. Che qualcuno andasse a rovesciare carrocci e pontìde, così si vedrebbe come si cacherebbero addosso gli eroici bergamaschi o i trevigiani con la pancia intasata di merda al radicchio; e non solo loro. Anche le mammine napulitane, ché magari la smetterebbero di inventarsi il rom che rapisce il pupetto con conseguente distruzione dell'accampamento. Insomma, che ci fosse prima o poi una rivolta; e guardate che non è poi una cosa tanto peregrina. Proprio a Milano c'è già stata: ve li ricordate i cinesi di via Sarpi? Vi ricordate quante belle mazzate hanno preso i vigilantes e anche i passanti che sbraitavano? E vi ricordate come l'Italia chinò il capo davanti alla protesta dell'ambasciatore cinese? Sì, perché siamo bravi a fare la voce grossa coi piccoli; ma quando di mezzo c'è quella che si avvia ad essere la prima potenza mondiale...

Ma sono sicuramente discorsi che lasciano il tempo che trovano. Anzi, qualcuno potrebbe dire giustamente (come nel caso degli operai della Thyssen Krupp) che la “notizia vuole che se ne parli”. Del resto, la signora Reggiani di Roma è già stata dimenticata; ha assolto al suo compito. Così verrà dimenticato anche questo ragazzo “italiano” di colore, Abdul William Guibre. Ci ha pure un nome difficile da ricordare, poveretto. La notizia, l'indignazione, le polemiche, le contropolemiche, gli articoli, persino un post su un blog del tutto insignificante.

Però ne volevo parlare. E' una cosa mia. Attiene al non tacere. Non me la sentivo, oggi, di raccontare storielle dall'isola d'Elba, di fare battute sulla Fallitalia e sul commissario Fantozzi, di filosofeggiare su settembre o di parlare di cosa facevo nel 1974, ché tanto in fondo non gliene frega nulla a nessuno. Così come non gliene frega assolutamente a nessuno del ragazzino del Burkina Faso ammazzato perché, forse, aveva rubato un biscotto e due spiccioli. Così impara a non essere nato a Legnano.

I due, padre e figlio, dopo un po' di galera chiederanno il "perdono" tutti contriti, "perdono" che del resto qualche immancabile vescovazzo non mancherà di nominare anche se stavolta non potrà farlo durante la messa funebre, visto che il ragazzo era musulmano. Ci saranno i parenti che invocheranno "giustizia", eccetera. Il qui presente, invece, non la invoca più la loro "giustizia", né umana e né divina. Se la fottano, assieme alle loro "radici cristiane", alle loro nodose radici cristiane a forma di randello, o di spranga.


sabato 13 settembre 2008

Da lunedì


"ALITALIA, L'ALLARME DEL COMMISSARIO FANTOZZI:
MANCA IL CARBURANTE, DA LUNEDI' VOLI NON GARANTITI"

(Titolo di "Repubblica Online", 13 settembre 2008 ore 17.00)

Convocazione


"ALITALIA, ROTTE LE TRATTATIVE
FANTOZZI CI CONVOCHI"

(Titolo di "Repubblica" Online, 13 settembre 2008).

sabato 6 settembre 2008

My ball is back


Non so cos'è che ci lega alle cose, dico proprio agli oggetti. Qualcosa, credo, è la forza di associazione che genera i ricordi lunghi, quelli che non se ne vanno; sono cose in generale semplici, spesso addirittura dozzinali. Come, ad esempio, una banalissima palla di plastica gialla, marca “Super Tele”. In vendita nelle cartolerie, nelle mesticherie, ai mercatini per pochi spiccioli.

Diciott'anni fa, nel 1990, ce ne avevo una. Me l'ero portata in Grecia, per le vacanze (probabilmente immeritate anche allora) per giocarci in mare, perché fare a pallonate in mare m'è sempre piaciuto. Ero sull'isola di Spetses. Un pomeriggio di caldo infernale, quando stare in acqua era appunto l'unica salvezza.

Ci stavo giocando da solo quando un refolo di vento, una di quelle ventate che anche nei giorni più caldi, al mare, arrivano a dare dieci secondi di frescura, me la portò via. Ebbi un moto di sufficienza, pensando di poterla raggiungere facilmente; ma non ci fu nulla da fare. Prese il via in mare; quando mi accorsi che era troppo tardi, che s'era beccata una perfida corrente e che si stava allontanando nel mar Egeo per farsi la sua personale Odissea di palla gialla, mi prese un moto di disperazione.

Non ero un bambino, avevo ventisette anni. Ma quella palla banale, comune, mi ricordava probabilmente di quand'ero bambino, di quando giocavo per ore in mare all'Elba. O forse mi ci ero semplicemente affezionato, perché sono uno che lo fa sempre nei confronti degli oggetti qualsiasi. Non ci posso fare niente. Come se avessero una vita, un'anima. Come se le mani che li hanno fatti fossero in qualche bizzarro modo in contatto con me. Qualunque momento di gioia, di pace o di chissà qual altra cosa mi regalino, diventano una parte di me.

Sembra che fui colto dalla ragazza che era con me allora e da altri bagnanti mentre, in piedi in mare e con aria da ragazzino disperato gridavo “My ball! My ball!”. In inglese, chissà perché. Mi venne spontaneo, quasi a volermi far capire da tutti. Ma niente. Nessuno andò a ripigliarmela, la palla “Super Tele” gialla. La vidi allontanarsi nel mare, e scomparire rapidamente. E ogni tanto mi capitava di ripensarci.

Senonché oggi, 6 settembre 2008, è successa una cosa. Avevo steso i panni fuori, e sono andato a controllare se erano asciutti. Giusto pochi minuti fa. Ho aperto la porta e sono andato a toccare le magliette e gli asciugamani. Proprio davanti allo stendipanni c'era una cosa.

Una palla “Super Tele” gialla, completamente identica a quella persa in un'isola greca diciott'anni prima. Lì per terra, nel cortile, immobile.

Mi dispiace per il bambino che l'ha persa, se lo sentirò gridare o piangere giuro che vado a ricomprargliela seduta stante. Ma era tornata. Aveva fatto il suo lungo, lunghissimo giro per il mondo. Aveva visto terre lontane, e mari, ed occhi e mani; felice chi, come Ulisse, ha fatto il suo viaggio, e poi è tornato, dopo tante traversate, al paese dei suoi verdi anni.

Me la sono presa in mano e toccata, e non ci ho pensato nemmeno due secondi: l'ho infilata nel bagagliaio della macchina. E guai a chi me la tocca, perdio. No, non la riporterò al mare; ci fosse mai un'altra ventata assassina che me la riporta via! My ball is back, e sto sorridendo.

venerdì 5 settembre 2008

Mille lire




Di Napoli ho sempre parlato poco, e scritto ancor di meno; semplicemente perché non la conosco. Probabilmente non ha mai avuto una vera occasione di attenermi, e magari questa è una mia mancanza, una lacuna. Lo sarà senz'altro. I napoletani veraci che ho conosciuto si contano sulla punta delle dita, uno si è messo con una ragazza cui facevo il filo a sedici anni provocandomi una crisi eterna durata 42 minuti (il tempo di scrivere una melanconica e orripilante poesia adolescenziale) e un altro era un democristiano del cazzo, ma aiutatemi a dire del cazzo. Quanto alla città in sé, ci sarò stato tre volte in croce e tutte superficiali; l'ultima mi è toccato guidarci la macchina e mi sono ripromesso, se mai ci dovessi o volessi tornare, che mi ci muoverò rigorosamente a piedi; ché, poi, è il miglior modo di vedere e conoscere le città.

Ma di Napoli, stasera, m'è venuta la voglia di parlare per una storiellina piccina picciò, forse l'unico vero ricordo incancellabile che ho di quella città. Come quasi sempre accade, il ricordo più vivo è anche quello più lontano; e siccome la natura, aiutata dalla Settimana Enigmistica, mi ha dotato di una memoria simil-pichiana, posso anche dire che questo ricordo risale agli ultimi giorni di maggio del 1972. Non avevo ancora nove anni.

Mio padre era un tipo decisamente curioso, e nelle due accezioni principali del termine. Curioso perché letteralmente roso dalla voglia di vedere quel che una giovinezza da guerra e dopoguerra gli aveva impedito; e curioso perché aveva il dono dell'imprevedibilità. Per esempio, non era prevedibile che in quegli ultimi giorni di maggio del '72 incoraggiasse me e mio fratello maggiore a disertare l'ultima settimana di scuola perché aveva una voglia matta di saltare in macchina con tutta la famiglia e andarsene al sud. Un sud sconosciuto. Illuc erant leones. Se ne parlava alla tv, c'erano ancora gli emigranti, gli albanesi e i rumeni dell'epoca erano i siciliani o i napoletani; e, naturalmente, anche allora i meridionali si dividevano in “onesti” e “disonesti”. “E' siciliano ma è tanto bravo”, dicevano le massaie dal pizzicagnolo; subito dopo però arrivava la notizia del furto in appartamento e la stesse massaie dicevano: “Sarà stato un napoletano di sicuro”. Come dire: non cambiano i tempi, cambiano solo i bersagli.

Così mio padre comunicò alla famigliuola la sua improvvisa decisione di inscatolarci tutti sull'850 beige e farci fare una “gita”. Le “gite” di mio padre somigliavano a quel che ora sono “Avventure nel mondo” o roba del genere; ci ho un amico che passa le vacanze nel Tagikistan o fra gli Uiguri del Turkmenistan cinese, ma lo sfiderei volentieri a farsi Firenze-Reggio Calabria nel 1972 a bordo di un'850 con ottantamila chilometri già sul groppone. Quello fu. Tappe massacranti, la prima da Firenze a Salerno, poi da Salerno a Reggio passando per strade interne (da mio padre ho ereditato l'odio profondo per le autostrade), poi da Reggio a Taranto e infine da Taranto a Firenze. In otto giorni. Mi rivedo sempre assetato, vestito generalmente in modo ridicolo (con delle bermude blu stinte e un paio di occhiali da sole che sembravano televisori). Ce ne successero di tutti i colori: in una specie di albergo a Salerno, dove ci avevano sistemati tutti in una cameraccia con letto matrimoniale, lettino singolo e mobile-letto a chiusura, quest'ultimo durante la notte mi si chiuse veramente addosso sbarbando anche una lampadina che pendeva dal soffitto. Vicino a Serra San Bruno, in Calabria, l'850 rimase senza benzina e a mio padre toccò farsi otto chilometri a piedi fino a un distributore. A Taranto ci venne la malsana idea di farci un bagno nel Mar Piccolo, e se ne uscì fuori sporchi di petrolio o che accidenti era d'appiccicaticcio e puzzolente. A Bitonto capitammo esattamente nel giorno dove avevano ritrovato i cadaveri di tre bambine gettate in un pozzo, tutti allegri e giulivi a chiedere informazioni dove mangiare mentre in paese l'aria si affettava col coltello. E così via. Le piccole avventure nel mondo della famiglia Venturi.

Ma ero partito col voler parlare di Napoli e di quel ricordo, già. Successe durante la prima tappa, perché ovviamente a mio padre era venuta la voglia di entrare un po' dentro Napoli; e altrettanto ovviamente si perse. Confidando nei cartelli d'indicazione dell'autostrada, ad un certo punto si accorse che tali cartelli erano spartiti. Dissolti nel nulla. Ci ritrovammo in un quartiere, credo San Giovanni a Teduccio, senza sapere dove andare a sbattere il muso. Ad un tratto il miracolo: ricominciano i cartelli. Solo che sono fatti di cartone e la scritta “autostrada” è fatta col pennarello. “Mah”, disse mio padre, “sarà stata qualche anima buona visto che non hanno messo i cartelli veri...”

Segue fiducioso i cartelli artigianali, e ci ritroviamo come bischeri, con l'850 beige in un giorno già torrido, ad un baracchino di lamiera. Oltre il baracchino, una rampa di accesso (forse un'antico ingresso di lavoro ai cantieri, dimenticato lì) che dà su quello che sembra l'autostrada; scoprimmo poi che era un raccordo che portava a un casello. Dentro il baracchino un ometto con addosso una spolverina nera coi bottoni, di quelle da scrivano d'ufficio alla Policarpo de' Tappetti, e accanto a lui un bambino forse della mia età che fumava una sigaretta. Sopra, l'ennesimo cartone, ma più grosso, con scritto “AUTOSTRADA”. Mio padre si ferma esterrefatto e chiede: “Ma di qui si entra...?” L'ometto gli risponde qualcosa in napoletano, in cui si capisce solo “Mille lire”. La rampa è chiusa da una barriera fatta con una spranga arrugginita retta su due blocchi di cemento.

Mio padre, che scemo proprio non era, non ci sta a pensare nemmeno un secondo. Caccia fuori dal portafoglio mille lire e le dà all'ometto; il bambino, tranquillo, va alla spranga, la solleva e ci lascia passare; poi la riappoggia sui blocchi. Eccoci sul raccordo, prima in silenzio e poi a ridere quando davvero si arriva al casello, qualche chilometro dopo. Ecco cosa avevano escogitato l'ometto e il bambino, sicuramente un suo figliolo, per mandare avanti la baracca. Si erano accorti della rampa dimenticata e l'avevano trasformata in un finto casello autostradale, prezzo unico mille lire. Non è da escludere che i cartelli “ufficiali” che indicavano l'autostrada ci fossero stati, e che li avessero levati di mezzo loro per instradare al casello di famiglia. Mille lire. Alla fine della giornata, vuoi che non ci fossero passati dieci o quindici polli smarriti, il rappresentante romano, il camionista trentino, il motociclista olandese o gli avventurosi gitanti fiorentini? E il bello è che tutti quanti i polli, esattamente come noi, dopo esserci cascati si mettevano probabilmente a sganasciarsi dalle risate e a fare i complimenti a quel padre e a quel figlio.

Ecco, Napoli. Stanotte dovevo pagarle quel lontano ricordo. Ci metto sempre un po' di tempo a pagare, lo ammetto; ma prima o poi lo faccio. E se magari qualche napoletano o napoletana leggesse questa cosa, mi piacerebbe che mi parlasse di lei e di che cos'è; che mi desse quell'occasione per attenermi che ancora non ho mai avuto. Magari non accadrà, e resterà per sempre una sconosciuta e un casello finto; chissà che ne sarà stato di quell'uomo e di quel bimbo. Se esisterà ancora quella rampa, o se l'hanno abbattuta. Di sicuro non esiste più mio padre, e comunque Napoli la devo ringraziare, stanotte, per avermelo rimesso nella mente.

martedì 2 settembre 2008

Lebbrosi



Il fatto più o meno lo conoscono tutti: l'aggressione, da parte di alcuni banditi, ai frati del santuario di Belmonte, nel Canavese. I “malviventi” (chissà, i “benviventi” sono forse quelli delle sante famigliuole che quotidianamente si scannano in questo paese, specie per mano del maschio capofamìgghia) sono penetrati in quel santyssimo luogo ed hanno preso a mazzate quattro frati mentre, poveretti, stavano mangiando.

Lungi da me giustificare in qual modo si voglia quest'atto che è semplicemente vigliacco, come vigliacca è ogni aggressione a persone inermi (specialità riconosciuta, quest'ultima, di polizie bolzanete varie). Però, ieri, sembra che al santuario di Belmonte ci sia stata la “messa di riconciliazione”, officiata nientepopodimeno che dal cardinale arcivescovo di Torino in persona, Poletto. E qui comincia il bello, non senza avere augurato ai frati aggrediti una prontissima guarigione ed il buon ritorno alla loro ascetica vita.

Il cardinale Poletto, officiando la messa di “riconciliazione”, ha pronunciato delle palabras de fuego, ay de mí. “Persone di questo genere non sono degne di stare nella nostra società”, ha detto. “Vanno recuperate, non dobbiamo condannarli a morte, ma non sono degne di stare nella società come i lebbrosi di un tempo venivano allontanati perchè contagiavamo la comunità”.

Bisogna davvero plàudere a questo fulgido esempio di carità crystiana. Il cardinale ha emesso la sentenza, e menomale che non ha ritenuto opportuno applicare la pena capitale che tanti suoi predecessori avrebbero applicato senza battere ciglio e in nome d'iddìo. E' il cardinale che decide chi è degno e chi è indegno di stare in questa società; da oggi sappiamo che oltre ai banditi ci sono i lebbrosi. Ovvero persone colpite da una malattia terribile. Coloro che “venivano allontanati perché contagiavano la comunità”, messi ai margini, espulsi.

E non bastano certo gli esempi dei cristiani che, in mezzo ai lebbrosi, ci sono andati volontariamente. Non vorrei sbagliarmi, ma fra di essi ci dev'essere stato anche un certo Gesù Cristo; oppure, quand'anche mi sbagliassi, decine e decine di missionari che, in mezzo agli stermini di popolazioni native cui hanno dato il loro prezioso contributo (tipo in Sudamerica), ogni tanto si sentivano qualche toc toc nella coscienza e tra i lebbrosi, gli appestati e i malati di AIDS ci sono andati per cercare di fare qualcosa per quei fratelli. Per il cardinale Poletto, invece, i lebbrosi sono come i banditi: indegni, colpiti da un “virus”.

Chissà, magari è lo stesso virus dell'AIDS cui Santa Madre Chiesa ha dato un bell'aiutino con le sue campagne contro ogni tipo di anticoncezionale, preservativo in primis. Ma non è nemmeno questo il punto. Non sono uno che fa bandiera di ateismo, e gli ateismi cretini mi fanno lo stesso schifo delle religiosità cretine. Mi fa orrore l'ipocrisia di quest'uomo, lo stesso orrore che mi fa la violenza di alcune persone che aggrediscono dei vecchi che stanno mangiando in santa pace nel loro convento. Mi fa orrore l' “appello alle istituzioni” di un uomo che ha appena paragonato degli aggressori a degli innocenti colpiti da una malattia. Mi fa orrore l'invito al “ravvedimento” da una persona che ha vomitato tutto questo durante un atto di “riconciliazione”. Mi fa orrore perché è una cosa vera, perché è ciò che veramente hanno dentro grattata la patina della “carità”.

E mi fa orrore che, tra gli astanti, ci fosse anche un nazista come Borghezio. Ma credo che, davvero, fosse al suo posto. Il suo posto naturale accanto al cardinale che espelle i lebbrosi. E Gesù Cristo? Magari c'è andato lui a parlare a quei banditi; magari sta lì ad ascoltare perché l'hanno fatto. Iddio non voglia che ci sia stato pure un motivo.