lunedì 28 luglio 2008

Pane



Poiché ho 45 anni, non posso parlare di gran tempi addietro. O meglio, ne posso parlare per sentito dire, per racconti diretti o indiretti, per diecimila altri motivi; però non c'ero al di là di quella fine degli anni '60 e di quegli anni '70 in cui i ricordi sono miei per davvero. Si parla quindi dei primi anni '70, a Firenze, e di una scuola comunale per territorio, ma già abbondantemente in campagna; e una campagna ancora tale, coltivata, non fatta per le ville e le villette dei signori -che pure già c'erano, visto che si era alle pendici di Settignano, al Ponte a Mensola.

Mi capitò, molti anni dopo, di conoscere un documentario di un regista verso il quale ho sempre nutrito una passione smodata, Luis Buñuel. Nel 1932 il calandese dei tamburi di Nazarín girò Tierra sin pan, “Terra senza pane”, nella desolata regione delle Hurdes, in Castiglia. Una contrada talmente arretrata e in condizioni così primitive e miserevoli, che neppure si conosceva l'uso del pane. Nel 1932, in Spagna, alla vigilia della guerra civile. Pane. Quanto mi garba, il pane. Mi garba alla toscana, terra che almeno fu di pane, e di pane dappertutto. La zuppa di pane, il pandiramerino, il pane e olio. E il pane da solo. Nel 1970 o giù di lì, in una normale scuola elementare comunale fiorentina di campagna, dotata di cucine, cuciniere (dire “cuoche” non si poteva) e di poca roba mandata un po' dai servizi dell'Annona e un po' portata dai babbi contadini dei ragazzi, la merenda consisteva esattamente di questo. Pane solo. Pane e basta. Di quello fiorentino, senza sale, inconcepibile da Aosta fino a Capo Passero.

Dico la merenda, perché c'era il doposcuola. Finite le lezioni della mattina, si restava quasi tutti a mangiare; dei tavolacci sistemati in un corridoio al pianterreno, davanti alle classi. E si mangiava per davvero quel che c'era. Pasta condita quasi sempre con un sugo di pomodoro il cui colore variava dal giallo pallido all'arancione smunto. Quantità abissali di verdure che mi hanno lasciato come imperituro ricordo l'odio per i fagiolini lessi. Qualche volta una carnaccia filacciosa, forse fatta per il lesso ma che la Franca e la Claudia aggiustavano in salsa, tagliata a fette. Al sabato la festa: siccome s'era di meno, ci davano anche dei formaggini di dubbia provenienza e del succo di pera in barattoli di metallo, e che infatti aveva un deciso gusto metallico.

La merenda del mattino veniva da casa, e giù pane. C'erano ancora di quelle mamme che sbraitavano a pieni polmoni contro quelle maledette merendine tipo Brioss o Fiesta Snack, e che infilavano nelle cartelle sleppe di pane e marmellata o di pane e salame; ma quelle venivano fucilate durante la ricreazione delle undici. Dio madonna, che razza di fame che s'aveva. Ora, dunque, a me è rimasta. Non mi si noterà mai per la mia linea perfetta, ma se ci avete da spazzolare gli avanzi chiamatemi pure ché non fo storie. Vi ripulisco la tavola, e se non ci state attenti c'è il pure il caso che attenti alla verginità del vostro frigorifero. Stàtev' accuort'.

Finito il lautissimo pranzo, s'andava in giardino a giocare. I maschi a pallone e le femmine ai loro giochi, che a noi non ce ne fregava assolutamente un cazzo. C'era un giardino circondato d'alberi, ma col ripiano asfaltato; e giù “finali”. Ogni giorno una finale, i tornei con le eliminatorie non erano contemplati. Dopo avere corso per du' ore, i nostri stomachini erano di nuovo simili al pozzo di San Due Patrizi, perché un san Patrizio solo non renderebbe bene l'idea. E allora, al rientro in classe per fare i compiti sorvegliati dalla maestra del doposcuola, bisognava arrangiarsi. Passava il bidello, un giorno il Conti che stava lì accanto in via Madonna delle Grazie, un giorno Beppino coi suoi baffi. Con gran ceste di pane. Solo.

Pane, pane e pane. C'era l'assalto a quelle povere ceste, ché ancora oggi mi chiedo come facessero e non essere mangiate pure loro. Tempeste di bricioli, l'acquaccia dei rubinetti dei bagni che allora sembrava il monumento al cloro, e molliche, e ciomp, e mangia fette su fette, a strippapelle. E non vorrei che mi si prendesse per un bieco laudator temporis acti (beh, avrò mangiato pane e basta ma, a differenza di qualche presidente del consiglio, il latino non lo sbaglio): in quel pane non mi riesce di ricordarci “sapori antichi”, “bellezze rustiche”, “tempi più semplici e veri” ed altre stronzate del genere. Sapeva di pane sciocco, e come tale me ne ricordo. Ci avremmo tutti quanti infilato sopra un bel po' di companatico, ci avessero portato anche soltanto l'olio e il sale. Ma l'olio e il sale servivano per il pranzo (anzi, per la refezione, come si diceva allora; una parola, credo, oramai scomparsa dall'uso), e poi figurarsi come si sarebbe conciata un'orda di ragazzini e ragazzine assatanate -ché anche le femmine, coi loro giochi alle bandierine e a sonasega cos'altro ché tanto noi ci s'aveva da giocare a pallone, di corse ne facevano-. Quindi, pane. Con la pancia piena di pane s'affrontavano le lezioni da fare, tipo i problemini d'aritmetica in cui il solito babbo portava a Giacomino sei mele, due fette di torta, otto noci e cinque caramelle. Il problema consisteva, nelle nostre teste e particolarmente nella mia, come sottrarre a Giacomino tutto quel bendiddìo, e papparcelo, e andassero pure in culo lui e il su' babbo ché mentre si leggevano quelle cose altro non s'aveva che panaccio.

No, no, niente lodi ai tempi che furono. Anche perché non furono mica ai primi del '900, ai tempi dei bisnonni; trentacinqu'anni fa, o poco più. C'erano dei maestri e delle maestre giovani, che alla nostra età, sotto la guerra, ci parlavano di quando non c'era manco il pane. “Avercelo!”, ci dicevano; e noi ce lo avevamo. Non c'erano toccate né la guerra né le Hurdes; anche se, fin da bambini, conoscevamo il significato di parole come sfollato, tessera annonaria, oscuramento. S'era stati fortunati. C'era la mia, di maestra, la Pierina Marziali da Livorno, che era già anziana e che s'era vista una novantina di bombardamenti nella sua città. Fumava in classe come un torcione, e a noi non ci ha mai dato nessuna noia. Ma proprio nessuna. Anche perché ogni tanto, alla ricreazione, una nazionale fregata in casa ci scappava eccome. Poi pane, pane e pane. E nessuna morale; quand'anche vi pungesse vaghezza di mettercela, ve la fate da voi. Io mi fermo qui.

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