giovedì 31 gennaio 2008

Χαίρε, χαίρε ελευθεριά!


Io credo nella libertà di ognuno. E se dico libertà non è qualcosa di astratto o, peggio, la mia libertà che mi riservo come esclusiva fregandomene altamente della tua. La tua libertà è la mia. Fare ciò che si vuole, senza costrizioni, senza obblighi. Particolarmente senza obblighi "morali", ma ogni altro tipo è incluso.

Però, vedi, anche io mi metto qui a sedere e scrivo le mie cose, belle o brutte che siano, mentre c'è qualcuno che mi stira i pantaloni o mi prepara da mangiare. Anche per questo me ne vado a stare per conto mio. Non voglio più che mi sia stirato nulla. Piuttosto mangio una scatoletta di cacca di cane. Ogni forma di convivenza pone degli obblighi; e quando si pongono degli obblighi, la libertà viene a cessare. Diventa, appunto, astratta. E cessa ogni altra cosa. Diventa mota.

Io, che ho sempre detto che un simbolo di libertà è, specialmente per un uomo, sapersi rammendare da solo un calzino, attaccarsi un bottone alla giacca, cuocersi un uovo. Poi la libertà ha urti continui con la pigrizia, con la comodità, con le convenzioni. E allora ti metti a sedere, e ti rialzi soltanto quando ti ritrovi con te stesso. Quando puoi scegliere se rammendartelo, quel calzino, o se lasciarlo bucato.

Vivere soli non è soltanto riappropriarsi della propria libertà. E' restituirla agli altri. E quando si sceglie di passare momenti più o meno lunghi assieme, è fregarsene di ogni altra cosa che non sia lo stare assieme. Senza orari e senza bandiere. E' la libertà che tu esca da sola o da solo alle tre di notte, se ti va, è la libertà di non provare nessuna gelosia e nessuna apprensione perché tu sei una persona libera e, più che altro, sei semplicemente una persona senza nessun bisogno di aggettivi. Neppure "libera".

E' la libertà di andare e venire, di vedere chi ti pare, di non vedere nessuno. E' la libertà di non legarti con dei contratti, ché già i notai (quelli dello stato e quelli dello spirito) lavorano a piene mani e non c'è nessun bisogno che io e te li facciamo sgobbare ulteriormente. Che si riposino. Lavorare stanca. Lavorare è la forma più subdola e terribile di omicidio-suicidio che esista.

E io te la do, ad esempio a te, mamma, questa libertà. Che non ti prenderai. Perché quando avevi cinque o sei anni tua madre già t'insegnava a essere una brava donnina di casa, ti metteva in cucina, e giù manate se non le facevi bene le cosine. Perché ancora adesso che sei anziana e acciaccata non concepisci la vita senza quelle maledette faccende di casa. Perché c'è quel pezzo di merda di tuo figlio che scrive tutte queste belle cosine sulla libertà mentre tu te ne sei andata appena a letto perché avevi da stirare cose che avrebbero benissimo potuto restare spiegazzate.

Perché continuerai a farlo per chissà chi, anche se tuo figlio, no, piuttosto di portarti a stirare le cose come fanno tanti "vividassolo" di questa ceppa di minchia, le terrà eternamente spiegazzate; oppure, se vorrà, si piglierà la sua bella asse e se le stirerà da solo, ché magari gli riviene pure qualche scemenza da scrivere su "Bielle".

Perché, anche lontano, c'è qualcun'altra che in questo preciso momento ha da stirare dopo aver passato una giornata intera a lavorare. Perché, anche lontano, c'è qualcun altro che in questo preciso momento ha tutti i pensieri elevati di questo mondo mentre una madre, una moglie, una sorella o una filippina gli sta stirando i poetici fazzoletti, le rivoluzionarie camicie, i depressi calzini, le anarchiche lenzuola, le disperate magliette, le innamorate mutande previamente lavate dai tuoi sbaffi di merda ché ti fa fatica pure pulirti il culo perbene.

sabato 26 gennaio 2008

Aurea mediocritas


Questo blog ha come intestazione una frase che, a suo tempo, mi venne del tutto naturale. Dovendo mettere una presentazione sintetica del titolare, ovvero del sottoscritto, giocoforza lo feci con qualcosa che considero la mia unica "sintesi" possibile: quella di stare bene in pochi posti e con poca gente, che però amo molto. Poi, qualche giorno fa, ci ho aggiunto, tra parentesi, un verbo al passato; accade anche di non amare più persone o luoghi che una volta hanno invece rappresentato qualcosa di importante o persino di speciale. Tutto normale. Forse avrei dovuto metterla immediatamente, quella cosa tra parentesi.

Un blog, poi, è solo apparentemente uno spazio "privato". Non esiste nessun "privato" quando, comunque, quel che si scrive è a disposizione di tutti. Registrato da Google, catalogato, eternizzato o quasi. Non esiste e non può esistere "riservatezza", a parte quella consistente nel non nominare fatti e persone che potrebbero, per qualsiasi motivo, non gradirlo. Mi è accaduto, qualche tempo fa, di contravvenire a questa regola, e la cosa mi è stata fatta più che giustamente notare; ma, per il resto, al momento di inserire un nuovo post disabilito regolarmente ogni opzione restrittiva. Come chiunque può leggere, chiunque può scrivere. Qualsiasi cosa che gli passi per la testa di dire, o di dirmi. Bella o brutta che sia, non fa nessuna differenza.

E', questo, il "sale" della cosa, la ragione stessa dell'esistenza di uno spazio come questo. Si raccontano delle cose, di qualsiasi genere, e dagli eventuali commenti si traggono altri spunti, altre voglie di parlare. Un'autoalimentazione, insomma. Così, stamani che ho ancor meno da fare del solito, mi è venuta la voglia di parlare della mediocrità. E anche del circondarsi. Poiché mi è stato detto apertis verbis che "amo circondarmi di persone mediocri", vorrei sviscerare un po' più la cosa dal mio punto di vista (che, insomma, avrà pur sempre un mezz'etto di valore, o almeno spero).

Curiosamente, la cosa che più mi ha colpito in questa secca frase non sono state le "persone mediocri", ma il "circondarmi". Ora, se c'è una cosa che mi riesce difficile individuare nella mia vita, è l'essere circondato. Da chiunque, mediocre o meno che sia. Sono sempre stato, e probabilmente sarò sempre, un solitario. Pochissimi amici, per di più con la mia tendenza agli innamoramenti folli che, quasi sempre, si sono rivelati tali soltanto da parte mia. Ricambiati, nel migliore dei casi, soltanto in parte. Col tempo mi sono abituato, o rassegnato, a considerare tutto questo come mia esclusiva colpa. Ci dev'essere, in me, qualcosa che "blocca", che impedisce il pieno ricambio dell'affetto enorme che mi capita di provare, a volte, per qualcuno. Sarà, con tutta probabilità, la mia scarsa chiarezza, o perlomeno questa dev'essere una componente dell'insieme; da dire anche che qualche propugnatore o propugnatrice di chiarezze con cui in 44 anni e rotti di vita ho avuto a che fare, sì è alla fin dei conti rivelato o rivelata ancor meno chiaro o chiara di me. Ma non importa.

Poi, sicuramente, spesso e volentieri sono noioso, e non di una noia semplice da gestire. Ho, come dire, delle passioni che sono intrinsecamente pallose. La linguistica, ad esempio; anche se, alla fin dei conti, l'unica persona in tutta la mia vita in cui il mio folle innamoramento sia stato pienamente ricambiato resterà quel Pierfrancesco Poli, lettore di ceco e slovacco, glottomane di cui tempo fa parlai qua dentro. Ma è morto. La condivisione piena è una cosa che ho sempre ricercato, senza mai trovare; evidentemente non sono adatto alla cosa. Non ho esperienze, nella vita, che mi abbiano portato a condividere un'azione, un periodo, un "trovarsi sulla stessa barca"; mi accorgo anzi di non essere mai stato sulla stessa barca con nessuno. Anche sulla famosa "barricata" dove ogni tanto si dice di stare assieme, a un certo punto sono convinto che mi ritroverei a sparare, e a crepare, da solo. Con tutto ciò, nessuno mai si permetta di pensare che non ci sarei, su quella barricata. Qualsiasi cosa io faccia o dica, non mi defilo né mi sfilo.

Tutto questo per dire, con la mia solita e spaventosa mancanza di concisione, che proprio tutto sono stato, sono e sarò fuorché "circondato". Ho delle persone che conosco, per loro ho provato, continuo a provare e proverò del bene. Continuo a provarlo, in qualche caso, pur sapendo che da parte loro quel po' di affetto o di amore che magari c'è stato si è trasformato in odio o, peggio, in indifferenza. Ma non sono mai stato, né mi sono mai considerato, una specie di "sole" al centro di un sistema di pianeti e di satelliti. Non mi sono mai posto il problema di chi mi girasse intorno. Non ho mai ricercato l'eccezionalità a tutti i costi negli altri, proprio perché non mi ritengo niente e nessuno di eccezionale. E non lo dico affatto per "modestia", ché modesto non sono.

Ci sono, forse, due o tre cose in cui un po' "emergo"; ma alla fin fine, a lungo andare e nonostante le apparenze, sono quello che meno le fa notare e pesare al mondo; se anche la vita mi ha riservato tutte le complicazioni e gli assurdi che è possibile immaginare, dentro di me, nel mio profondo, sono sempre voluto restare una persona semplice, senza ambizioni, che si contenta di poco. E se, attorno a me, sono girate e continuano a girare delle persone "mediocri", sto bene attento a non distribuire questo epiteto a piene mani. L'aggettivo "mediocre" mi ricorda troppo da vicino due parole che sono quelle che più toglierei dal vocabolario: "vincente" e "perdente". Attenzione, ché sono due parole identiche anche se sembrano esprimere un'opposizione, un contrario. Mi sono ritrovato di fronte a dei sedicenti "perdenti" che usavano questa loro presunta sconfitta come una vittoria, per non dire come una mitragliatrice.

Nessuna mediocrità. Nessuna vittoria e nessuna sconfitta. Solo vite differenti, ognuna con le sue cose, le sue vicende, le sue delusioni, le sue bellezze. Anche nella persona più imbecille mi è capitato, a volte, di trovare un granello di luce. E dalle personi più comuni, più ordinarie, più terra-terra, ho imparato o creduto comunque di imparare qualcosa. Perché sono un solitario aperto. Non ho chiusure. Non ho barriere, sono tutte abbassate. E allora dico: continuerò ad essere così. Sicuramente con una tendenza in meno, cioè quella di fabbricarmi artificialmente certe eccezionalità che non ho e che so di non avere. Magari, poi, a un certo punto mi riuscisse di essere "circondato"; o forse no. Non vorrei accorgermi, un giorno, di essere circondato non tanto di mediocri, straordinari o quant'altro, ma di estranei. Oppure di essere io l'estraneo, l'intruso di turno. Oppure a andar dietro a qualche eccezionale, non comune, straordinario pezzo di merda per il quale ho lasciato perdere qualche buon mediocre che, a modo suo, magari mi voleva bene sul serio. Nel frattempo cerco di dare, per quel che mi riesce, un po' di sgangherato amore, ed è un amore che non chiede patenti.

venerdì 25 gennaio 2008

Intervalli



Tanti e tanti anni fa, quando la televisione era solo la RAI e in bianco e nero, c'era l' "Intervallo". L'arpa, le pecorine e le vedute delle località italiane; i tempi morti fra una trasmissione e l'altra. E così è andata in questi mesi; tempi morti. Senza arpe, senza pecore, senza vedute. Ma sono mai morti i tempi?

Sembrano, forse. In realtà, a modo loro, sono tempi vivissimi. Se ne combinano di tutti i colori, di belle e di brutte; hanno il loro bagaglio di cose di cui pentirsi, ma forse è semplicemente quello che si chiama il corso degli eventi. Mi stavo chiedendo in questi giorni quali segnali mi stessero mandando certe "coincidenze" che stavo vivendo a ripetizione, a cadenza quasi quotidiana; parlandone, ho citato il caso.

Mi è stato risposto che il caso non esiste; e quella persona che mi ha dato questa risposta, la vorrei ringraziare pubblicamente. Nessun bisogno di nomi. Chi sa, sa. La vorrei ringraziare a prescindere da quel che pensi di me in questo frangente; aveva ragione. Il caso non esiste.

E così, a un certo punto, preceduti da certe avvisaglie, gli intervalli terminano. Il ponte è stato percorso. Il pedaggio è stato pagato, e anche con interessi maggiorati. Ho seguitato per anni a firmare i post sui newsgroups con una frase in tedesco antico secondo la quale bisogna buttar via la scala una volta che è servita per salire; ma un ponte non è una scala. Un ponte non si butta via.

E così oggi, 25 gennaio 2008, si è all'improvviso aperta la sbarra. Via libera. In una giornata di sole, quasi primaverile, oppure semplicemente un sole ancora invernale nel quale si vuole vedere l'avvisaglia della primavera. Sarà primavera? Lo sarà. Prima o poi. Intanto l'inverno manda questo regalo. Ieri sera un amico in una specie di pub irlandese. Oggi l'Irlanda è scesa da un treno.

I primi passi e già si capisce che l'intervallo è giunto alla fine. Poi via, a bordo di una buffa automobile perché le automobili sono tutte quante buffe. Durante il cammino abbiamo incontrato Vladimir Majakovskij che, non mi chiedete come, ci ha aperto una stanza. E allora no, no che il caso non esiste. E mentre l'Irlanda ripartiva, e mentre mi allontanavo oramai al di là dal ponte, e mentre i miei pensieri vi si erano installati per non uscirvi, ripensavo a un gazebo davanti a un'altra stazione, a un ragazzo, ed alla poca serietà che a diciassett'anni ha un solo nome.

domenica 20 gennaio 2008

Il momento giusto



C'era, qui in questa casa, una specie di gatto in coabitazione. Nel senso che andava e veniva, attraverso i giardini, dalla casa di una signora del vicinato a questa casa. Da più di due anni, oramai. Un simil-sacro birmano, bellissimo, regale. Si chiamava Tyson. Ancora poche notti fa me lo sono preso a dormire in camera: arrivava e si metteva sull'angolo del letto più vicino al termosifone, a dormire; e si dormiva. L'unico essere al mondo, mi è venuto a volte da pensare, che resisteva al mio russare. Dormiva e basta, senza tappi nelle orecchie né urla notturne né botte in pieno sonno; come se russare fosse una colpa, una cosa fatta apposta; e io, disgraziatamente, russo come una sega circolare.

Ieri sera, mentre non c'ero, è stato preso in pieno da una macchina, che ha tirato diritto. Lasciato lì in mezzo a via D'Annunzio finché qualcuno non lo ha raccattato e avvertito la vicina di casa, che poi ha telefonato a mia madre piangendo. E anche io ce ne avrei una gran voglia, porca puttana. Non voglio dire altro, perché non c'è da dire altro.

Come fosse quasi un segnale ben preciso. Che è arrivato il momento giusto di andarsene di qui. Non un giorno prima, non un giorno dopo.




venerdì 18 gennaio 2008

Cazzoguardaquéllo


Oggi mi è successa una cosa che non mi accadrà, credo, mai più nella vita. Mai mi era accaduta prima, e la logica ed il buonsenso vogliono che resti un unicum, esattamente come l'amaro della Zwack. Poi, certo, esiste l'imponderabile; esistono il caso, la fortuità, il fato, la botta di culo e tutto quanto; ma oramai sono stato ammaestrato a non essere più tanto fiducioso al riguardo e preferisco glissare con quel rimasuglio di saggezza che mi è rimasto.

Dunque, dicevo. Oggi dovevo andare a pagare delle cose, cose necessarie quanto impalpabili. Cos'è, ad esempio, un diritto di agenzia? Non lo si vede, ma lo si paga, e salato. E una dichiarazione integrativa di successione? Fogli, cifre, calcoli. E un atto con cui una tizia ha certificato che la mia identità le sarebbe "nota" quando non mi ha mai visto prima in vita sua, né io ho visto lei? Si pagano cose strane, a volte; ma si deve –o così almeno pare. Ci sono del resto cose che si pagano ancora più care; certe imprudenze, o certe parole, o certe azioni. Hanno un prezzo che condanna a terminazioni comminate con i ricordi da un lato, e con il martello dell'indifferenza dall'altro. Ma sono, queste, cose che non sono trattate dalle banche.

Le banche trattano soldi. Quelli che oggi ho dovuto ritirare, e in contanti. Non posso emettere assegni per via di un protesto di euro cinquanta, scadente il 19 gennaio del 2009. Niente assegni, niente carta di credito; solo contanti. E così, oggi alle quattordici e venti, mi sono ritrovato con dodicimila euro in contanti nel portafoglio. Così suddivisi: quattromilaottocento per il diritto di agenzia. Quasi duemila per le prestazioni di geometri, amministratori di condominio e altri professionisti. Duemilasettecento per il diritto di agenzia in acquisto. Duemiladuecento per il notaio in acquisto. Totale: undicimila e settecento euro. Trecento me li sono tenuti per me.

Ora, bisognerebbe che vi dicessi cos'è normalmente il mio portafoglio. Ci sono i documenti, la carta di identità, la patente di guida, il tesserino sanitario, qualche altra tessera varia raccattata in giro per la vita; ci sono quintali di scontrini, di foglietti, di petit papiers (quelli che bisognava far parlare secondo Serge Gainsbourg); c'è una pietruzza rossa che resiste ancora a non so più neanche cosa; e dieci euro al massimo. Anche in quest'ultimo periodo in cui mi è andata sicuramente meglio dal punto di vista economico, le abitudini sono rimaste quelle. Memore di quando non c'erano nemmeno i dieci euro, e non per abitudine ma per semplice mancanza. Squattrinato cronico, homo sine pecunia com'ebbi già a dire tempo fa. La necessaria consuetudine di sentirsi ricco in altro e sovente disperato modo, consuetudine che peraltro non vorrei mai perdere; e l'inveterata rinuncia al superfluo di qualsiasi genere. Non fossi un mangiatore praticamente satanico, sarei di costumi decisamente spartani. Non me ne importa un accidente del vestire, delle mode, di niente del genere; ci sono stati periodi in cui ho fatto a meno di tutto.

Alle quattordici e venti di oggi, diciotto gennaio duemilaotto, nello stesso momento in cui quattro anni fa precisi scendevo da un treno alla stazione di Como per andare verso quel che sarebbe stato, il mio portafoglio gridava aiuto. Grondava di denaro. Non si chiudeva. Banconote da cinquecento, da cento, da cinquanta euro. Me lo sono ficcato nella tasca interna d'una giacca comprata circa due secoli fa a Porta Portese, e la giacca ha assunto una forma indefinibile, tipo la faccia del sonno di Salvador Dalí. Mi sono sentito strano. Pur in tutti i miei sconquassi, c'è qualche riccardoventuri che è sempre rimasto quello, ad esempio un ragazzo senza una lira; quella protuberanza nella giacca era inaudita. Scoppiare di soldi, pur sapendo che sarebbero stati spesi in breve tempo.

Cosa che è avvenuta, pagando tutto quel che c'era da pagare. A persone sicuramente abituate ad averci i portafogli regolarmente gonfi, con collezioni di carte di credito, con chissà quale altra diavoleria che non mi posso permettere nemmeno ora che ne avrei la possibilità almeno temporanea. Mi sono permesso due lussi: riempire il telefonino con una ricarica monstre da cinquanta euro, e un tassì. Una di quelle cose che Piero Ciampi non s'era mai potuto permettere assieme alla frittata di cipolle, insomma. Ma, prima del tassì, m'è presa la voglia di un caffè; del resto il bar era lì davanti. E ci sono entrato con la mia solita faccia, ché tanto ce l'ho e mi tocca tenermela, e scordandomi in dieci secondi che nel portafoglio avevo tutti quei soldi. Ci avevo, come sempre, dieci euro. Anzi meno. Monetine. Spiccioli. Così ho ordinato il caffè, alla pasticceria "Il bersagliere" del viale Duse, e me lo sono bevuto. Ottimo, peraltro; lo sanno fare proprio bene.

Poi sono andato a pagare alla cassa, e ho dovuto tirar fuori il portafoglio; accanto a me c'erano un ragazzo e una ragazza di una ventina d'anni o giù di lì. Hanno notato il bendiddìo che c'era dentro. E io, che spesso devo cercare gli spiccioli in mezzo ai foglietti, stavo là a pagare cacciando fuori un cinquantone perché di tagli più piccoli non ce ne avevo. Ho percepito degli sguardi di rabbia nei miei confronti; ho sentito un "cazzoguardaquéllo…" da parte del ragazzo. Mi sono sentito irrimediabilmente vecchio, passato, scaduto. E ho avuto un'improvvisa voglia di sbrigarmi a andare a pagare tutto quanto, a svuotarlo quel portafoglio da tutti quei soldi di merda, e di ridiventare alla svelta riccardoventuri; ché sarà fatto sicuramente in modo pessimo, ma è quello lì e altro non gli riesce essere.

Ce ne avrei avuto la voglia di dirglielo, a quel ragazzo; ma tanto a che sarebbe servito. La mia identità non gli era nota.

mercoledì 16 gennaio 2008

Le chiavi


Ho in mano le chiavi della mia nuova dimora.

Si tratta di un castello medievale della fine del XVIII secolo, restaurato da un pool di architetti formato da Renzo Piano, Charles Forte, Alvar Aalto e Ivan Basso. Sorge all'angolo di via Isidoro del Lungo e via del Ronco Corto, al centro di un vasto parco macchine da dove si gode il maestoso panorama delle Alpi Transilvaniche, della Pennsylvania e di Silvana Mangano (quand'era ne' su' cenci). Attraversato dal Rio de Janeiro, che sfocia ner Mar Lombrando, il parco fu cantato da Omero nella "Gerusalemme Incatenata", dal Boiardo nella sua "Bibbia" e persino da Paolo Talanca nell' "Achille". Or non è guari, l'avito maniero fu utilizzato dalla Mafia del Brenta per certe sue pratiche da sbrigare, prima che tutti i suoi membri corressero a rifarsi una vita nella Vall'Anzasca.

Interamente ricoperto di platino al cromo-vanadio, ma con infissi in molibdeno, maniglie in meitnerio e bidé in ununnillio, si svolge per ventiquattro ali ognuna delle quali ispirata a una canzone; così, nell'ala cosiddetta "Bocca di Rosa" soggiornano permanentemente decine di fanciulle munite di cartelli gialli con una scritta nera, mentre nell'ala "Blasfemo" c'è da stare un po' attenti, perché ti cercano l'anima a forza di botte. Soggiornerò prevalentemente, però, nell'area "Tu vuò' fa' l'americano" perché attualmente mi mancano pure i soldi pe'e' Camèl e la borsetta di mammà si è chiusa definitivamente. Tutto sarà arredato in modo spartano, ma con qualche sprazzo di corinzio, di ateniese e persino di tebano. Mmm, no, tebano meglio di no.

Di fronte al cancello, dove sosta la mia Torpedo Blé alla cui guida si alterneranno Juan Manuel Fangio, Graham Hill, Gilles Villeneuve e Ayrton Senna, mi attenderà la mia fidanzata, Elena; su di lei mi hanno comunicato qualche diceria della quale, però non terrò alcun conto. Passi per la storiella d'aver fatto scoppiare una guerra, ma chiamarla "guerra di Troia" no, questo è decisamente troppo assai. Ma come si permettono? E se anche fosse? Tutta 'nvidia, 'tsè. Voi, che per le vostre donne manco scoppierebbe un raudo! E ad ogni modo, questo è niente. Proprio al centro del castello, sorgerà l'unico, l'assoluto, l'impareggiabile. Il sogno di una vita che si avvera. The Big One. Il padellone dove sarà possibile cucinare tutti giorni una frittata di quarant'òva!

Ach so. Riccardo, ehi. Sveglia. Ehi!
…..zzzo c'èèèè…?
Dlin dlin.
Le chiavi. Ti sei scordato le chiavi!
No, guarda.
Le ho in mano.
Dlin dlin.

Poesie d'amqualcosa


Ogni tanto bisogna pagare un debito alle poesie d'amore. Sono, probabilmente, tutte quante ridicole come delle lettere d'amore diceva Pessoa; e ancor più probabilmente, non sarebbero d'amore se non fossero ridicole. Ma di un debito si tratta, quando son cose che accompagnano, nel bene e nel male, una vita intera; e i debiti è sempre bene pagarli, prima o poi. Domani pomeriggio, per esempio, o al massimo venerdì mattina, monterò su un treno per pagarne uno; stasera, invece, piglio tre poesie d'amqualcosa che dei miei sgangherati anni sono state parte.

La prima è il sonetto XIV di Louise Labé.

Finché i miei occhi potranno sparger lacrime
A rimpiangere i momenti con te passati,
Finché resistere ai singhiozzi ed ai sospiri
Potrà la mia voce, e un po' farsi sentire,
Finché la mia mano potrà tender le corde
Del liuto sordo per cantare le tue grazie,
Finché lo spirito ce la farà a contentarsi
Di non voler nient'altro ch'esser pieno di te,
Io ancora non desidero morire.
Ma quando sentirò avvizzirmi gli occhi,
La voce rompersi, e la mano impotente,
E la mia mente, in questo viver mortale
Non potrà più mostrar segno d'amore,
Venga la morte, e anneri il giorno chiaro.

Di Louise Labé, nata attorno al 1524 e morta nel 1566, non si sanno molte cose. Qualcuno ne ha messo in dubbio persino la reale esistenza. Fu detta la "bella cordaia" perché figlia di ricchi mercanti di cordame lionesi. Considerata per le sue composizioni una sorta "protofemminista", di lei si diceva che sapesse tirar di scherma e cavalcare come un nobiluomo. Il tizio per il quale Louise Labé scrisse questi versi si chiamava forse Olivier De Magny. Una volta ho preso questa poesia, l'ho trascritta con la mia migliore calligrafia (e la ho, credetemi, molto bella) su un biglietto firmandomi improbabilmente "Dott. Martora". Biglietto spedito, ma non si sa se sia arrivato.

La seconda è, si pensi un po', di Vincenzo Monti. Magari non s'immaginerebbe che il gran traduttor de' traduttor d'Omero potesse scrivere una poesia come questa, e molti anni fa non lo immaginavo neppure io. Poi la lessi. Fa così:

Oh come del pensier batte alle porte
questa fatale immago e mi persegue!
Come d’incontro mi s’arresta immota,
e tutta tutta la mia mente ingombra!
Chiudo ben io per non mirarla i rai,
e con ambe le man la fronte ascondo;
ma su la fronte e dentro i rai la veggio
un’altra volta comparir, fermarsi,
riguardarmi pietosa e non far motto.
Le braccia allargo, e prono in su le piume
cader mi lascio colla bocca e il petto;
ma l’immago dagli occhi non s’invola;
anzi s’accosta, e par che ciglio a ciglio,
gote a gote congiunga, e tal poi meco
reclini il capo e s’abbandoni al sonno.

Fu grande amico di Ugo Foscolo (che il sottoscritto, adoratore delle contrepèteries, chiama regolarmente Fosco Ùgolo); poi l'amicizia finì per motivi impossibili da indagare. E non ci sarebbe comunque nulla da indagare: cose loro. Cominciarono a scambiarsi epigrammi sanguinosi, e nei salotti dell'epoca infuriò la rivalità. Sul finire della vita di entrambi, però, ridiventarono amici. Un tempo, le poesie me le trascrivevo tutte a mano; questa finì su un album di fotografie, mentre una figura scendeva dalle scale di un angiporto di una vecchia città di mare. La foto non c'è più sull'album; è rimasta la poesia. E con lei, per quegli squisiti assurdi della memoria, anche l'immagine esatta di quella foto, impressa, non cancellabile.

La terza, e ultima, è di Dino Campana. S'intitola, in francese, Une femme qui passe.

Andava. La vita s'apriva
Agli occhi profondi e sereni?
Andava lasciando un mistero
Di sogni avverati ch'è folle sognare per noi
Solenne ed assorto il ritmo del passo
Scandeva il suo sogno
Solenne ritmico assorto
Passò. Di tra il chiasso
Di carri balzanti e tonanti serena è sparita
Il cuore or la segue per una via infinita
Per dove da canto a l'amore fiorisce l'idea.
Ma pallido cerchia la vita un lontano orizzonte.

Prima c'erano dei ricordi. Qui non ce n'è uno particolare, tranne una pagina su un libro letteralmente smangiato, scompaginato, distrutto. La poesia quasi non si legge più da com'è ridotta la pagina. A un certo punto ho smesso persino di rimettere in ordine i fascicoli casualmente squinternati di quel povero tascabile; tutto è tenuto legato alla copertina con un elastico. Così in generale; tenuti assieme da un elastico.

lunedì 14 gennaio 2008

L'allegria


L'allegria non ha né tempi, né regole, né ragioni. S'installa da sola, senza che ci sia il bisogno di chiederglielo. Non fa polemica e non vuole il meglio di niente; non ha occasioni propizie, non risponde a nulla, è priva di obblighi e di morali.

Non ha né leggerezza e né pesantezza; è qualcosa che ci si cammina assieme e addosso. Quando arriva, non si sa nemmeno come ci si sente. La si percepisce, non la si capisce. Non c'è nulla da capire e diffida di comprensioni artificiali.

Non ha simboli né gesti particolari. Non ha espressioni comuni, tipiche o curiose per definirla, in nessuna lingua del mondo. Neanche espressioni del viso o dello sguardo; sua caratteristica è anzi la più perfetta inespressività. Non si manifesta all'esterno. Nessuno la vede.

Non fa stare né meglio e né peggio, ma fa stare. Ci si comincia a viaggiare verso qualcosa di differente. È sorella di cambiamenti che non è dato prevedere. Non dice eppure dice. Non è triste, e forse non è neppure allegra. È quel millesimo di secondo in cui si va altrove, fischiettando piano piano una piccola aria di fronda. In cui si va a nascondersi, eppure si è lì davanti a tutti. In cui si va, affanculo o in paradiso.

martedì 8 gennaio 2008

Il cane


Nella mia vita ho imparato, più o meno bene, diverse lingue, e abbastanza spesso mi tocca sottopormi a quella specie di maledizione che è la classica domanda: ma quante ne parli? Mi sono trovato sempre a malpartito nel rispondere, e l'ho sempre fatto con estremo fastidio. Prima di tutto perché potrei rispondere anche "trentacinque" senza che nessuno o quasi possa controllare; poi perché, in realtà, col tempo mi sono accorto che il "parlare le lingue" conta solo relativamente. Conterebbe il capirsi. Ma è una cosa differente, molto differente, il capirsi. Tanto è vero che non ci si capisce quasi mai neppure tra persone che parlano la stessa lingua.

Sul capirsi tra persone che parlano lingue differenti, tra le altre cose, mi è capitato di sentire storie e storielle di ogni genere. Alcune sono balle o leggende metropolitane, come quella dei romagnoli che si capirebbero alla perfezione coi rumeni; altre, invece, sono senz'altro vere. Sono vere le storie di due o più persone che la vita ha messo insieme per milioni di motivi differenti, e tra le quali si instaura una comprensione che va al di là della parola. Parola che, poi, c'è; ma che passa in secondo piano rispetto a certi gesti, a certi sguardi, e soprattutto rispetto a qualcosa di vissuto in comune, ad un'esperienza, ad un sentire le medesime cose. Un evento, questo, che può accadere benissimo anche con un perfetto sconosciuto, in un dato momento, in un determinato connubio di circostanze.

Il contadino o pescatore greco in cui ci si imbatte in un posto dall'acqua gelida; il capomastro portoghese con il quale si lavora alla ristrutturazione di una casa; credo che a ognuno di noi sia avvenuta, almeno una volta nella vita, una cosa di questo genere. Stare a parlare, e magari anche a lungo, con qualcuno che, formalmente, parla una lingua diversa (e a volte lontanissima) dalla tua. Per capirsi davvero è più importante l'inflessione della voce, il variare del movimento degli occhi, una pausa a un dato momento del discorso, l'avvertire qualcosa che si ripete; tutta una serie di cose che gli "addetti ai lavori" attribuiscono generalmente al cosiddetto "metalinguaggio", e che invece è la vera essenza del linguaggio. La vera scintilla, il big bang. Tutto il resto è venuto dopo. Le parole sono cambiate milioni di volte nella storia dell'uomo. Sono nate, vissute e morte. Nella nostra stessa lingua ci sono migliaia e migliaia di parole che non conosciamo.

I meccanismi della comprensione reciproca non possono essere riconducibili a niente, se non alla vita che, in dati momenti, attiva la comprensione. E in quei momenti non c'è "lingua" che tenga, io posso parlare la mia e l'altro la sua senza nessun problema di sorta. L'unica cosa che contesto è che si tratti di qualcosa di strano; in realtà è una cosa più che comune. Avviene anche fra me e te che parliamo la stessa lingua, dato che normalmente non ci capiamo affatto pur usando –più o meno- le stesse "parole" il cui senso e significato è stato solo apparentemente consolidato da tutta una serie di convenzioni. Che "cane" indichi quell'animale con quattro zampe e che fa "bau" è una convenzione d'uso, ma non sappiamo cosa per me davvero significhi quell'animale, e che cosa significhi per te. Ce lo dobbiamo, volendo, spiegare e raccontare. Viceversa, se io dico "cane" e tu mi dici "perro, dog, Hund, kutya, cachorro, skylí, câine, chien, sobaka, sag, ki" ci possiamo capire benissimo se qualcosa che non si può dire ci ha fatto sentire le stesse cose, o cose molto simili, rispetto a quell'animale e alle cose che ci ha innestato dentro attraverso tutta la nostra vita.

E così può essere benissimo che il pescatore greco o il capomastro portoghese ti raccontino tutta la loro vita, e che tu la capisca benissimo. Addirittura anche se, in fondo, le "sue stesse cose" non le hai passate affatto! Hai passato, però, la soglia. Sei entrato nella volontà di ascoltare e di capire; e quei suoni, che dovrebbero essere un borborigmo senza senso, diventano invece chiarissimi. Così, tra le altre cose, si imparano davvero le lingue, senza nessun libro, senza nessuna "grammatica", senza nessun corso. E così si potrebbe fare a meno tranquillamente degli "interpreti", anche di quelli a "alto livello".

Ci si potrebbe anche inventare una lingua, tutta nostra, personale, e mettersi a parlarla tranquillamente con la certezza che, chi la volesse capire, la capirebbe alla perfezione. Provatevi a leggere le Fànfole di Fosco Maraini, se non ci credete.

Oppure facciamo così: visto che il sottoscritto, e da tanti anni, di lingue se n'è fabbricata una sua per davvero, ve ne scrivo qualche riga. Poi, se volete, mi dite non tanto cosa ho scritto ma quel che ci avete voluto capire; e se lo avete voluto capire, vuol dire che avete voluto capire, in qualche modo, me.

Nedalikăm, kerentāi, syeterpăm to gŭm-ilv in to kahrōgas syecikăm ton. Terhve tălinnyăm vin dān ya in eno launo ya'n eno nyāuto syesă skaudāi milăn in mān gvī. Depohăm la nyife. Lescīg, lescīg syevahrunăm to cēvmausonăn portaugīz ya to pasketārăn helīn, haunaisader in to partādl nă Olmōtī veya in mān partādlāi ap Elbailv. Ŏmcabestāi! Nām sī to drūm sparnăin avirhetrig la. Avirhetrig ya ān sapainto.

Sto ridendo ancora



Non so voi; ma, per me, il 7 gennaio è una giornata gloriosa. Finalmente seppellite, anche per questa volta, 'ste maledette "feste di fine anno". Non c'è nulla da fare; le detesto. Non voglio nemmeno andare ad occuparmi dei massimi sistemi, le odio e basta; stamani ho visto con piacere, tornando a casa dal turno di notte al 118, la scomparsa di palle palline festoni alberelli e quant'altro. Ho visto una squadra di operai al lavoro per smontare le stupidissime luminarie stradali; svanita come per miracolo la cosa che in assoluto mi fa più ribrezzo, i babbinatale che danno la scalata alle finestre e alle terrazze. Un normalissimo lunedì, un giorno feriale, un giorno qualsiasi. Adoro i giorni qualsiasi.

Mi è capitato di leggere un bellissimo post dell'amico Redshadow, sul suo blog Minimi Termini, intitolato Pane e cipolla. Sono cose che, almeno a me, fanno bene al cuore. Sono cose che non posso che sottoscrivere "in toto", senza cambiare neppure una virgola. Sono cose scritte come solo Red sa fare e che, a rigore, renderebbero del tutto inutile questo mio post (ma, ora che ci penso, tutti i post di questo blog sono per definizione, interamente e fieramente inutili); vado avanti soltanto così, per raccontare due scemenze, per suggellare il ritorno dei giorni qualsiasi. Riaprono le scuole. Si rivedono i ragazzi e le ragazze con gli zainetti. Si monta sull'autobus, e c'è gente che va a lavorare. Sì, lo so che tutto questo è in palese contraddizione con tutto ciò che vado dicendo a proposito del lavoro; ma almeno per il giorno che si porta via 'ste feste del cazzo, lasciatemene essere contento.

Così come sono contento di aver rivisto il mio "ufficio" (chiamiamolo così) oramai in via di smobilitazione; di aver rivisto il bar dell'angolo, la stazione di Rifredi, persino una buffa "trasferta" abortita a Prato, dato che mi avevano convocato senza premurarsi di avvertirmi che l'interpretariato richiesto era stato annullato. Pazienza. E chi se ne frega. Una giratina in treno a Prato, venti minuti per andare e venti per tornare; e poi in ufficio da solo, a non fare beatamente nulla perché in realtà nulla c'era da fare, o quasi. Tre paginette di una boiata che avrei fatto anche a casa; eppure oggi ci sono voluto andare, a ripigliare una boccata di quotidianità come si piglia un'aspirina.

Chiaro che penso all'operaio che stamani è tornato in fabbrica, e che se ne stava sicuramente meglio a casa, o comune non peggio, durante il dì di festa. Chiaro che penso a tutti coloro per i quali le "feste" sono attese come un momento di stacco, di riposo, di fare altre cose che non siano il fottutissimo sgobbo quotidiano; ci penso perché non ritengo di essere uno stronzo e un egoista. Lo so benissimo di essere, a modo mio, un privilegiato. Oggi ci sono andato, sì, in ufficio, ma avrei potuto benissimo non andarci. Comunque ci sono andato a mezzogiorno. Alle sei e mezzo ero di nuovo sul treno per tornare a casa, a quella che sarà casa mia ancora per pochi giorni (o almeno spero). In ufficio, "trasferta abortita" a parte, mi ero portato il computer da casa, perché quello che c'è ora in dotazione è un'ignobile carretta; finite le tre paginette sono stato a fare "canzoni contro la guerra"; balocchi, insomma, o roba del genere. Va bene così, porcaccio mondo. So tutto quanto, ma oggi stavo uno straccetto di bene. Forse neppure me lo merito, ma, come disse Dante Alighieri nel De masturbatione mentali, "m'importa una sega".

Uno straccetto di bene che non m'è stato impedito neppure da un gesto automatico, quello di acchiappare la cornetta e di cominciare a fare un certo numero di telefono. "Ops", mi sono detto. Che minchia stavo facendo. Un attimo di distrazione, l'imprinting di anni, la scemissima voglia di voler raccontare cretinissimi avvenimenti di tutti i giorni e di sentirne di altrettanto cretini. Bene, Riccardino: 'sta cosa non c'è più. C'è voluto un crollo nervoso di quelli mediamente seri a fartelo entrare in quella testaccia dura. C'è voluto rivederti come un mezzo zombie allo specchio. C'è voluto farti leticare con mezzo mondo per delle stronzate atroci per capire che non andava più nulla, che bisognava darci un taglio. Alla facciaccia tua, Venturi.

C'è voluta la pazienza di alcune persone che ti vogliono bene, e bene sul serio, per farti apprezzare -tra le altre cose- questo sette di gennaio, che sarà poi una giornata di merda come quell'altre, ma che almeno t'ha portato una specie di liberazione. Ce n'è vorsùto, per arrivarci!

Certo, una liberazione che costa caro, come tutte le liberazioni. La si paga salata. La si paga anche imponendosi di riattaccare immediatamente quell'accidente di cornetta, perché tanto sarebbe del tutto inutile; quel che stato è stato, e quel che sarà, sarà. Giusto andare ognuno per la propria strada; se poi queste strade s'incroceranno ancora, si starà a vedere. Sarà il caso, e il destino, a dirlo.

Sì, mi faceva piacere vedere la gente sul treno, e non mi dava fastidio nessuno. Mica erano tutte facce allegre; tutt'altro. Pensavo a quante persone l'avranno magari trovato, un simulacro di felicità, durante queste "feste"; pensavo anche a chi, come me, e per dieci milioni di motivi differenti, dal più apparentemente serio al più apparentemente banale, hanno fatto un giretto nel baratro. Pensavo a chi ne è uscito; pensavo a chi non ce l'ha fatta a sortirne. Vedevo scorrere le case e pensavo anche a quando avevo voglia di raccontare persino delle case viste scorrere dal finestrino di un treno, al telefono, la sera. Pensavo ai codici intervenuti e consolidati. Pensavo a quanto mi mancano queste cose; e pensavo a un giorno in cui, forse, torneranno. Chissà quando. Chissa come.

E mi faceva piacere salire le scale della passerella del Campo di Marte, sotto una pioggerellina assuppaviddrano, e scenderle, e la fermata del 10, e guardare la gente che andava e veniva. Qualcosa che, forse, rassomiglia al pane e cipolla di Redshadow, o al contentarsi di vedere la gente di Pasolini. Solo, e basta. E con uno strano miscuglio di allegria e di tristezza, di paura e di coraggio, di delusione e di speranza, di rassegnazione e di rabbia, di passato e di futuro.

E poi si sa che torneranno, ste "feste". So anche quando: fra circa un anno. Mi è venuto da pensarci, rapidamente, nei duecento metri di via Tozzi. Torneranno le luminarie, i babbinatali scalatori, gli alberi finti, tutto quanto; e, magari, fra un anno starai pure ad aspettarlo con gioia. Magari scriverai il panegirico delle feste di fine anno. Magari andrai persino a scegliere qualche regalo! E a quest'immagine mi sono fermato, davanti al parrucchiere unisex; e mi è presa una risata cosmica. Irrefrenabile. Terrificante. Sto ridendo ancora!

domenica 6 gennaio 2008

Mi piacerebbe


Mi piacerebbe
mi piacerebbe
diventare un gran poeta
e la gente
mi riempirebbe
la testa di alloro
Ma, insomma,
no, non mi garbano
abbastanza i libri
e penso troppo a vivere
e penso troppo alla gente.
E così sono contento
di scriver soltanto vento.

Boris Vian, 1962.

A song for Etosia


There's a reason why this post is written in English. Because I want it to be read and understood by someone, or by his parents, or by whomever knows him. His name is Etosia Nakadomare and he's a child aged 1 year and six months. I don't know his father's and mother's name, though they were with me, today, in an ambulance running to the Children's Care Hospital of Florence. I was driving that ambulance.

The story is definitely simple. I'll try and tell it in plain words, so that even a child can read it when he's grown up; anyway, I repeat, this is a simple story. I wasn't good in these last days. I don't know how to call all this: dark clouds, black thoughts, desperation. It's not new to me, I know. I am a strange guy especially fond of self-destruction; and when I'm seized by this mood, there's hardly nothing to do. That's why I'm telling this story.

As any reader of this blog knows, I'm sort of an ambulance paramedic in Florence. I say "sort of" for I don't have, and have never had, any specific formation except a couple of training courses held by local authorities. Anyway, I'm a driver and let better trained personnel do all the necessary. Today, we were called to Florence railway station for a yellow code intervention on a train; when we have to get into a station, directly to a train standing at a platform, we usually take what we call Mickey Mouse's Ambulance, a funny, small ambulance resembling Mickey Mouse's "113". It's an old and somewhat wrecked Bedford van that was turned into an underparking ambulance not long ago.

When I got to drive this ambulance, I'm at a loss. It's simply too small for me. I can't get in. But I had no choice today: we had been told that a child on a train was having a fit, and you know well how much infantile convulsions can be dangerous. The baby was in her father's arms, a sturdy young man from Nigeria traveling with his wife and his older son; they live in Innsbruck and were coming back home from a visit to some relatives living in Rome.

The case was serious. In addition to this, we couldn't separate the family, leaving them in the middle of a railway station in a town totally stranger to them. So we had to accommodate all the folks in Mickey Mouse's ambulance: the little patient, his parents, his young brother and all the luggage. Two heavy suitcases and four bags. Plus one driver and two paramedics. Seven people. Had not been for a baby in danger of life, all the scene would have been definitely comical.

I've invited the young mother to sit beside me in the front compartment, while the baby had been laid on the stretcher together with his dad. We've got out of the station through a narrow exit lane made for this purpose, then speeding to the hospital. Everything normal. Everything brutally normal.

Just outside the station, the child's mother turns her head to look through the ambulance windowpanel. The father is cradling his son. The woman tells them something in a language I don't understand, then starts crying; and singing. Singing something I've never heard in my life. A whining singsong in an unknown language that may be Yoruba, Hausa, Ewe, Bambara…I only know the names of some languages that are spoken there. Something chilling my body and my soul: she must be singing something to chase black wicked spirits away from her baby's body. She sings and cries. Cries and sings.

Florence, January 5, 2008. 21th century. I'm driving an ambulance without even saying a word. With my yellow-and-green fluo uniform and a pair of black gloves. It's raining, it's cold. Beside me, a young mother is trying to drive black spirits away, crying and sitting in Mickey Mouse's ambulance while a baby lies in his father's arms on a stretcher, encircled by modern suitcases showing the label of an Innsbruck mall. I try and catch some words of the song, I want to remember them: agbuna…or agbuka…wagba…

A mother desperate for her baby's life is doing something that comes from her past, from her ancestors. We are all together in a small ambulance, and we live in different worlds; yet she's doing something very, very simple. She's trying to save her baby. Simply this. We're living in the same world.

Please don't think I'm trying to build some kind of moral from all this. We've reached the hospital and the baby was alive. We've done our best to rescue him. Her mother, too. Mickey Mouse's ambulance, its driver and an ancestral song that thousands of mothers must have sung to their children to rescue them from illness and death. That's what happened.

I don't know if the baby has been rescued by doctors or by that song. I normally don't indulge in such questions. What I have seen, is different. It's a mother and her child. It's a mother fighting against her baby's death with magic weapons of love. I wish her and her baby good health and happiness troughout their lives, that's all.

I don't know if she's gotten to chase black spirits away from her son. Surely, with her gesture, and with her tears, she's gotten to chase much of my dark clouds away. Much of my black thoughts. I wonder why. I wonder what. I wonder where from. I wonder where to. That's why I have retained the baby's name, Etosia Nakadomare. That's why I won't never forget him and his mother. That's why I'm writing this thing in a language I think they can understand, anyway better than Italian. That's why I want them to be able to read it one day. Simply to wish them all the best from the deepest corners of my heart, and to thank them for showing me that black spirits can always be chased away by the force of a song, and of love.

venerdì 4 gennaio 2008

Nelle fogne


Come si scende alle fogne?

Ci sono vari modi. A Firenze lo si può fare, pochi lo sanno, anche da una porta. Dentro la Porta a Prato, sul suo lato sinistro interno, c'è un uscio di legno sempre chiuso, con una placca di metallo arrugginito; c'è scritto semplicemente: "Al collettore principale". E' sempre stata una delle mie curiosità inappagate: possedere la chiave di quella porta. Ci saranno, probabilmente, delle scale; l'ho vista sempre chiusa, ma qualcuno deve pur averci accesso. Chissà chi. Chissà cosa c'è là sotto.

Dicono che sia una città sotterranea che riproduce quella "sopra", addirittura seguendone i percorsi e la toponomastica, con tanto di cartelli. Ci sarà via Calzaioli "sopra" e via Calzaioli "sotto"; magari, chissà, ci sarà anche la mia strada. Qui sotto di me. Una via Tozzi sotto terra, che non ho mai visto, che non vedrò mai.

Ci si può scendere, alle fogne, da qualsiasi tombino nel mezzo della strada; ma per sollevare un tombino ci vogliono altre chiavi. I tombini, poi, sono pesantissimi; in più hanno quel nome che deriva direttamente dalla tomba. Un diminutivo. I tombini, in origine, erano botole che davano accesso ai loculi di un cimitero; poi, per traslato, sono diventate quelle delle fognature.

Per scendere alle fogne vere bisogna averci le chiavi. Essere degli operai del comune, degli addetti, delle persone comunque munite di un'autorizzazione. Ma esistono altre fogne, che non hanno bisogno di nessuna chiave e di nessun permesso.

Sono le fogne che abbiamo dentro, tutti noi, senza nessuna eccezione. Sono i recessi più maleodoranti, scuri e cattivi del nostro essere. Sono la rabbia ingiusta, la parola che non si trattiene, il desiderio di rispondere col male al male ricevuto, o che si crede di aver ricevuto. Ma nelle fogne avvengono mille e mille storie.

Possono essere storie di oggetti cari che vi sono caduti dentro, e che non saranno mai più rivisti. Quella foto, quel ciondolo, quel fiore secco, quel foglietto con la prima parola d'amore che ti è scivolato dal portafoglio infilandosi, beffardamente, nella grata dello scolo. Le fogne lo macineranno già prima che vada al fiume, e poi al mare. Le sue molecole si mescoleranno a quelle dell'acqua lurida, e qualcuna sarà inghiottita da un ratto.

O storie di esseri ciechi, ciechi come la tua mente che non ha capito che cosa ti stessero dicendo, che le avversioni che credevi di scorgere in tutto ciò che ti circondava non erano che un parto della tua orrenda infelicità. Quell'infelicità che, a un dato momento, non si controlla più. Che si impadronisce di te e ti stravolge, ti fa diventare un altro, ti scortica, ti getta nelle fogne.

O storie di bellezza, di sguardi che si trovano, chissà come, nelle tenebre più fitte. Di mani o di zampe che si sfiorano dando per un istante un senso ad una vita intera. Poi, magari, ti riacchiappa il putridume, e mentre sei trascinato via aggrappato a una punta di sterco, l'unica cosa che fai è ricordarti fino alla fine di quelle zampe che ti hanno toccato e che, anch'esse, in quel preciso momento, sono portate via da una spaventosa corrente d'asfissia.

Mi sarebbe piaciuto, sì, poter avere la chiave di quell'uscio sotto la Porta al Prato. Scendere quelle scale e inoltrarmi nelle fogne della mia città. Ne avrei raccontato le storie, e forse avrei anche raccattato qualche oggetto. Quel biglietto, prima che il viscidume se lo portasse via. Lo avrei tenuto, e magari avrei cercato chi lo aveva perso: Ehi! Sei tu Napoleone ti amo? Guarda…credo che questo sia tuo, Napoleone ti amo, tua Giuseppina. E magari avrei visto un lampo in quegli occhi, e magari saremmo anche diventati amici, oppure nemici perché a un certo punto Giuseppina si sarebbe innamorata di me. Quante storie si fabbricano. Ci son più storie in una testa che stelle in cielo.

Ma delle mie, di fogne, di quelle ne ho la chiave. In ogni momento. E ci scendo sempre. Ed è bene farlo, senza averne paura, senza temere di essere risucchiato dal proprio schifo. Esplorarle fino negli angoli più reconditi. Sentire la puzza insopportabile che emanano. Guardare in faccia gli esseri abominevoli che vi abitano; esseri abominevoli che possono essere gli stessi che si sono sfiorati per un istante, per un istante di calore e di bellezza, prima di essere trascinati via negli abissi.

giovedì 3 gennaio 2008

Við erum eyjar


Surtsey, al largo dell'Islanda, è nata nel 1963.

Spiace sicuramente dirlo di uno dei più grandi poeti dell'umanità, ma in una cosa John Donne non ci aveva capito assolutamente una sega. Quando dice che "Nessun uomo è un'isola" eccetera, eccetera; poi arriva la celeberrima campana della quale non ci si dovrebbe chiedere per chi suoni; suonerebbe anche per te. For whom the bell tolls.

Cazzate da grande poeta. Oh che bello il senso dell'umanità intera! Qualsiasi morte dovrebbe "diminuirci"; ma un accidente. A me, ad esempio, qualche morte riesce persino ad aumentarmi. Sapessi, ad esempio, che il dottor Giuseppe A. è schiattato nel peggiore dei modi possibili riuscirebbe a farmi assumere le dimensioni della Forrestal. Ma non è questo il punto. C'è la questione dell'isola. Forse John Donne veniva da un'isola troppo grande, e le isole troppo grandi non danno nessun senso di insularità.

Io, invece, vengo da un'isola piccola; e anche se non ci sono nato, ci vengo lo stesso. Cazzi miei da dove io ritenga di venire, e da dove lo dica, e da dove me lo senta dentro e addosso. Potessi, darei fuoco a tutte le anagrafi; se uno ce ne ha voglia, dovrebbe poter venire da dove decide, anche più volte al giorno. La mattina sono nato a Samarcanda. Il pomeriggio da Gallarate. La sera dal paese di Erewhon. Ma sinceramente, mattina pomeriggio e sera io vengo sempre da quella piccola isola che mi ha reso un'isola. E ogni uomo è un'isola. La sua isola. Non è collegato con nessuno e con niente. Tra lui e gli altri, tra lui e il mondo, c'è di mezzo il mare. Un mare che si vede da ogni lato. Magari, da lontano, si vedono altre terre; in delle giornate particolarmente limpide le si tocca quasi con mano; ma sono altrove. Oltre il mare. E spesso e volentieri le ricopre la nebbia, e non si vede nulla.

Poi hanno inventato i collegamenti. Le navi, gli aerei, gli amicizie e gli amori. Hanno inventato la collettività, la solidarietà, l'appartenenza e tutta un'altra buffa serie di cose. Le isole e gli uomini ci hanno sempre queste fregole di "stare assieme", e non ne voglio mettere in dubbio l'utilità. Anche la bellezza, a volte. E addirittura la necessità, anche se a volte dà luogo a trasformazioni decisamente curiose, come quella in generazioni. Poi, però, arriva un giorno in cui cala una nebbia fitta. L'isola che sei si manifesta in tutta la sua vera essenza. Non c'è più niente, ci sei solo tu; intorno, il mare.

Lo capisci, allora, cosa vuol dire mettere un passo dopo l'altro. Fare i gesti di tutti i giorni, e attorno non c'è nessuno. E non importa ritirarsi in un eremo, in una grotta, in una capanna nella foresta. Basta vivere normalmente, nel posto in cui la vita ti ha più o meno fatto cadere. Un'isola e un isolato. Saltati tutti i collegamenti perché il mare è sovente in burrasca. Le burrasche cominciano quasi sempre con una brezzolina, anche se a volte arrivano all'improvviso, senza nessuna avvisaglia; e allora niente più navi, niente più aerei. Crollano i ponti. Crollano i gesti e gli sguardi. Scompare ogni cosa. Rimangono, a volte, dei simulacri; perché attorno non ci sono che altre isole.

Ma certo che tornerà il sereno, e il caldo, e la bonaccia. Ricominceranno a passare le navi. Alcune già conosciute, altre mai viste. Rifaranno i ponti. Si rivedranno le terre lontane. Ripasseranno persino i poeti, quelle strane creature, a dire che nessuno è un'isola, a far suonare le campane e a diminuire con la morte della prima testa di cazzo che capita. Sbarcheranno gruppi festanti agitando le braccia, impugnando bottiglie di vino e chitarre, e magari in mezzo a loro ci sarà anche qualcuno con cui t'andrà di passare una quarantina di minuti, o una quarantina d'anni. Restando un'isola. Estranei che si sorridono e si toccano. Isole che dicono di unirsi; ma non è nella loro natura. Le isole sono separazione. Appaiono e scompaiono. Qualcuno dice persino che non esistono. Qualcuno dice persino che non esistiamo.

Við erum eyjar
og okkur er eyja til í augum.
Til eyjunnar, við erum,
hefur enginn tilgang
og blóðið inn í okkur
er endlaust haf.



Amici (e vari aggettivi possessivi)


All'inizio di Amici miei atto II c'è una famosa scena. Quattro dei cinque amici della prima parte si ritrovano al cimitero presso la tomba del quinto, il Perozzi. Mentre sono là a rimembrare, vedono un vedovo inconsolabile che sta piangendo la moglie defunta; è un giovane Alessandro Haber. Il professor Sassaroli, ovvero Adolfo Celi, lo vede e esclama: "Guarda che bel vedovo!", e gli altri tre amici se lo contendono; ma il Sassaroli, che lo ha visto per primo, si impone sugli altri e si avvicina alla tomba davanti alla quale siede l'uomo in lacrime. L'avrete vista tutti quella scena, e ve la ricorderete senz'altro; il professor Sassaroli, con battute irresistibili, fa credere al vedovo di essere stato l'amante della moglie, e recita la parte talmente bene che il pover'uomo se ne va tirando calci alla lapide e, soprattutto, urlando di puttana e di troia a una povera donna che invece non aveva fatto nulla di male (e che non poteva certo difendersi).

Ora, dico sinceramente che ho riso a crepapelle a quella scena fin dalla prima volta che ho visto il film, non so più nemmeno da quant'anni; e ci rido tuttora, l'ultima volta non più di due settimane fa. L'apoteosi della crudeltà gratuita, la quale crea una comicità assoluta. E' una cosa di una sottigliezza e di una profondità straordinaria, quella scena; per ridere, e per far ridere, si distrugge una persona a caso demolendole il ricordo di un amore. Uccidendola, praticamente; anzi, peggio. Meglio un colpo in testa da parte di un cecchino, mentre si cammina per la strada; anche perché la scena finisce lì. Il vedovo ha esaurito la sua funzione di vittima sacrificale, e casuale. Si è riso, tanto, e senza vergognarsene nemmeno un po'; tanto è finzione. Finzione scenica.

Stasera, però, mi va di intrufolarmi di soppiatto nel film; non mi conosce nessuno, posso passare inosservato. Seguire per un attimo il vedovo mentre esce dal cimitero, completamente stravolto, e avvicinarmi a lui per dirgli due parole di conforto. Per non lasciarlo solo a scomparire dalla pellicola e a farsi dimenticare mentre ancora si sente il fragore delle risate. E' lì, appoggiato al cancello del camposanto; piange, dice un nome, dice "non è possibile", e in mezzo alle lacrime si sentono i peggiori insulti, e dopo i peggiori insulti magari anche qualche parola d'amore, e poi ancora insulti. Come sarà morta? Una malattia grave? Un incidente? Vieni qua, vieni qua, mettiamoci a sedere. Tanto, a noi di nessuno frega nulla. Smettila di piangere per un attimo, e ascoltami.

Prima di tutto stai tranquillo. L'ho visto decine di volte 'sto film, sai. Non è vero nulla, amico. Ti sei solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ci avevano voglia di divertirsi, come sempre, e magari di far fare qualche risata postuma al loro amicone morto; ma nessuno pensa a quella povera donna di sua moglie, catalogata di solito come una mortale e cupa rompicoglioni. Però si provi chi ride tanto, a essere sposata a uno come il Perozzi. Ad ogni modo, amico, non ti devi preoccupare. Tua moglie ti è sempre stata fedele, quel panzone del Sassaroli non ha mai saputo neppure chi fosse. Detto fra noi; non che tu sia una gran bellezza, ma suvvia, andare col Sassaroli, anche se sicuramente ci aveva i soldi; tira via con Tognazzi o con Gastone Moschin; ti concedo anche Renzo Montagnani; ma come hai potuto pensare che sia andata con quel cesso di Adolfo Celi…?

Ecco, bravo, calmati e fatti anche tu una risata. Facciamocela insieme, magari alla facciaccia di tutti gli amici miei, nostri, vostri e loro. Noi che siamo quelli che, a volte, non sanno ridere. Noi che ci pensiamo sempre due e anche tre volte prima di essere gratuitamente degli stronzi, e noi sui quali non sarà mai fatto alcun film. Persone del tutto ordinarie. Persone piene di debolezze, sulle quali giocare è facilissimo. Giocare senza nessuna attenuante. Giocare perché siamo noi, i pezzi di merda. Siamo noi gli imperfetti. Noi quelli senza un minimo di grandezza; perché, insomma, quei quattro amici, cinque nel film precedente, ce l'hanno la loro grandezza. Sono figure, a loro modo, di un grande spessore tragico. Amici miei, nei suoi vari atti, è un film pienamente tragico sotto le apparenze di una commedia; analizza, tra le altre cose, l'amicizia nel suo aspetto più inquietante. Quell'amicizia talmente grande, talmente senza nessun perché, il cui amore dà continuamente un retrogusto amarissimo di odio. Quel risentimento nascosto che fa tirar fuori, in certi frangenti, la dignità assoluta all'anello debole della catena, il conte Mascetti, lo spiantato, il nullatenente. Il discorso del kashmirino di Zanobetti, la nobiltà come unico e inalienabile patrimonio rimasto di fronte agli amici borghesi ben piazzati o addirittura ricchi. L'amicizia e l'affetto che fanno sempre soccorrere, sempre uno per tutti e tutti per uno, ma sempre in posizione subalterna. Quante volte li avrà odiati il conte Mascetti, quei suoi carissimi amici? E, in fondo al film, te lo devo dire, gli prende un ictus. Stanno scherzando su cosa pagherebbero di riscatto, i suoi amici, se fosse per caso rapito. Spietatamente, come avviene sempre fra i più grandi amici, lo prendono per il culo facendogli capire che non sborserebbero una lira; e lui se ne va incazzato nero, sperando che lo richiamino, che gli dicano che è tutta una finta, che farebbero tutto per lui. E così avviene; solo che, nel frattempo, al Mascetti gli è preso un colpo, appena fuori dal giardino dell'Orticoltura. Gli sarebbe preso lo stesso? Ma certo, ma certo. Gli sarebbe preso lo stesso. Una pura casualità, uno scherzo anche questo. Della sorte.

E allora, caro il mio vedovo, non ci preoccupiamo. Ti porto a bere un caffè. Parlami di tua moglie, fammi capire di quanto tu l'abbia amata. Di quanto siate stati felici insieme. Lo so, mica sono cose "da uomini", queste; sono solo cose da esseri umani. Sai cosa? Il successo, la grandezza, la follia, la tragedia, la dignità, la bassezza e tutte queste sublimi cose le lasciamo a quei quattro o cinque amiconi che, per inciso, erano anche cinque grandissimi attori. A noi sono cose che non toccano. A te è toccato fare il vedovo, a me neppure quello. Uno che si è, una serata vagamente di merda, intrufolato di nascosto in un film. Guarda un po' che facce ci abbiamo. Guarda lì che schifezze che siamo; eppure anche noi, a modo nostro, siamo vivi.

martedì 1 gennaio 2008

Cosa resta di Vienna


Secondo i progetti estivi, in questo momento sarei dovuto essere a Vienna; invece sono a Firenze. Nel mio solito sgabuzzino -con la speranza di smantellarlo molto presto- e di ritorno da tutt'altre plaghe. Tutta una direttrice tirrenica dalla Liguria al Lazio, diciamo; la musica all'inizio, il calore dell'amicizia e della condivisione alla fine, e nel mezzo una sosta che mi ha regalato persino una cosa del tutto inaspettata in un tramonto limpidissimo, un'immagine da lontano dell'Isola e un saluto che le è andato.

Ma non voglio né parlare, né raccontare di come io abbia passato queste giornate, queste ultime giornate di un anno bizzarro. Uno di quegli anni che non saprò davvero mai come definire. Non i terribili 1993 e 2002; forse un sunto di tutta la mia vita, una summa in cui tutto il bene e tutto il male si sono fatti vivi. Prima di partire mi era venuto a mente che sarebbe stato il primo capodanno da trent'anni a questa parte in cui, alla mezzanotte, non avrei scambiato un bacio con una persona più o meno amata; così è stato. Si è chiuso davvero un ciclo, ne dovrebbe cominciare un altro. Così si dice sempre!

Sono cose mie, certo. Pensieri che si affacciano, o che volteggiano. Li chiudo adesso in una scatola e li metto in qualche cassetto. Giornate in cui mi sono fatto incredibili dormite, persino in automobile, sconcertando amici per la mia abitudine di stare in bagno tempi paragonabili a quelli di Wanda Osiris (parole testuali) e di farmi due o tre docce al giorno. Che dire. Nulla. Non saprei proprio cosa dire, a parte che sotto una doccia calda mi sento bene.

Mi sono comprato, al mercato di Porta Portese, una giacca e un cappello. Non l'ho mai avuto prima, un cappello. L'ho visto a un mio amico, e me ne sono invaghito. Sinceramente non ho la faccia adatta a portarlo, mentre lui ce l'ha perfetta. Ma non me ne importa nulla, mi piace e basta. Magari, chissà, la mia faccia cambierà; il tempo passa, mi ci vorranno capelli un po' più lunghi e forse anche un po' più grigi. Mentre compravo il cappello sono venuto persino a sapere che ho composto Borghesia, canzone prima erroneamente attribuita a Claudio Lolli. L'ha detto una radio e ne sono stato informato. Su qualche sito di testi mi si attribuisce anche Auschwitz di Guccini; mi chiedo quale sarà la prossima. Se posso scegliere, spero che prima o poi mi becchino come autore di The Sound of Silence, ma forse, stavolta, chiedo troppo.

Cosa resta di Vienna? Ecco, stavo giusto parlando di Vienna, di una Vienna che mi sono dimenticato prima di partire. La scorsa estate, durante i progetti, avevo ritirato fuori un vecchio volume del Touring Club dedicato alla capitale austriaca, con una copertina rigida di colore grigio. Me lo volevo leggere perbene, fantasticando di spiegare la città a una persona che non c'era mai stata; è andata a finire, poi, che la sua copertina dura si è prestata alla perfezione a fare da "base" per la Settimana Enigmistica. Ho cominciato a portarmi ovunque quel povero volume, che si è ridotto a un concio. Spaginato, con la costola scollata, pieno di probationes pennae si bona sit. In un certo senso, Vienna ce l'ho sempre dietro; almeno finché esisterà un water dove sedermi coi miei giochini. A ognuno la sua pace, e la mia dev'essere davvero poverissima. In omnibus rebus pacem quaesivi, et nusquam inveni nisi in cacatorio cum cruciverbis. Scusa Umbe', eh, ma qui la parafrasi ci sta che è un bigiù.

Mi son passati sopra gli avvenimenti, o forse ci son passato sopra io (o di fianco, o sotto, o di lato). Devo avere battuto il record di poche parole in questi giorni. E che c'è da dire, del resto; chi mi conosce, di me sa già tutto. Sa quali sono i miei punti deboli, sa come pigliarmi per i fondelli, sa dove vado più o meno sempre a parare. A volte, come tutti, ho la sensazione di essere sopportato; a volte, come tutti, ho la sensazione che mi si voglia almeno un pochino di bene. A volte poi, come tutti, ho la sensazione di essere eternamente altrove, senza sapere peraltro esattamente dove. A Vienna? All'altro capo del telefono? E chi lo sa. A un certo punto mi sono ritrovato in una strada con il nome di un mare, o di un oceano; era mezzanotte, mi abbracciavo con delle persone, auguravo bonanno e bonecose e felicità, le stesse cose che auguravano a me.

Poi oggi pomeriggio, prima di partire, mi sono messo su un divano. A sonnecchiare e a leggiucchiare un libriccino di Camilleri, che non avevo mai letto; Il gioco della mosca, si chiama. Andrea Camilleri, lo riconosco, è il mio ingenuo "modello di scrittura" –pregasi d'usarmi la cortesia capodannesca di limitarsi a un benevolo sorriso-; il problema è che il toscano, a differenza del siciliano, tende a essere comico, a non creare pathos. Il siciliano di Camilleri, che è oltretutto un grande scrittore, lo sa creare; o meglio, sa creare quell'alternanza di tragico e di ironico, di terribile e di leggero, di maglio e di piuma che non ho quasi mai visto in altri linguaggi, nemmeno nell'impasto di Gadda. Una delle mie ingenuità, o forse dei miei giochi impossibili, è tentare di dare al toscano, livornese o fiorentino che sia, un minimo di questa capacità. All'anima, eh. Ma questo era un excursus.

Nel Gioco della mosca, Camilleri prende dei detti siciliani, e vi fabbrica sopra delle cose. Dei ricordi, delle osservazioni, soprattutto delle storie. Una di queste mi ha colpito talmente che vorrei rubargliela per tre minuti e trasferirla all'Elba. Nel quasi dormiveglia in cui l'ho letta non mi ricordo neppure il detto siciliano da cui era nata; ma non importa.

C'è un uomo, che nella storia di Camilleri ha un nome; io lo chiamerò Peppino Danesi (e ce ne sono, o ce ne sono stati, almeno quattro, di Peppino Danesi, a Marina di Campo). Si sposa con una ragazza come dire, di 'velle che sembrano nate pe' addesà ir letto e magari d'unn'addesallo nimmeno; e sì che nel'avèveno detto a Peppino. Nulla da fa. Però, dopo dieci giorni di matrimonio, Peppino si ritrova nir mezzo d'un fatto pòo bono e lo vengano a piglià i carabinieri, e lo mèttano in galera. La sposina ni resta fedele pe' quarche mese, poi comincia a vedé' un giovanotto e poi un artro e poi un artro ancora, e poi mezza Marina di Campo. Dè, o ir su' marito 'un lo viene a sapé a Portolongone dove l'hanno rinchiuso? Ma non dice nulla. Sta zitto. Chiede solo che la su' moglie 'un lo venga più a trovà' ar parlatoio.

Esce dopo diecianni e torna dalla moglie, che nir frammanco s'era continuata a vedé co' tutti i ganzi che ciaveva. L'amici ni chièdeno perché, e lui dice che a lui la su' moglie ni garba troppo, che la desidera, che ci vuole andare a fare l'amore; e l'amici lo guardano male, pensano che sia un debole, un ometto che avrebbe dovuto fa' casamicciola e invece accetta tutto pe' chissaccosa. Amore? Voglia? Amore e voglia? Questo Camilleri non lo dice; però io in gattabuia pe' diecianni non ci sono mai stato e non mi riesce di figurarmi cosa farei in un frangente del genere.

Finché, un giorno, Peppino non affronta l'amici e ni dice: Guardate, io la mi' moglie me l'ero potuta gòde troppo pòo e lo sapevo che fedele non mi poteva rimané'. Quando so' uscito ci so' tornato, però ci so' tornato come amante. Entro dalla finestra, come fanno l'amanti. Me lo sapete dì' voialtri, da dove entrano i mariti? Dalla porta o dalla finestra? Dalla porta, ni rispondeno 'velli. Ecco, dice Peppino; tutti i ganzi della mi' moglie so' sempre entrati dalla porta, come fossero i mariti. Io entro dalla finestra, come l'amante. I cornuti so' loro.

E l'amici 'un ni dìsseno più niente, e Peppino Danesi diventò quasi un eroe, o quantomeno una persona che godette di grande considerazione e onore. Magari, e chi lo sa, forse questa cosa sarà venuta anco all'orecchi della moglie, e magari si sarà ripresa per sempre ir su' Peppino, solo a lui, e sempre dalla finestra. Siccome Camilleri non lo dice, piglio un par d'etti di coraggio e lo dico io; è quel che resta, anche questo, di Vienna. Vienna su un divano, mezzo addormentato, con due amici che magari stanno a pensare: ma guarda questo. Viene qui a dormire. E a farsi le docce. Bonanno, cari, grazie d'ogni cosa.

Treno. Madonna come va veloce. Che buio che c'è fuori. Accanto a me, uno che non la smette di telefonare, di telefonare, di telefonare; sapete cosa fo? Mi metto a dormire. Magari sogno d'essere al Prater, o davanti a Schönbrunn; invece mi ritrovo sui marciapiedi della stazione di Firenze. Quante volte, e quante volte ancora. Quante facce. Quante gioie per un arrivo, quante pene per una partenza. Al diavolo. E' un anno nuovo; la vita, magari, non sarà nuova, ma c'è tutto quanto da scriverlo. O da farselo scrivere addosso. O tutte e due le cose assieme, e Vienna è sempre lì.