mercoledì 31 ottobre 2007

Lettera a Francisco Xenia, 10 dicembre 1513


In questo blog ho spesso l'abitudine di inserire vecchie cose da me scritte in giro per la Rete; ma non antiche come questa qui che segue. E', anzi, probabilmente la più vecchia che abbia mai scritto in vita mia: risale nientepopodimeno che al 10 dicembre 1513, quando mi trovavo in forzato soggiorno (date certe mie complicate vicissitudini che non sto a dirvi) presso una casuccia di campagna in Val di Pesa, non lontano da San Casciano, messami fortunatamente e gentilmente a disposizione da un amico priore. Quivi, per ingannare il tempo, vergai questa missiva indirizzandola ad un altro mio amico a Firenze, ove gli raccontavo le mie giornate con dovizia di particolari, e le mie occupazioni, e delle persone con cui avevo a che fare. Destino volle che avessi come vicino di casa un altro tizio (di cui compare qui il ritratto), anch'egli in soggiorno obbligato, con cui in realtà i rapporti erano poco buoni; aveva un carattere tutto suo, si millantava segretario della Repubblica, ed il suo aspetto segaligno non m'ispirava nulla di buono. Ma si sa come vanno le cose tra vicini; per amor del quieto vivere si passa sopra a certe cose, e si stabilisce quel minimo di familiarità che alle volte può pure restar comodo. Mal me ne incolse; perché una sera che lo avevo invitato a condividere meco il mio magro desinare, ebbi a mostrargli la lettera che avevo scritto e questi volle "darle un'occhiata" dicendo che gl'interessava; ed io, ingenuo, gliela diedi. Tempo dopo, la mia povera lettera, modificata ma ancora ben riconoscibile, passava già per un capolavoro della letteratura italiana e, va da sé, con il nome di quel mio vicino, copiatore del malaugurio, plagiario spudorato. Si chiamava Niccolò, ma il cognome non voglio rammentarmelo; ciononostante, con tutta la sua immortal gloria, gli è morto e sepolto fin dal 1527 mentre io sono ancora vivo. Però, stasera, vorrei farvi vedere come sonava la mia lettera, quella originale; la copia, quella –ohimé- passata ingiustamente alla storia, la potete leggere qui.

Magnifico Retium gestori Syracusano Francisco Xeniae apud Comptabile Officium et benefactori suo. Florentiae. francisco.xenia@manivella.fl

Magnifico gestore di Reti. Tarde non furon mai grazie divine. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio che voi poteste essere un poco incazzucchiato meco. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, dalle amiche & drude nostre Eleonora et Henrica in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Hònne rihaùto per l'ultima vostra de' 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico servendovi anco delle machine calculatrici, autografe & parlanti testè inventate dal Vincino or migrato in Franza; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d'altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla.

Io mi sto in questa villa, che poi è un tugurio che in usum mi concedette il nostro comune amicho Fulvio, priore del vicino Mercatale; viene costui sovente a visitarmi, cercando di recarmi qualche suo conforto all'anima mia peccatrice. Ma si finisce, come d'uopo è che sia, a prepararci qualche cosuccia da desinare, e scordando il divino si passa ben più libenter al vino della su' vigna, che recami in copia e che ha sulla mia anima effecti ben più consolatori d'una preghiera all'Omnipotente, che pur ne è autore. Giunta l'ora, quasi sempre lo raccompagno per certe viottole, di maniera che possa arrivare in tempo per dir lo vespro; ma qualch'altra volta preferisco starmene qui, in ispecial modo se mi bussa alla fenestra una pulchra contadinotta di queste parti, cotale A., colla quale ci sollazziamo per qualche ora in un modo che un priore dorebb'essere lungi dall'approvare.

Di poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a' tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, coi capegli avvolticciolati in una maniera che parevo el nostro amico musico di Cantù quando 'e non si pectinava da du' mesi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò.

Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove dorei stare almeno dua ore a rivedere l'opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co' vicini. In verità, dell'opere del giorno passato generalemente non mi cale una madonna, e nemmanco di quelle del giorno a venire; stòmmene in vece a grattarmi sotto un arbore, osservando faticar quegli tagliatori di cui sopra, ched ispesso & volentieri mi gettano occhiate cariche d'odio, e alle volte anche qualche volgare improperio. Ma che si fottano; a me non soltanto non mi garba puncto di faticare, ma godo impersino nel veder faticare gli altri.

E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Mauricio Tressoldi e Maximiliano dalla Rocca e con altri che voleano di queste legne per farne leùti & altri istrumenti, sendo dato che cotesti villici pur nutrono qualche velleitade musicale componendo cantioni, laj & villanelle; ma al pagamento, il Tressoldi mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me cinqu'anni sono, che prestommi quando m'haveano discacciato da Liburno. Io cominciai a fare el diavolo, e volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro. Tandem el Federicho Marino vi entrò di mezzo, e ci pose d'accordo. Luca de' Mirti, Dauide Giromini, Marco Sciusterio e certi altri musici, quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta per lo loro istrumenti. Io promessi a tutti; e manda'ne una anco a Alexandro da Torre Chiara, la quale fu ispedita in loco con millanta difficultà ma che ne mandai libenter perché detto musico sonava per la ganza del signor del su' castello, e m'aveva impromesso in iscambio una conspicua quantitade de prociutti langhiranesi. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie Alexio da Otranto, che minaccia di comporre un'invectiva in rima contro di me.

Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o quello dello Scaltione umbro che tanto ebbe a incorrere nella censura papale, o quello di certi alemanni sull'arte d'assaltare i banchi pugnale alla mano; o pure qualche amena historia, come quella sul Padreterno che muore cascando in mare del Giacomo Morro sàssone, e simili: dopo un po' cesso di leggere, e pongomi a ricordar le mie amorose passioni, e gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell'hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de' paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'huomini. Viene in questo mentre l'hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, el beccaio Tommaso Gioddo, el mugnaio Niccolò Chillemo, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto el dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose e di moccoli a Dio patre, e alle volte anco qualche mazzata ne' denti, qualche seggiolata nella cervice o qualche bottigliata ne' coglioni; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo la mia natural cattiveria e la merdàggine che ho a dosso di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e m'infilo du' mutandoni e una camicia pulitami al ranno dalla fedele A.; e rivestitomi un po' meno da stracciajo, pongomi finalemente a scribacchiar a quel nostro ordigno mechanico con le lucine & le manivelle inventato non sàssi da chi, fors'ancora dal Vincino; e quivi apro el mio diario cotidiano che l'inghilesi nominano bloggo, o el sito de certi carmina contra bellum, o li fori de discussione, o le liste de missive; e in queste or ricevuto amorevolmente, or mandato in culo, mi pasco di tucta una serie di bischerate & cialtronerie, oppur iscrivo certi miei pensieri scaturiti dalla mia mente malata, oppur ancora mi ringaglioffo con una serie di microcefali di cui questo disgraziato paese abbonda; e pur non mi vergogno parlare con quelli e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli a volte anco mi rispondono, e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: come porebbe isbigottirmi a fronte di siffatti minus habentes?

E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso - io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De Capitibus Mentulae in Permagna Rete, ov'io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa sia un demente telemathico, com'e vi si tratta, come li si manda a bruciar nelle fiamme dell'inferi, come s'offende i lor genitori, parenti & familia tucta. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un adepto di codesta Rete che poc'anchor cognoscano, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Vostra Magnificentia.

Voi vorresti, magnifico Gestor di reti, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo, ispecialmente se l'amica nostra Heleonora cocinasse certe su' paste secche coi petonciani o alla carbonaja; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l'harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costì a Fiorenza certi huomini cui temo d'essere inviso, e dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.

Die 10 Decembris 1513.
RICHARDO VENTURI in Sant'Andrea in Percussina.

martedì 30 ottobre 2007

Ichanara



Non so quando l'isola di Ichanara si sia manifestata per la prima volta; dico manifestata, e non apparsa, perché in realtà non compare mai alla vista, alla percezione uditiva, alla sensorialità. Si manifesta quando ti accorgi che esiste, e che in quest'isola vuoi vivere e morire. E' abitata da tutti e da nessuno; dà notizie di sé ad ogni momento come non può darne per anni e anni. Ha dei momenti brevissimi e delle veglie lunghe secoli; su di essa il tempo si attorciglia, e crea vortici e lampi, e squarci di luce, e ombre impenetrabili. E' l'isola del ricordo.

Si è manifestata in una piazza, tanti e tanti anni fa. Era piena di ragazzi, e c'era una torre altissima dove si giocava a incrementare il sudore. Un marciapiede dove l'isola di Ichanara era persino capace di assumere le sembianze della vetrina di una banca; e lattine piene di notte, prima e dopo l'esplosione della chimica. Viaggiava, Ichanara, su una vecchia bicicletta verde di marca "Raleigh", poi lasciata arrugginire e disfarsi sul balcone dei panni stesi nel sole e nel vento; a volte portava la cravatta, a volte una maglietta bisunta. Si trasferiva a volte in un bosco improbabile, come quella sera in cui una voce era cambiata all'improvviso e tu decidesti di far danzare un'anziana signora sulle note di Sophisticated Lady di Duke Ellington. Ichanara stava per presentare il conto; e continuò, anche dopo, fino a spegnersi assieme alle grida, alle risa, alle disperazioni e alle vite di quei ragazzi che non hai quasi mai più rivisto. Un giorno d'estate non si vide più; era partita per la sua scatola d'altrove mentre la torre emanava oramai un senso d'algore.

Ma ancora prima, forse, aveva corso assieme a te in un antichissimo stadio polveroso; e ancora ancora a ritroso, nei vicoli di cento città, nelle parole sconosciute che prendevano forma, nei primi baci e nelle prime battaglie, nel sangue rappreso su un selciato; o in un'altra, lontanissima isola piena di montagne, dove il vento dell'Antartide soffiava a volte urla senza nome. O nella tua casa, nella tua semplice casa di tutti i giorni, nell'angustia di una stanzetta stipata di libri e di lampadine colorate, dove una vecchia coperta delle ferrovie bastava per andare a Citera. E assieme a Ichanara ti avviavi a scuole di galera, a passaggi a livello eternamente sbarrati, ad albe fredde in compagnia di grammatiche mongole.

E Ichanara, un giorno, si trovò con te in campagne di mare verde, con l'arancione vivo dei diosperi sullo sfondo d'un grigio violento e mobile, mentre cadevano pezzi d'intonaco e s'andava alla legnaia ad ore antelucane perché il lavandino si potesse sghiacciare; e le notti nel vento che fischiava sbattendo i vetri, unica luce nel buio di tutto un mondo. Una civetta alla finestra, e ricerche di tracce che non potevano essere più trovate. Telefonate a vuoto. Ichanara si addormentava e si risvegliava assieme a te, in assurde e pacchiane lenzuola di seta verde, nella sporcizia, nei topi morti, nei latrati dei cani e negli accenti forti di persone volgari. Un giorno Ichanara tornò al suo mare.

Alla Dogana d'Acqua, in un giorno d'estate, l'acqua non c'era. Se n'era andata sotto la terra, lasciando alghe verdi a smarcirsi puzzolenti nel sole; barche vuote piegate sui fianchi, mentre passava un'automobile scassata con la targa nera. Ichanara mi teneva la mano dicendomi che quello sarebbe stato il mio posto, ma aveva un sorriso beffardo e sapeva di non dirmi la verità. Ma la verità è nascosta in mezzo ai legni duri della coscienza, delle mille e mille coscienze che senza speranza si tenta sempre d'afferrare. Mi voltai per un breve istante, e mi accorsi che Ichanara mi aveva cambiato la realtà; l'acqua c'era. Non era andata da nessuna parte, era là, immobile come una lastra di vetro sporco; e ancora in quei panni che sbattevano al vento, e in quelle camminate senza nulla, di quando verso il mare non c'è nulla. Si perse nella forma d'un rotolo di carta dal finestrino d'un treno.

E Ichanara, che tanto viaggia, ama i treni; i treni sono isole. I treni sono cicli. Ad una stazione iniziano, alla medesima stazione terminano; nel mezzo, tremilasettecentoquarantadue tra parole, sguardi, azioni, e ancora sguardi, e fruscìi, e silenzi. C'è fumo in un corridoio, si cominciano a sentire gli uccelli cantare nell'alba; fa quasi sempre freddo. Ichanara ora dorme, quietamente, e una sedia cigola mentre tutto prende la sua strada, la strada che deve prendere. Così l'aveva presa nelle follie senza meta d'una città del nord, nelle bestemmie insegnate agli operai, nelle chiatte sui canali, nell'interrogatorio in una birreria, nelle valigie ad un'altra stazione. Treni nella notte; e Ichanara sempre con me, sempre a ricordarmi che i debiti si pagano sempre con la moneta della solitudine.

Ichanara mangia e digiuna. Ichanara torna e si rinchiude assieme a te. E' un'isola che senza coste, anche se su una determinata spiaggia suole avere sede. Sto, ora, arrivando alla piccola cappella di un dio qualsiasi, come qualsiasi dev'essere ogni dio che voglia anche per un piccolo momento essere creduto. Si vedono la villa, il molo, i pini e la macchia; mi dona consigli ma sa che li seguirò solo se vorrò; perché Ichanara è l'isola mia, ma è anche la tua, ed è quella di tutti; anche di chi non saprà mai che esiste.

Sulla porta ci sarà scritto il suo nome.


lunedì 29 ottobre 2007

Sventola


La mia è stata una vita costellata di sgabuzzini. Stanzette piccolissime, stipate fino all'inverosimile di ogni cosa (con prevalenza di libri), privi di finestre. Minuscoli mondi che si sono ripetuti in vari luoghi, spesso lontanissimi l'uno dall'altro. Questa cosa, scritta il 23 maggio 2006, proviene dal penultimo di essi; è tornato probabilmente, ora, alla sua primitiva funzione di piccolo corridoio d'ingresso di un monolocale. Ma per due anni e rotti è stato una parte di me. Quando non esistono finestre, se ne debbono per forza spalancare altre; e ne vengono fuori cose come questa.

Ogni tanto sventola qualcosa.

Sventola, una sera sempre più qualsiasi, la voglia di ripigliare in mano un libro. Letto decine di volte. Il Sovversivo di Corrado Stajano. La storia della vita e dell'assassinio di un anarchico di vent'anni.

Ad un tratto, tac. Sventola una frase. Ci casca sopra l'occhio. "Vicino alla fossa parlano un militante di Lotta Continua e un anarchico del Gruppo Durruti di Firenze. La folla, poi, se ne va per i viali. Gli anarchici cantano piano una loro canzone: Figli dell’officina o figli della terra, già l’ora s’avvicina della più giusta guerra."

Un anarchico del gruppo Durruti proprio mentre l'autore del libro sta paragonando i funerali di Serantini a quelli di Durruti. “No, non erano funerali regali, erano funerali popolari. Nulla in essi era ordinato, tutto avveniva spontaneamente, in modo improvvisato. Erano funerali anarchici, ecco la loro maestà. Talvolta bizzarri, essi restano pur sempre grandiosi, di una grandiosità strana e lugubre” (Barcellona, novembre 1936, i funerali di Buenaventura Durruti).

E penso che quell'anarchico del gruppo Durruti di Firenze io lo conosco. Penso di averla sentita dalla sua voce, quella cosa. O letta comunque dalle sue parole. E mi sventola in testa che nei luoghi e nelle lotte ci si è comunque se i luoghi e le lotte, in qualche modo, sono in te. Se passando senti qualcosa e qualcuno che ti chiamano. Se la memoria degli altri è anche la tua memoria. Se per quella memoria ci campi non come un catalogatore, ma come uno che tiene accesi un fuoco e una speranza con il cuore e con la mente.

E così si va mentre sventola. Una burrasca.

Sventola un pomeriggio di gennaio sotto un buffo e sgraziato tendone che ora è stato sostituito da un'architettura firmata e sponsorizzata. Sventola con una sigaretta e una chitarra. Sventola con un giovane Davide Riondino che introduce il grande cantautore pigliando per il culo e facendo il verso a Branduardi: "...le gambe ignude". Sventola con dei capelli bisunti da sedici o diciassettenne, mentre il grande cantautore biascica che quando si vive per anni in un posto, come minimo s'impara il dialetto. Da chiddu che babbu ci ha laccatu la meddu palti ti si' prisu. Lu munticchju ruju cu' lu suoru, li 'acchi sulcini, lu trau mannu.
Sventola la bella che fa paura.
Sventola quella voce in una nuvola di fumo e di bellezza.
Era la prima volta che lo vedevo così vicino.

E si mette a sventolare ogni cosa.

Mio zio Ulisse. Un lontanissimo giorno di luglio. Del 1976. Non c'è ancora la televisione nella casa dell'Elba. Solo una vecchia Radiomarelli che gracchia. Non c'è nemmeno il telefono, e l'acqua corrente c'è per due ore al giorno. Mio padre che fa la spola con una Fiat 850 beige carica di bidoni per andare a prendere l'acqua alla fonte di San Piero o del Monte Perone. Roma. Stamani in un mortale agguato è stato ucciso il giudice, gracchio, rsio, l'assassinio è stato rivendicato da Ordine Nuovo.

"Come si chiama il giudice?", chiede mia zia. "Accursio", dico. "No, Occorsio", dice mio zio Ulisse. Poi si alza. Scuote la testa con un sorriso beffardo. "Prima manda in galera Valpreda e poi lo ammazzano i fascisti". Piglia la porta e se ne va nell'orto. Lo ha sempre fatto, l'orto. Lo sa fare. Ora lo fa uno dei suoi figli.

Sì, sventola. E non smette di sventolare.

'a vita mia me porto 'n pietto,
'o core mio fa oilì oilà,
e nun v'a rong' pe dispiett'
'sta libbertà.

domenica 28 ottobre 2007

Storia efferatamente freddata della colonnina di mercurio infame


Sul suo blog, il Colonnello Kurtz ha dedicato un opportuno post alle frasi fatte giornalistiche. Sono quelle frasette idiote & precotte che sentiamo tutti i giorni dai nostri efferati manipolatori di cervelli, la cui essenza, a ben pensarci, non differisce poi di molto (anzi: non differisce affatto) dal terrificante Newspeak del "1984" di George Orwell. Sfruttando il materiale gentilmente offerto dal Colonnello Kurtz, ho pensato di comporre la seguente storiellina senza pretese, che potrebbe avere come sottotitolo: Una tranquilla giornata nell'Italia del XXI secolo.

Quel giorno l'Italia era stretta nell'efferata morsa del freddo freddato. La colonnina di mercurio aveva raggiunto i 36 gradi sotto zero a Trepalle (Brescia), paesino che nella futura Repubblica Nazionalsocialista Patàna si chiamerà Trecujùn, i 24 sotto zero a Bologna e i 35 gradi (sopra zero) a Atene perché in Grecia sono notoriamente un po' più furbi che da noi. A Civitanova Marche, cittadina finora risparmiata sia dall'ottobre più freddo degli ultimi 300 anni (perché a Trepalle, il 28 ottobre 1707, la colonnina di mercurio era scesa a 39 gradi sotto zero per poi andarsene incazzatissima dicendo "in questo posto di merda non mi ci rivedrete mai più"), sia da efferati crimini che potessero salire all'onore della cronaca, si erano consumati in otto minuti ben due terribili fatti di sangue. Nel primo, uno stimato direttore della locale filiale della Banca Popolare di Trepalle, Attanasio Vanacore, aveva prima sterminato la sua famiglia (moglie, sei figli e suoceri); poi, colto da improvviso raptus di follia, ne aveva approfittato per sterminare tutto il paese imbracciando due mitragliette Sten. Accorsa otto minuti dopo per intervistare i vicini ("era una famiglia così efferatamente normale e nulla lasciava presagire che"), una troupe del Tg2 stava per rientrare delusa in sede perché di vicini non ce n'erano più, quando era stata freddata dal bancario che aveva scaricato loro addosso la più intensa ondata di proiettili dal 1221; lo stimato padre di famiglia, contrariamente all'uso, era poi fuggito a piedi berciando "Hippi-yayèèèè-hippi-yayyyàààài!!!".

In altre parti del paese, la colonnina di mercurio stava già cominciando a risalire, quando era stata fermata da una morsa vagante riconducibile a Al-Qaeda, dimostrazione pratica che è necessario non abbassare mai la guardia; anche perché le guardie di Civitanova Marche erano state tutte abbassate dal signor Vanacore, il quale era peraltro corso ad iscriversi agli anarco-insurrezionalisti approfittandone per spedire una busta contenente un proiettile all'indirizzo di Clemente Mastella. "Si tratta", ha spiegato freddando tutti quanti l'efferato politologo Sergio Romano dalle colonnine di mercurio del Corriere della Sera, "di un colpo di coda dei delicati equilibri naturali che vanno da Aléxis de Tocqueville fino a giungere ai coniugi di Erba passando per Trepalle. Bisognerà comunque vedere se la morsa del caldo che ne seguirà riuscirà ad essere la più intensa degli ultimi 496 anni, per trarne le debite conclusioni. Potrebbe anche insorgere la tragica fatalità efferata che, domani, la temperatura a Verona rientri appieno nelle medie stagionali."

venerdì 26 ottobre 2007

Novissima versione di "Addio a Lugano"



NOVISSIMA VERSIONE DI ADDIO A LUGANO
Composta da Riccardo Venturi il dì XXVI del mese d'ottobre dell'anno MMVII
Ad un mese esatto dall'occorrenza di certe sue particvlari & incresciose vicende

Addio, Lugano bella,
seitan ed anarchia
scacciato senza colpa
il Venturi va via
e parte fischiettando
con qualche pena nel cor,
e parte fischiettando
con qualche pena nel cor .

E fu con gran baldanza
con treno metallurgo,
che un dì pien di speranza
lui se ne andò a Friburgo
perché la sua idea
è solo idea d'amor,
perché la sua idea
è solo idea d'amor.

Ma quel che lo aspettava
era un crudel destino:
lavoro non trovava,
vivea da clandestino
lassù fra le montagne
nel gel dell'altopian,
lassù fra le montagne
nel gel dell'altopian.

Ma tu che lo discacci
- sorte tapina e ria -
e che recidi i lacci
per correr la tua via
noi oggi ti facciamo
i più migliori augur,
e non bastasser mai,
i più migliori assai.

Scacciato senza tregua
e col culo un po' a terra
farà tante versioni
per Canzoni contro la guerra!
Sarà tra gli indefessi
e stoici traduttor,
sarà tra gli indefessi
e stoici traduttor.

Elvezia, cosa dirti?
Giunsi un di' di gennaio;
non per disminuirti,
meglio è Portoferraio
e la schiaccia briaca
del tuo Guglielmo Tell,
e la schiaccia briaca
del tuo Guglielmo Tell.

Ma addio, cara compagna,
o bella luganese,
addio ai grotti ed alla
gazzosa ticinese!
Il cavaliere errante
'un cià più voglia d'errar,
e parte fischiettando,
torna dai monti al mar!

martedì 23 ottobre 2007

Donner et Avoir



C'est toujours ainsi.

Il y a des mots qui vont toujours par couples. Eau et Feu. Or et Argent. Victoire et Défaite. Dieu et Diable. Donner et Avoir. Des mots si étroitement liés, qu'on ne les distingue presque plus. Ils forment parfois des unités subordonnées: do ut des.

Donner et avoir, ou recevoir. On donne et on reçoit, comme dans l'administration d'une entreprise. On a toujour une espèce de livre, ou de régistre, qu'on tient souvent sans rien écrire. On sait toujours ce qu'on a donné et ce qu'on a eu. On fait ses bilans.

On se pose toujours la même question: ai-je donné plus que je n'ai reçu, ou c'est bien le contraire? Et ce n'est jamais une question facile. On essaie de tout peser, de se souvenir des épisodes les plus cachés. À la fin, on finit toujours par se rendre; c'est un bilan qui s'avère toujours équilibré pour manque d'éléments décisifs. Si par hazard il y en a un, normalement on le refuse. Ça pourrait altérer un souvenir, en faisant pencher la balance vers l'oubli.

L'amour d'un jour se mêle à la rage. La rage d'un jour se mêle à l'amour. Et il n'est pas question seulement d'amour et rage; bien des autres choses s'y emmêlent. Illusions et déceptions. Rire et pleurer. Crier et se taire. Goûts différents et goûts égaux (ou pareils). La vie de l'un et la vie de l'autre, le passé de l'un et le passé de l'autre, l'histoire de l'un et l'histoire de l'autre.

Tout doit se balancer. Comme dans un vrai bilan budgetaire. Comme dans l'Univers. Ce n'est peut-être trop correct; un budget peu prévoir des bénéfices et des pertes. On travaille souvent de sorte à accroître les bénéfices et à réduire les pertes. Mais quand on parle du bilan, ou du budget, d'une relation humaine, ça ne marche pas comme dans les entreprises. Du moins on l'espère.

Donc, avoir et recevoir c'est bien pareil. Ça doit être pareil. Rien ne s'efface. Un jour ce sera le bien qui prévaudra, un autre jour le mal. Un jour le rire, un autre jeur les larmes. Un jour le soleil, un autre jour la tempête. Un jour l'envie, un autre jour le refus. On forme d'autres couples de mots. Inextricables.

C'est toujours ainsi.

lunedì 22 ottobre 2007

Quando gli EURI® arrivarono a Livorno



Alcuni degli oramai celebri milioni di lettori di questo blog mi hanno segnalato come, oramai, si sia incamminato sulla strada che mena diritta a Jacopo Ortis; qualcuno lo chiama oramai
Cimitero Seautón. Urge un po' correre ai ripari, insomma. Propongo allora quel che il sottoscritto combinò a Livorno la mattina del 2 gennaio 2002; un folle modo per cominciare quell'anno che proseguì di follia in follia. 2 gennaio 2002: da un giorno esatto l'Italia aveva una nuova moneta, l'euro (plurale: euri®). Riccardo Venturi, che sarebbe rimasto a Livorno ancora per poco (però non lo sapeva), la mattina uscì di casa deciso a lasciare un segno indelebile nel suo vecchio quartiere del Pontino. E guardate che questa non è una scenetta del "Vernacoliere": si tratta di fatti realmente avvenuti.

Livorno, 2 gennaio 2002, ore 10,35 del mattino.
Macelleria "Tinti", via della Campana nº 8

ARRIVANO GLI EURI® AL PONTINO
Ovvero: Come farsi mandare in culo da tutto un quartiere una mattina di gennajo
Tragedia monetaria in due atti

Personaggi e interpreti:

- (M) sig. Giuseppe Tinti (il macellaio di via della Campana)
- (DG) sig.ra Silvana Golfarini (la pesciaiola di via della Campana)
- (AC) sig.ra Antonia Carassale (donnina dal macellaio)
- (RV) dr. Riccardo Venturi (il linguista del Pontino)

ATTO 1

E' una bella e fredda mattinata di gennajo.
Da poco più di 24 ore il vecchio quartiere del Pontino è entrato nell'Europa di Wim Duisenberg, ma ancora nessuno sembra averci fatto caso.

Ma il destino è in agguato: alle 9,45 il dr. Riccardo Venturi, intabarrato nel suo spigatone del '56, sta scendendo le scale con fare furtivo e ghigno satanico, deciso a giocare un tiro mancino ai negozianti della zona. Sta recandosi a fare la spesa munito esclusivamente di EURI®, con calcolatrice tascabile, blocknotes e matita. La sortita procede a meraviglia; il dr. Venturi crea prima lo scompiglio dal fornaio di via Pellegrini (spende 2,74, consegna un foglio da 10 e pretende il resto al centesimino creando dietro una coda di dieci metri), poi passa al pizzicagnolo di piazza dei Mille (da ieri ribattezzata piazza degli 0,516) provocando dei NOOOOO! non appena caccia fuori il portamonete con le bieche monetine e, infine, si reca dal macellaio Tinti di via della Campana deciso a chiudere il giro in bellezza. Sono le 10,35 quando il dr. Venturi, coi suoi sacchettini, varca la soglia della bottega trovandovi dentro, oltre al titolare, la sig.ra GOLFARINI Silvana, pesciaiola con barroccino sito da circa due secoli e mezzo all'angolo con via Garibaldi, e la sig.ra CARASSALE Antonia, anni 65 circa, 1,49 di statura, che stanno confabulando.

(M) 'N ci 'apisco piu' nulla...de'...ho preso 'r chitte l'artro giorno in banca...mah!
(SG) A me uno stamani m'ha preso otto etti di triglie e voleva paga' coll'euro, de'! N'ho detto di tira' fori le lire perche' io 'un ce n'avevo da fanni 'r resto...'sti pezzi di mota!
(M) O quanto verrebbero otto etti di triglie, Sirvanina...?
(SG) Sett'euro e trentacinque....
(AC) Uimmèna...'r mi marito stamattina è sortito di 'asa alle setteddieci pe' anda' a piglia' la penzione e 'unn'e' ancora tornato poveromo....dice 'e alle poste c'e' la 'oda 'e arriva ar Montinero fra poo...
(SG) 'r budello di su' ma' a tutti 'vanti....ora de' 'n potevano lascia' le lire 'e tanto se ne vedesse tante di 'velle...

Il dr. Riccardo Venturi, assiso su una seggiola, tace e attende paziente il suo turno.

(M) Oggiu' Antonia, 'osa ti do?
(AC) Mah...du' braciole di vitella....poi mi dai mezzoìlo di macinata 'e ni voglio fa 'r sugo ar mi' marito se torna prima der tocco...
(SG) O Antonia, 'e paghi 'oll'euro?
(AC) De', 'nn'ho manco visto 'ome so' fatti!
(M) Antonia, la macinata la vòi grossa o fine...?
(AC) normale...

ATTO 2

Giunto finalmente il suo turno, il dr. Venturi si alza con studiata lentezza proprio accanto alla sig.ra Antonia, la quale gli arriva si e no all'anca. La sig.ra Golfarini sogghigna.

(M) Che ti do, Riccardone?
(RV) Mah...boh, dammi du' svizzere, du'etti di prociutto e una boccia di vino rosso di 'vello da .....quanto fa tremilacinque?
(M) Come 'vanto fa tremilacinque...? Fa tremilacinque!

RV caccia fuori dalla tasca dello spigatone il vecchio portamonete col canarino Titti, lo apre e fa tintinnare delle monetine.

(SG) Oh, cia' ll'euro!
(RV) Silvana...si dice EURI® !
(M) Uimmèna...
(RV) O bimbi, io stamani 'un cio' che ll'euri® ! O questi o 'un pago!

Il macellaio affetta la mortadella rassegnato.

(M) De' tanto doveva succède'....
(SG) Riccardo ma come mai dici "euri"? Si dice "euro" anco pe' piu' d'uno!
(RV) E chi te l'ha detto?
(SG) Come 'i me l'ha detto? L'hanno detto alla televisione!
(RV) Alla televisione 'un capiscono un cazzo!
(M) De' bimbe state zitte 'e c'e' 'r linguista di Via Garibardi!
(RV) Te affetta e piglia poo pe' ir culo, e guarda 'e voglio ir resto 'o centesimi!
(M) De', ti vo ner culo perche' so' cinque EURO secchi, cinque e zerozzero!
(RV) EURI® !
(AC) Saòsa, io 'un ci 'apisco piu'...ma allora si dice euro o euri?
(SG) Si dice euro, Antonia...o 'un lo 'onosci 'vesto...'ni garba sempre di ruzzà'...
(RV) Ruzza' un par di zerri, Sirvana! De', dici dici della televisione, ma allora iersera tardi 'un l'hai guardata! C'era una trasmissione apposta su raitre' ap-po-si-ta-men-te dediata ar plurale dell'euro!
(SG) E che hanno detto?
(RV) ...'e si deve di' EURI®! C'era pure 'r principale studioso russo di lingua italiana, ir professor Andrei Comaski Periboski dell'universita' di San Pietroburgo, de' o vanni a di' che ruzza a lui!
(M) O chi sarebbe 'sto professore...?
(RV) De', e' russo ma conosce l'italiano meglio di Micael Sciumàker! C'era anco Brunovespa e n'ha detto: "Dottor Vespa, lei quando deve dire piu' d'un libro, come dice?" "Libri! " "E piu' d'un tavolo?" "Tavoli!" "E allora piu' d'un euro sono euri! " S'e' dovuto 'età' anco Brunovespa!"
(M) Bimbe, vi dovete 'età anco voi...'vesto cia' le làure...
(SG) Si' , le laure, le terese e le giuseppine...'vesto cia' ma la Paola 'e bisognerebbe 'ni tirasse 'varcosa sulla ghigna!*
(RV) Se', se', 'ntanto dovete di' EURI®, donne!
(M) Ecco, bravo, ora tirane 'n po' fori cinque senno' si fa notte!
(RV) Ecco cinque EURI®, signor macellaio.
(AC) Allora diro' euri, se lo dice Brunovespa....
(RV) Brava Antonia!
(SG) Vieni allegro da me coll'euri ar barroccio, 'e ti fo ir resto a acciughe ner muso, te....
(RV) Arrivedecci!
(M) Arrivedecci!

(Sipario)

*Cosa che sarebbe avvenuta circa tre mesi dopo, ma per ben altri motivi

La forma del sogno


Dalla stanza interna del "circolino" arriva la telecronaca della partita; e io sono lì fuori, a fumare. Senza nessuna voglia di tornare dentro. Eppure c'ero andato apposta; m'ero cambiato, infilato un maglione pesante perché fa un freddo che si pela, dato una pettinata frettolosa, messo le scarpe. Eccomi qua. La partita è in corso. E tu non la vedi. Sei fuori, al freddo, a respirare aria gelida e a tirare boccate di fumo trapassando i muri.

Quanta gente. Dalle scale arrivano tre ragazzi correndo, ed escono. Anche loro a fumare. Si mettono a parlare. Uno, fra poco, deve andare a lavorare: fa l'aiuto fornaio. Coi suoi amici parla di quella vita dura, dei pochi soldi che guadagna, del dover dormire di giorno. "La domenica m'è toccata dormirmela", dice. Avrà sì e no vent'anni, ventidue. Esce una ragazza truccata male, pesante; un boato. Avrà segnato qualcuno? No, no, è un goal sbagliato. Maledizione.

E pensionati a giocare alle carte, nella sala attigua altri ragazzi tirano freccette a un bersaglio. Fuori, il vuoto e il freddo. Non c'è nulla in questo quartiere, la sera. E' un quartiere tranquillo, non è fatto per gli irrequieti come me. Bisogna andarsene, andarsene via. Bisogna impedire di prosciugarsi nel freddo di una sera di ottobre che sembra già inverno.

Non è nessun mito, la solitudine. Non è nulla di cui bearsi, non ha mai un buon sapore. La si può trovare bella soltanto quando non si è soli, e quando rappresenta una pausa, un diversivo. Quando uno è solo, o vi si ritrova per un periodo più o meno lungo, eccola che appare in tutta la sua bruttezza, in tutta la sua secca natura. Ci si ritrova da un lato a non aver voglia di nessun contatto, e dall'altro a cercarne di casuali. Due cose che sembrerebbero in contraddizione, ma solo chi è solo o chi è stato solo le conosce bene. E diventa un'affollatissima solitudine: ti sfilano accanto, davanti e dietro altre persone che trovi impossibile trattenere. Appoggiato a una ringhiera a guardare. A pensare: Che ci vorrebbe? Ora studio il gesto giusto. Lo sguardo appropriato. La mezza parola, perché una mezza parola a volte può cambiare tutta una vita. E non fai niente.

Bloccato. A far finta di andare a guardare una partita di calcio di cui non ti importa nulla. Ad ascoltare l'aiuto fornaio che deve andare a lavorare. A lasciar partire verso il tuo oblio, neanche allegramente, una ragazza truccata male. E bisogna andarsene. Non importa che sia lontano, può essere anche a un quarto d'ora di autobus. In un posto dove ci sia una finestra che si apre, due chiacchiere, una faccia nuova.

Je bouge lentement, sans rien dire. Changer de langue, c'est comme changer de logement. J'ai honte de mon accent, ce soir, j'ai honte d'être sorti pour ne rien faire. J'ai honte de mon visage. J'ai honte de mes mains qui n'ont pas le courage de toucher ceux qui passent. Vous! Qui êtes-vous? Des inconnus? Non. Je vous connais. Vous êtes la foule de ma solitude, et vous le savez même si vous n'oserez jamais le dire. Vous êtes la duresse de ce pont qui mène je ne sais pas où, et que je dois passer pour aller ailleurs. Passez donc. Allez-vous en. Foutez le camp. Je ne peux pas vous retenir.

Alla fine si ride.

Si allargano le braccia in un gesto sconsolato ma pieno di ironia. Ma come. Non sei voluto uscire a mangiare fuori con un amico perché non avevi voglia di vedere nessuno. Poi te ne sei andato al circolino a venti metri da casa a vedere una partita. Per avere un pretesto qualsiasi per appoggiarti a una balaustra e guardare chissà quali altre chimere. Ma le chimere hanno una caratteristica strana, sai. Sì che lo sai bene. Bisogna accumularle. Accumulandone pazientemente, un giorno, un giorno qualsiasi sanno plasmarsi e dare la forma tangibile, carnosa, parlante forma del sogno che vai cercando, ostinato, da una vita.

sabato 20 ottobre 2007

La porta verde



Può essere, anzi sicuramente lo è, che questo sia l'ultimo post del genere che abbia scritto per l'oramai defunto newsgroup di Guccini. Perché da una canzone di Guccini, la vecchia "Amerigo", trae lo spunto (a volte persino ricalcandone la struttura). Ancora una volta per una storia dall'isola d'Elba, quella di due miei zii emigrati in Argentina. Mi sembra fosse Jorge Luis Borges che, una volta, ebbe a dubitare fortemente di essere un vero argentino, perché non aveva neppure un lontano parente italiano. E l'Argentina è rimasta fortemente nella mia famiglia: la moglie di mio fratello, vale a dire mia cognata, è di Buenos Aires. Divagazioni familiari, insomma. Questa cosa è stata scritta il 3 febbraio 2007.

Probabilmente uscirono, e la porta che si chiusero alle spalle ha parecchie probabilità d'essere stata verde.

Perché di porte pitturate di verde, porte di case e di magazzini, di persiane e di tuguri, a Marina di Campo ce n'erano. Fino alla memoria mia. La memoria di un vecchio glicine, e d'un magazzino dove si tenevano anche le botti del vino. Quell'odore dei vecchi magazzini. L'interruttore con la levetta, e i fili scoperti, intrecciati. La lampadina piena di ragnatele fino all'inverosimile. Aveva, quel magazzino, la porta verde.

Uscirono, Dini Dino e Dini Sebastiana, marito e moglie neppure parenti alla lontana malgrado l'identico cognome, e fecero il cammino di tutti gli emigranti: prima Genova, e poi l'Argentina. L'anno era il 1935.

Sebastiana era sorella minore di mia nonna; Dino veniva da San Piero ed era stato, perlomeno fino al matrimonio, di quella specie di poveri latin-lover di paese, di campagna. Era un bell'uomo, comunque. C'era da andarsene. La storia di tutti.

Mi chiedo a volte dove si sia inceppato, Guccini. Credo che sia stato quando ha smesso di raccontarci la nostra storia attraverso la sua. Amerigo, come Van Loon, è una di quelle canzoni che ce la dicono, questa nostra storia; ma sono canzoni oramai vecchie. Amerigo, in stereocassetta, me la portò un pomeriggio Vincenzo, in regalo, nella mia vecchia cantina che mi faceva da stanza. Era il 1978. La misi su, e dopo poche note della canzone mi misi a pensare a Dino e Sebastiana. Già da allora. Oggi pago un debito. Una cosa che avevo cominciato a scrivere non so quante decine di volte. Troppa identità, forse.

Arrivavano lettere da posti dai nomi fantasmagorici, rutilanti. Mendoza, dove prima si erano stabiliti, lei a servizio di una signora pure italiana, lui a fare il sarto a domicilio. Poi, dopo Mendoza, Rosario. In Argentina non c'era la guerra. Fu là che li raggiunse la notizia della morte in mare di mio zio Mamiliano, ovvero di uno dei fratelli di Sebastiana e di mia nonna. Capo Matapan, 1941. Nave Alvise Cadamosto. Silurata. Il caduto, pure quello. Il suo nome è sul solito monumento. La piazza si chiama della Vittoria, ma si è sempre perso.
In piazza di Pavana c'è anche un Guccini, sul monumento ai caduti.

Poi il grande salto. Prima a Mar del Plata, dove restarono poco perché la casa dove stavano andò bruciata, nel 1948. Aveva preso fuoco una cosa che da noi non esisteva. La televisione. Ce l'avevano. Mia zia Clara mi parla di quelle lettere, che conosce quasi a memoria. Due soldi e giovinezza, e nessun figlio. Non ne ebbero. Non ne vennero.

E poi, infine, a Buenos Aires. Da Buenos Aires arrivò una fotografia. Se l'erano andata a fare in un vero "atelier", mettendosi i vestiti buoni, disponendosi in posa. E' l'unica immagine che ho, nella memoria, di Sebastiana e Dino in Argentina. E' strano, o forse no, come i luoghi cambino l'aspetto delle persone; avevo di fronte le facce elbane della mia famiglia, facce che sapevano di muri a secco, di zuppe di verdura, di comari nel portico e di granito, e nella foto c'era una coppia di argentini, oramai maturi. Lui coi baffi, naturalmente. Il vestito scuro, la cravatta e quell'espressione ispanica che riconduceva non più a un Dini, ma a un Mendizábal, a un Arroyo, a un Ortiz. Lei, ancora di più. Una doña già pingue, in un paese dove si mangiava. La foto è del 1954. Nella lettera allegata, il panegirico di Perón, e, soprattutto di Evita. Un anno dopo, il colpo di stato. Erano diventati peronisti, i miei zii. Due zii peronisti mica ce li hanno tutti. O forse sì, chissà.

Si mise male. Lavori persi a ripetizione. Niente più foto negli atelier. Si diradarono anche le lettere. Finché, nel 1965, trent'anni dopo la partenza, decisero di tornare all'Isola d'Elba. Non ce la facevano più, ma non per nostalgia (da ricchi o da poveri, fa lo stesso). Non ce la facevano più a campare. Percorso inverso. Rividero Genova, dove tutta la famiglia era andata a prenderli. Io avevo due anni.

Quand'io li ho conosciuti, o inizio a ricordarli, erano già vecchi.

Lui era dell'11, lei del '13. Erano andati a stare al Vapelo, in una vecchia casa sulla salita del Salandro che mena a Galenzana, con il gabinetto esterno sporgente puntellato al muro con due sbarre di ferro. E me la ricordo, quella casa, piccola, piena di odori, la radio, e loro lì dentro.

Ci andavo spesso perché mi piaceva sentirli parlare. Soprattutto lei aveva preso quella parlata mezza spagnola, e una lingua non è soltanto parole. E' accento. E' musica. E' una diversa tensione. Così avevano preso a chiamarla la Titta, per via dei frequenti diminutivi spagnoli in "-tita" o "-ita" che usava, una preguntita, una cosita. Lui, col tempo, era rimasto paralizzato alle gambe. Se ne stava tutto il giorno a sedere al tavolino, a becchettarsi con lei che doveva far tutto, lavare, preparare da mangiare, fare la spesa, metterlo a letto.

Credo che avessero cominciato a odiarsi quietamente, come spesso accade tra marito e moglie di lunghissima data. A lui erano rimaste solo le mani, che aveva forti come un toro; una volta, mi ricordo, mentre lui "faceva le forze" con me, lei gli urlò: te le friggi le tu' mani, sciancato. Così. Lui aveva biascicato qualcosa. Poi era rimasto zitto.

Beveva, lui, quantità industriali di Nesquik.

E' morto nell'ottantacinque. Lei, il giorno di Pasqua del novanta. Da due anni le avevano fatto lasciare quella casa, al primo piano, con una rampa di scale troppo ripida. La avevano messa a San Piero in un bilocale comunale. Si usciva e si vedeva un panorama da troncare il fiato, il golfo di Campo, persino Montecristo e la Corsica nelle giornate più limpide.

Quand'è morta, si è scoperto che aveva dei quaderni. A matita, mezzi in spagnolo sgrammaticato e mezzi in italiano più sgrammaticato ancora. Ci scriveva le sue cose. Vecchie canzoni che si ricordava di quand'era bambina o ragazzina; ce n'è persino una sull'affondamento dello Sgarallino, il piroscafo silurato nel '43 da un sommergibile inglese davanti a Nisportino. Trecentotrenta morti.

Non aveva smesso di scriverci per tutti i trent'anni passati in Argentina. Li tiene mio cugino, che sta pure a San Piero. Bisognerebbe che li leggessi tutti. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa e quanto ci possa essere dentro. Magari, chissà, ci sono anch'io. E in ogni caso ci sarei, anche se di me non fosse fatta nemmeno mezza parola.

Anche quella casa sulla salita del Salandro aveva la porta verde. Le pitturavano con quella vernice spessa, da legno, che a un certo punto si staccava a pezzi enormi. Ogni tanto toccava riverniciare tutto daccapo. Probabilmente vi uscirono, e un giorno vi rientrarono. Così, sembra, sempre va.

giovedì 18 ottobre 2007

Canzone della vita quotidiana


Inutile dire che questa cosa arriva dal newsgroup di Guccini. Venti maggio duemiladue. Oggi invece è il diciotto ottobre duemilasette. Basta soltanto adattare l'anno.

Inizia a varie ore, dal buio più fitto (col gatto che fa dei miagolii strani) fino ad albe da inciampare nel tappeto del bagno o a mattine già fatte; ma in questo non c'è alcuna differenza. Ore davanti? Tante o poche, la maggior parte saranno davanti a quella scatola col monitor che è sostentamento, gioia, disperazione, divertimento e noia. Ogni tanto una telefonata, un messaggio, uno squillo; gente che ti vuol bene, gente che non gliene frega nulla di te, a volte persino gente che ti vuol male e vuole farti male.

La vita quotidiana ti ha visto e già succhiato, come il caffè che bevi appena alzato. E dire che, a volte, il caffè non c'è neanche, o non hai voglia di fartelo. Ci avresti, invece, voglia di qualcosa che non sai, di meno liquido, di meno aromatico e di più indefinibilmente pazzo. Ma l'acqua fredda in faccia non riesce a cancellare i tuoi sogni, non annega niente nel lavandino sporco; c'è sempre qualcosa che ti fa tirare avanti, sperso, inconcluso eppure vivo.
Mentre un sonno arruffato e irregolare finisce.

E cominciano le farneticazioni, le attese, i fax e le sigarette una dietro l'altra, Diana Blu; i portaceneri che assumono strane forme, l'aria e la luce tra gli avvolgibili, gli affanni in ogni cosa -che tu ci creda o meno. Il lavoro, il silenzio; il silenzio, l'attesa. Dietro l'angolo ci potrebbe essere una vita cambiata, ci potrebbe essere la vita e forse anche la morte; pronto, chi parla? Ci sarebbero quattro cartelle, ci sarebbe un calcio a tutta una sequela di melme, sabbie mobili, divagazioni, incomprensioni, rovine.

Furiose e vane corse, angosce, liberazioni momentanee, la voglia d'esser sempre meno ammodo da un lato, e quella di normalità dall'altro. E anno dopo anno ci son da fare tanti conti, con se stesso e con il salumiere, con l'esistenza e con l'azienda del gas. E ti ricordi quando ti arrivò una bolletta sbagliata da centodieci milioni, ti ricordi quando eri un ragazzo che si voleva prendere tutto dalla vita, ti ricordi i prosciutti e i salami di panini gommosi, ti ricordi di quando non c'era un solo te stesso.

Ipocrisie leggere e rabbie da poco prezzo, qualcosa va pure sfogato. Persone come te, da un'altra parte, che vivono la tua stessa vita e giocano all'amore, all'odio o all'indifferenza. E i fatti, i fatti filtrati da un foglio di carta o da un televisore; lontani, sempre più lontani. E ti accorgi di quante poche persone t'importa veramente, e non sai neppure se a loro importa così poi tanto di te. Si apre una scatoletta, si butta una pasta o si esce per una trattoria senza nome; ingoiare vino come s'ingoierebbe uno schiaffo o una carezza.

Saluti, saluti, senza mai incrociare gli sguardi. Tranne poche volte che riesce di ritrovarsi da qualche parte, e alcune di quelle volte sconciate da una parola, da un gesto, da degli eventi indesiderati. La rabbia aumenta e viene compressa, delle foto ti guardano beffarde attaccate alle pareti. Ma sono io quello? Per che cosa sorridevo in quel momento? Per chi dicevo di vivere la vita? Ma sarà stato tutto vero, o è un sogno ad occhi aperti? Ma per quel sogno si continua a mandare avanti la baracca, sempre pronto a girare ogni angolo esercitando l'arte dimenticata dell'attenzione.

E tutto fatto in fretta, con la voglia di fermarsi da qualche parte ben sapendo che non accadrà mai. Dove si va adesso? Si va per un quartiere? Come mai non lo riconosco, dov'è la panchina di piazzetta San Luigi? Dov'è la Loretta e quei suoi centoventi chili di buonumore? Dove sono? Ah, ecco. Sono al computer, quello non manca mai, maledetto e benedetto a lui. Sono a toccarmi per controllare se in quest'anno si può ancora sperare di dare alla vita un significato che non sia solo quello letterale del termine, e che poi tanto letterale non è.

E' sera, hai fatto la tua quotidiana collezione di improperi e blandizie, di versioni ed avversioni, di conoscenze e lontananze, di telecomandi e bottoni, di piatti da lavare e di lavaggi frettolosi. C'è un calzino che stringe, come mai ci metteranno quegli elastici feroci. Non c'è nessuno, eppure c'è un po' di tutto il mondo qui dentro, dentro te; prima o poi qualcuno lo capirà. Ma non c'è che un filo di fumo che si alza da una sigaretta mal spenta che ha concluso la sua esistenza. Parte un autobus e tu non ci sei sopra, sarai sul prossimo; inizia il pallore esangue della notte andante.

mercoledì 17 ottobre 2007

Tennis



In questi giorni sono di nuovo alle prese coi cantautori svedesi (forse lo avrete
vagamente notato). Anche questa cosa ne parla, in senso lato. Inoltre è stato scritta in una data che, per vari e pittoreschi motivi, ha assunto una strana importanza nella mia storia: il 18 novembre. Per la cronaca, risale proprio al 18 novembre 2005, la stessa data in cui a Livorno, in via dell'Antimonio, è successo un fatto un po' strano.

In certi giorni le cose si accavallano. E così, proprio mentre mi sto leggendo e rileggendo i racconti di Osvaldo Soriano sul calcio (ma anche su altre cose, come quello, meraviglioso, sulla morte di Robespierre), sto traducendo a dritta e a manca i cantautori svedesi degli anni '70, da Björn Afzelius alla sua Hoola Bandoola Band, da Mikael Wiehe a Jan Hammarlund, da Dan Berglund (che è di Gävle, la città natale di Joe Hill) ad altri di cui non sto neppure a dirvi i nomi, da quanto sono noti…insomma, tutta una generazione di artisti, alcuni dei quali (come Afzelius) già bell'e morti, che hanno scritto e cantato delle belle cose, a volte bellissime, il cui solo torto è quello di non essere in inglese. Ma è un altro discorso, questo. E' sempre un altro discorso. E, del resto, accanto alle cose belle e bellissime, come tutti quanti (Dylan compreso) hanno scritto anche delle emerite cacate. Ma oggi mi sono imbattuto in una canzone (della Hoola Bandoola Band, per l'esattezza, e scritta proprio da Björn Afzelius e Mikael Wiehe) che mi ha riportato alla mente certe cose. Ve le voglio raccontare. La canzone è del 1975 e parla di un match di tennis.

Nel 1975 ero un ragazzino, ed avevo quell'età dove si segue qualsiasi sport. Ora il tennis lo detesto sinceramente, al pari dell'automobilismo e del motociclismo; ma allora seguivo con passione anche quegli sport, ed altri ancora che non mi dicono assolutamente più nulla da anni e anni. Oltre agli sport, mi garbava seguire tutto quel che c'era da seguire in questo pazzo pazzo mondo; un'abitudine che, fortunatamente e disperatamente, non ho perso. E così mi ricordo di quei giorni di settembre del 1973, del palazzo della Moneda bombardato e in fiamme, dei carri armati per le strade di Santiago, del Cile piombato nel buio della dittatura militare. Le canzoni degli Inti-Illimani e dei Quilapayún ho cominciato a impararle allora, mi stanno nella memoria lunga e sarà difficile che vi escano. La foto di Allende con l'elmetto e il fucile in mano ce l'ho da sempre negli occhi, così come le prime foto di Pinochet. Undici settembre 1973. Comincia, oltre alla repressione, ai massacri ed agli esili, anche il laboratorio ultraliberista di Milton Friedman e della Chicago School, che fanno del Cile di Pinochet l'esperimento privilegiato delle loro teorie. Campo libero. In Cile cominciano a vedersi anche un bel po' di neofascisti e stragisti italiani, così come dopo si vedranno nell'Argentina dei militari.

Un mese dopo il golpe, nello stesso Estadio Chile che aveva visto migliaia di prigionieri rinchiusi in armi e l'assassinio di Víctor Jara, si tiene una partita di calcio decisiva per la qualificazione ai mondiali di Germania del '74. Dovrebbe essere Cile-URSS. Ma l'URSS non c'è. Non si è presentata. Scende in campo la nazionale cilena di Galíndez, e basta. Viene dato il fischio d'inizio, e i giocatori cileni si passano la palla fino a infilarla nella porta avversaria vuota. Cile 1 - URSS 0. Il Cile va ai mondiali, dove verrà peraltro eliminato al primo turno (al pari dell'Italia di Chinaglia, Anastasi e degli oramai cotti Riva e Rivera).

Nel 1975, per la Coppa Davis di tennis, si deve giocare in Svezia un match sulla carta senza storia. Svezia-Cile. La Svezia è quella, fortissima, di una delle leggende del tennis di tutti i tempi: Björn Borg. Allora non ha manco vent'anni ed è già il più forte giocatore del mondo, quello che ha rivoluzionato il gioco inventando, ad esempio, il micidiale rovescio a due mani. In Italia non si è mai saputo come pronunciarne il nome; perlopiù lo si chiama Bìorn, con l'accento sulla "i"; e, a quei tempi, anche l'Italia tennistica è fortissima. E' quella di Nicola Pietrangeli, mezzo italiano e mezzo tunisino (ma con la madre russa), che fa da capitano non giocatore. E' quella di Adriano Panatta, di Paolo Bertolucci, di Corrado Barazzutti, di Tonino Zugarelli. E' quella che, per un match di Panatta a Wimbledon (poi perso) riesce a far slittare la trasmissione del TG1 delle 20 a orario da destinarsi. Ma nel 1975, in Coppa Davis, è già volata fuori quando la Svezia deve invece giocare il suo quarto di finale con il Cile, in casa, presso gli impianti di Båstad (che si pronuncia bòòstad). E in Svezia scoppia il cataclisma.

Fin dall'annuncio del match inizia in Svezia una enorme campagna per il boicottaggio dell'incontro con la squadra cilena, formata da dirigenti e giocatori favorevoli alla giunta di Pinochet ed espressione perfetta della Upper class che aveva sin dall'inizio sostenuto il golpe contro Salvador Allende e la Unidad Popular. In Svezia si forma immediatamente un gruppo denominato Aktion Stoppa Chilematchen (" Azione Stop al Match con il Cile "), cui presto si uniscono altre organizzazioni della sinistra istituzionale e extraparlamentare. Anche il Riksidrottförbundet (Federazione Sportiva Nazionale, il CONI svedese) e il Tennisförbundet (Federazione Tennistica Svedese) sono invitati a dimostrare il proprio appoggio al popolo cileno annullando il match (che avrebbe comportato l'automatica eliminazione della Svezia), che però, -naturalmente- rispondono picche nel consueto "nome dello sport" che "non deve entrare con la politica" (evidentemente, però, c'entra quando i giocatori cileni, da perfettissimi momios, nelle interviste, esaltano ben istruiti il "nuovo Cile libero dal comunismo" e l' "economia in rinascita" grazie alle ricette ultralibertiste di Friedman e della sua scuolina). Si tiene quindi una dimostrazione durante il match (che viene, per la cronaca, vinto dalla Svezia per 5-0, con Borg e Wilander che massacrano a pallate i malcapitati cileni ; la Svezia avrebbe poi vinto la Coppa Davis), cui partecipano oltre settemila persone. Sono liberati in aria migliaia di palloncini colorati, ognuno dei quali reca il nome di un prigioniero politico in Cile, ed anche i giornalisti e i commentatori televisivi cileni non possono evitare che la cosa sia vista, dato che la trasmissione in diretta avviene a cura della TV di stato svedese. C'è stata una generazione che ha visto di queste cose, insomma. E che ha, almeno in Svezia, ascoltato canzoni come quella della Hoola Bandoola Band di un altro Björn, che così dice (e stavolta vi risparmio il testo svedese; ma il titolo è Stoppa matchen, cioè "Fermate il gioco"):

I fascisti governano con il terrore e la tortura e poi cianciano di "spirito di legalità", sì, ci sarebbe quasi da vomitare. Mentre i contadini e i lavoratori son tenuti in scacco dai militari, così che i ricchi possano giocare a tennis. Ma, cazzo, qui non ci giocheranno. Fermate il gioco, fermate il gioco! Con le olimpiadi di Berlino del '36 Hitler si fece tanta di quella pubblicità che quasi ci rimase stupito lui stesso; e i generali cileni stanno per fare la stessa cosa. Ma noi non faremo propaganda per il loro apparato di terrore. Fermate il gioco! Fermate il gioco per non giocare a tennis, qui, con loro. Quelli di Båstad, che minacciano coi bastoni e coi fucili, vogliono solo difendere i profitti portati dal turismo. Hanno, come i generali, ben precisi motivi economici. E poi dicono che lo sport non c'entra con la politica. Fermate il gioco! Si deve scegliere da che parte stare, si deve prendere posizione. Non si può certo ritirarsi oppure mettersi da un lato. Se la partita si gioca la upper class cilena ne sarà fiera. Ma se la partita viene fermata, dimostriamo il nostro appoggio al popolo cileno. Fermate il gioco!

L'anno dopo, nel 1976, la stessa cosa accadde in Italia. Stavolta si trattava della finale stessa della Coppa Davis, che la squadra italiana di Pietrangeli, Panatta e Bertolucci doveva giocare a Santiago del Cile, dato che il Cile si era ritrovato in finale proprio grazie al boicottaggio della semifinale da parte, ma guardate un po', dell'Unione Sovietica. Anche in Italia vi fu un vastissimo movimento in favore del boicottaggio della finale contro il Cile, ma -ovviamente- prevalsero le "ragioni dello sport". Il match si tenne, trasmesso in differita dalla RAI, e l'Italia vinse la sua unica Coppa Davis della storia. Mi ricordo di averlo seguito in televisione, a orari stranissimi, con mio padre che da una parte moccolava perché si era andati a giocare in quel posto di merda e in mezzo a quella gente di merda, e dall'altra tifava per Panatta come un forsennato (lo stesso Panatta, però, che si era schierato decisamente per la partecipazione). Mi ricordo le inquadrature del pubblico, dove si vedeva gente sorridente, vestita bene e decisamente benestante. Era quel che si voleva far vedere, ovviamente. Come si stava bene senza quei maledetti comunisti dai quali Pinochet aveva salvato il Cile con il gentile aiuto del premio Nobel per la pace Henry Kissinger. Mica si faceva vedere Missing con Jack Lemmon. Però era la stessa RAI che, il 23 febbraio 1977, trasmise in diretta il concerto degli Inti-Illimani, di Isabel e Angel Parra e di Edmonda Aldini che cantavano e interpretavano il Canto para una semilla. Mi sia permesso di averne, per una volta, un granellino di nostalgia. Anche perché in quell'occasione ero pure davanti alla televisione, e il "Canto per un seme" me lo ricordo ancora a memoria dal primo all'ultimo verso, da Cantar es lindo deleite dell'introduzione al triplice Se acaben las pesadumbres dell'ultima canzone.

E così finisce questa cosa. Quasi quasi la dedico alla memoria di Osvaldo Soriano. Mica perché io sappia scrivere come lui, e di calcio vi si parla solo di sfuggita. Ma gliela dedico lo stesso, certo del resto che è morto fin dal 1997, lo stesso anno in cui è morto -due giorni fa- mio padre, e che quindi non gliene importa un accidente nel suo attuale lautes Nichts.

Ihn rührt kein Nun noch Hier. Ihn rührt kein Tennis noch Fussball
. Ma son cose che, a me, mi rühreranno per sempre. Saluti a tutti.

lunedì 15 ottobre 2007

Da cantare in galera


Quelli che vedete nella foto sono gli Knutna Nävar. In svedese significa "Pugni chiusi". Erano un gruppo di giovani musicisti di Göteborg che, negli anni '70, scrivevano e cantavano canzoni di lotta. Una delle loro canzoni la voglio, oggi, dedicare a Cesare, a Marina, a Paolo e a Gérard. Non serve a niente, è solo una canzone. Ma è per loro, lo stesso.

Canzone da cantare in galera
Knutna Nävar, 1971

Avete i vostri codici e le ordinanze,
avete le vostre prigioni e le fortezze.
Sui vostri enti di sussidio ci contiamo poco!
Avete i vostri secondini e i giudici
che sono pagati da voi e fanno tutto quel che ordinate.
E allora?
Credete di poterci sconfiggere a questo modo?

Spariranno, e magari anche alla svelta,
non vi siete accorti che tutto questo
non vi servirà a niente?
No, non vi servirà a niente!

Avete giornali e tipografie
per farci parlare e per farci tacere.
Sui vostri politici ci contiamo poco!
Avete preti e professori
che sono pagati da voi e fanno tutto quel che ordinate.
E allora?
Perché avete così tanta paura della verità?

Spariranno, e magari anche alla svelta,
non vi siete accorti che tutto questo
non vi servirà a niente?
No, non vi servirà a niente!

E avete carri armati e cannoni,
e poliziotti, e soldati.
E allora?
Avete nemici così pericolosi?

Sapete che per voi è finita,
che tutti vi abbandoneranno.
E un giorno, sì, forse domani stesso
vedrete che nessuno vi aiuterà più.
Ordinerete di fare fuoco. E allora?
I cannoni saranno rivolti contro di voi!
Ordinerete di fare fuoco. E allora?

I cannoni saranno rivolti contro di voi!



La pagina vuota


Buonasera, pagina vuota.

Mi trovo in una condizione abbastanza bizzarra o, se si vuole, idiota. Ti spiego. Mi è presa un'assoluta voglia di riempirti; però non so cosa scrivere. Nulla. Il vuoto. Più vuoto di te.

Mi dirai a questo punto, cara pagina vuota: Intanto mi stai riempiendo. Hai già scritto ben quattro righe di scemenze, che vuoi di più? Continua a scriverne, e vedrai che alla fine mi riempi.

Touché. Queste pagine vuote si fanno sempre più decise e chiare. Te le dicono sul muso, le cose. Mi ricordo di antiche pagine vuote che quasi si schernivano, oppure esercitavano un normale sentimento di comprensione. Però in questo modo rimanevano, è vero, desolatamente vuote.

Ripensavo a quante volte mi ci sono trovato davanti, nella mia vita, alle pagine vuote. Quando ancora non c'erano i computer, erano proprio pagine. Di carta. Penna in mano o macchina per scrivere. I meccanismi erano gli stessi; la classica ora notturna, la sigaretta, e nessuna idea in testa. Talmente nessuna, che sembravano tutte le idee del mondo. Una specie di sabba tra il nulla e il tutto.

Fogli appallottolati. Perché qualcosa cominciavo quasi sempre a scrivere. La trafila era consueta: dapprima due o tre frasi. Poi, se stavo scrivendo a mano, cominciavo a fare scarabocchi e disegnini vari. Se invece scrivevo a macchina, cominciavo a inventare parole sensa senso: turluk, omdurman, savyetas, piriklonn, ethvuglabro. In entrambi i casi, c'era un cestino della carta straccia che si preparava stoicamente al suo dovere.

Con l'avvento del computer è cambiata la forma ma non la sostanza. Il cestino c'è sempre, ma serve più che altro per i troiai che ogni giorno arrivano nella cassetta della posta. In questo momento è pieno, ad esempio, di elezioni primarie. Io che non voto manco alle secondarie e alle terziarie, figuriamoci se voto alle primarie.

Basta cancellare il file. Click. Tutto va, beninteso, in un altro cestino. Non è detto che non ci finisca, fra qualche secondo, anche questa cosa. Ma forse no. Queste pagine vuote d'oggi sanno come farsi riempire. Bastano un quindici ottobre, un pensiero fisso in testa che si vuole cercare di cacciar via in qualche modo, un goccio di dietro l'angolo (ma quale?), e si va.

Le storie che si affacciano sono strane e inconcludenti. Quando s'attacca la pagina vuota già con un'idea ben definita in testa, tutto fila liscio. Quando invece non la si ha affatto, ecco che arrivano i famosi intrecci. Una mia specialità era voler scrivere qualcosa su uno che scrive di uno che scrive. Il gioco degli specchi, insomma; o quel pazzescamente noioso Tristram Shandy, che una volta mi sono persino comprato nell'originale inglese ripromettendomi di leggerlo. Nulla da fare. A novel about writing a novel, c'è scritto sul retrocopertina; è l'unica cosa che mi è rimasta impressa di quel libro. Si vede che Laurence Sterne doveva averci avuto delle serate simili alle mie; solo che, a un certo punto, invece di appallottolare il foglio, era andato avanti per seicento pagine vuote. Non per nulla lui è Laurence Sterne e io sono una testa di cazzo qualsiasi.

Nulla di tutto questo, stasera. Nessun intreccio. Nulla. La delusione d'amore? Grazie, vi devo aver già rotto a sufficienza i coglioni con questa storia. Il cinema? Non so scrivere di cinema, però vi informo che oggi sono stato a vedere il film dei Simpson assieme a un'amica. La storia elbana? L'ho già scritta ieri notte.

Un'ora fa, però, ho scoperto che ci sono un paio di persone, due compagni di strada che non conosco che hanno linkato questo blog sul loro; e poiché questa è una (ex) pagina vuota, le vorrei ringraziare. Una è il colonnello Kurtz in persona, il che mi riporta idealmente a Heart of Darkness e a Apocalypse Now. Il colonnello Kurtz scrive un blog intitolato Storie inutili ma non eccessivamente, che è un titolo geniale; fosse venuto a me. Invece, lo scorso 14 maggio quando ho aperto questo blog, mi è venuto a mente un titolo assolutamente cretino solo un po' impreziosito dall'alfabeto greco; ma ormai lo tengo.

L'altra è Pappagheno. Un incrocio fra Pappagone e Papageno del Flauto Magico, sembrerebbe; Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, mein Gott. Anche lui scrive storie inutili ma non eccessivamente, in un blog che si chiama Questo triste mondo malato. Andateveli a vedere nei link a sinistra, questi blog, perché ce li ho messi. In questo blòggo blòggo mondo ci si ringrazia così, tra persone che non si sono mai viste e che probabilmente non si vedranno mai. Con un link. Che poi vuol dire "legame, collegamento". Si gettano fili invisibili. Cosa vi sia attaccato non si sa. La nostra vita? Può darsi. I nostri sogni? Può darsi. Pagine vuote da riempire.

Ci s'incontra in qualche modo sempre, fra compagni di strada, fra passanti che non si riescono a trattenere, fra viaggiatori di treni paralleli & piccoli eroi delle occasioni perse. Va a finire che, a modo estremamente nostro, si forma persino uno straccio di rete. Con le nostre storielle elbane, storie inutili, mondi malati, black blog, cestini di vimini, consumimur ignis, palabras en el viento e quant'altro. Non linko più roba "famosa", a parte una; non me ne frega più un cazzo di opinion maker, di lucidi sarcastici incazzati illuminati precisi puntuali commentatori. Si fa quel che accidente ci pare. Ma non fate l'errore di crederci dei minimalisti, dei disimpegnati o roba del genere. Tutt'altro. Abbiamo semplicemente scelto un'altra strada per guardare sul mondo. Ce lo guardiamo con la lente di noi stessi, senza delegare niente a nessuno.

E così eccoci alle conclusioni, cara pagina vuota. Vedo che ti sei riempita, almeno formalmente. Ci sono delle lettere, delle parole, dei periodi, la punteggiatura sembra essere a posto; tutto in ordine, insomma. Dal file Word "Documento 1" sei pronta per essere spedita nell'eternità di Google. Tu pensa: nessuno ti cancellerà mai, almeno fino a quando non s'innescherà una certa reazione termonucleare. Sei stata davvero in gamba. Ti sei riempita da sola. Mi inchino al cospetto della tua bravura, e me ne vado a letto.

Sincerely, R.Venturi.


domenica 14 ottobre 2007

Emiliona


Emiliona io non l'ho mai conosciuta, per il semplice motivo che è morta non so quant'anni prima che nascessi. Però, al tempo stesso, la conosco da sempre; non c'è una volta che sia una che non ne abbia sentito parlare da mia madre e mia zia, quando sono assieme. E che dico mia madre e mia zia; quando era ancora viva tutta la mia tribù allargata, Emiliona era ospite fissa delle lunghissime chiacchiere nel portico, con tutti i suoi aneddoti (che all'Elba non si chiamano aneddoti ma fatterelli).

Quando si nasce a Marina di Campo, ci sono circa 98 probabilità su 100 di far Dini di cognome; e, infatti, Emiliona per l'anagrafe era Emilia Dini. In quei tempi dove il politically correct non faceva parte di questo mondo, se un'Emilia Dini superava certe dimensioni bastava aggiungere il suffisso dell'accrescitivo, e restava per sempre Emiliona; tanto più che, almeno a giudicare dai racconti, "ona" doveva esserlo per davvero. Ma non è questo il punto. Emiliona ci aveva il male. Nessuno sapeva cos'avesse per davvero, e come si chiamasse; era semplicemente il male.

Successe che il marito di Emiliona, un contadino, a un certo punto dovette andare a fare il marinaio e imbarcarsi su qualche mercantile. Fra una vita di merda nei campi e una vita di merda sul mare, aveva scelto quella dove pagavano qualche soldo in più. E così se n'era andato, restando a volte fuori per mesi e mesi; e quando si resta fuori per mesi e mesi e si è magari ancora abbastanza giovani, c'è il caso che in qualche porto esista qualche signorina a pagamento specializzata in marinai. Per farla in breve, il marito di Emiliona, un giorno, era tornato a casa e si era gettato nel letto con la moglie attaccandole la sifilide in men che non si dica. Ma non era quello il male.

Quando Emiliona s'era accorta di stare male, non ci aveva dato peso; il marito era ripartito e andare a Portoferraio dal dottore costava troppo. Quando però la malattia aveva già fatto il suo corso e le si era installata definitivamente dentro, Emiliona ci dovette andare, dal dottore; e la diagnosi fu rapida e evidente. Nulla da fare. Se l'era beccata e se la doveva tenere. Ci sarebbero volute dosi massicce di Salvarsan per cercare di curarla a dovere, ma non ce n'era a sufficienza.

Bisogna sapere che Emiliona, oltre ad essere grossa come una motonave, aveva pure un vocione che sembrava uno scaricatore di porto. Sembra anche che, prima di attaccare qualsiasi discorso, emettesse un caratteristico grugnito che mi piacerebbe poter riprodurre in qualche modo; ci proverò con uno sgrùùùùnf. E così, appena ricevuta la terribile diagnosi, aveva apostrofato il dottore con uno dei suoi mirabili detti: Sgrùùùùùnf, quer troiaio der mi' marito, 'un gli bastava la su' Emilia, quello scostumato. Perché non sapeva né leggere e né scrivere, però nel mezzo del suo eloquio ogni tanto infilava dei paroloni che pronunciava con una proprietà incredibile, senza tirare sfondoni, e con studiata lentezza. Poi s'era alzata bestemmiando iddìo e aveva infilato la porta senza pagare, lasciando il dottore a ridere. La giusta nèmesi volle che il marito tirasse avanti si e no ancora un anno; poi s'imbarcò per sempre sul cargo Eternity, battente bandiera imprecisata.

Di Salvarsan ce n'era poco, e l'Emiliona ci aveva delle crisi terribili della malattia, dolorosissime. Per lenirsi un po' il dolore, cominciò a prendere la morfina. Prima un po', poi un altro po', e poi ancora un altro tanto po'. Alla fine diventò una morfinomane. Una drogata. Il male, quella cosa che a Marina di Campo nessuno sapeva come si chiamasse per davvero, ora lo chiamano: crisi di astinenza. Ora s'immagini una contadina di Marina di Campo negli anni '30 e '40 del secolo ventesimo, vale a dire in pieno Medioevo; un donnone d'un quintale e rotti, vedova, senza figli, con una voce da cignale arrochito e, come se non bastasse, con il male; in breve Emiliona diventò qualcosa di peggio dello scemo del villaggio. Diventò Emiliona, entrando a modo suo in una sua povera leggenda.

Lo scemo ufficiale e consolidato del villaggio, peraltro c'era già. Lo chiamavano Bìbbolo, faceva il cavatore e girava costantemente tenendo uno stecchino da denti in bocca e giocherellando a volte ad infilarsi l'altro capo nei buchi del naso (e questo posso dirvelo perché è morto a novantacinqu'anni e l'ho visto coi miei occhi). Lo chiamavano anche 'Ncorpocebbùio perché quando era a lavorare alle cave del Seccheto non si portava mai da mangiare. Si portava la gavetta vuota e all'ora di desinare passava fra i compagni di lavoro; chi gli buttava dentro due cucchiaiate di zuppa, chi un pezzo di pane, chi un po' di verdura lessa, chi un pezzo di pesce, chi un grassello di carnaccia. E lui mescolava e si mangiava tutto, dicendo: In corpo c'è buio. E' morto girando per i campi con il suo stecchino. C'erano degli operai a scavare un pozzo. Avevano lasciato scoperta una presa trifase a 380 volt per il compressore, e lui s'era messo a tocchicchiarla beccandosi una scarica che l'aveva lasciato secco. Sennò sarebbe ancora vivo, uno del genere non ci era riuscita nemmeno una vita a quel modo ad ammazzarlo.

E così Emiliona cominciò la sua carriera di drogata senza sapere di esserlo e senza che gli altri lo sapessero. Siamo durante la guerra. All'Elba non ci sono più nemmeno gli occhi per piangere, perché le lacrime se le sono già mangiate tutte. Ma Emiliona ci ha bisogno della morfina; e, non si sa per quale mistero insondabile, riesce sempre a procurarsela in qualche modo. I colleghi del defunto marito, sentendosi forse in qualche modo obbligati ad aiutarla, la vanno a fregare persino dalle infermerie delle navi, o se la fanno dare con le buone o con le cattive nei porti dove sbarcano; ma non basta. Arriva l'occupazione tedesca; e Emiliona, allora, escogita un sistema infallibile. Lei, che fino a tre giorni prima non sapeva nemmeno che esistesse la Germania, appena incontra un tedesco comincia a berciare: viva Mussolini! Viva ir fùrer! Morfin? Si doveva essere accorta che, quando chiedeva "morfina" ai tedeschi, questi ci levavano la "a" finale. E allora morfìn su morfìn; e quelli gliela davano sul serio, anche perché aveva una corporatura che avrebbe messo paura anche a un orso bruno. Poi i tedeschi se n'erano andati, anzi li avevano fatti andar via. E fu una gran disgrazia, perché Emiliona dovette ricominciare a farsi portare la morfina dai marinai.

I ragazzi del paese gliene combinavano di tutte; e quando dico di tutte forse non rendo bene l'idea. Non la voglio nemmeno rendere per non trasformare questa cosa in un campionario di crudeltà gratuite commesse in un'epoca tremenda. E lei non reagiva mai. Non gliene importava nulla. Gliene importava solo della morfina e di cucinare, perché sembra fosse una cuoca impareggiabile. Il problema è che viveva in un tugurio in mezzo a un lèzzo da far raccapricciare; e nessuno ci andava a mangiare, da lei. Dal letamaio uscivano fuori dei profumini deliziosi che si mischiavano al puzzo di merda e di marcio; e come animale di compagnia si teneva una gallina. Guai a toccargliela. Una sola. Ma alla fine la povera bestia morì di consunzione.

Emiliona stava sulla porta quasi sempre e chiacchierava con le verdure che puliva; poi le pigliava il male e si doveva fare la puntura di morfina che glielo faceva passare; e ricominciava a pulire verdure e a farci delle conversazioni vagamente filosofiche. Un giorno la videro che pelava la gallina morta, e piangeva come una vite tagliata. A ogni penna che cavava, uno sgrùùùùùnf e un "ma com'eri bella", un "ma perché si' morta", un "ma ora che fo". Piangendo era arrivata alla strinatura; e piangendo l'aveva messa in pentola. Dopo un po' si sentiva un odorino di brodo e di gallina lessa che non sto nemmeno a dirvi.

Arrivato a questo punto, resta da dire soltanto che un certo giorno, manco so precisamente quando, la trovarono morta a letto. Di solito, quando racconto storie di questo genere, c'infilo sempre il finale poetico; è una mia caratteristica, forse addirittura una fissazione, e ad ogni modo non mi sono mai curato né di originalità, né di altre stronzate del genere. Mi piace, alla fine delle mie storielle, fare qualche volo pindarico che magari sortisce un effetto contrario a quello voluto. Ma stavolta non mi viene, accidenti. Nessun volo. Son quasi quarant'anni che sento le storie di Emiliona, e ce ne sarebbero tante da riempire un libro intero; ma sono buffe storie in cui le risate sanno tutte quante di dolore.

sabato 13 ottobre 2007

Forza Ferrão!


La squadra si chiama Ferroviário Atlético Clube; è una delle squadre della città di Fortaleza, in Brasile. In Brasile non esiste un campionato nazionale, ma tutta una serie di campionati dei vari stati; il Ferrão gioca in quello del Ceará, e lo ha vinto nove volte. La maglia è rossonera, e il suo simbolo è uno squalo, il Tubarão, per cui ogni tifoso viene detto Tubarão da barra (squalo della rotaia).

Da oggi, pur restando fedele alla Fiorentina in Italia, mi metto a fare un tifo sfegatato, in Brasile, per il Ferroviário. E' stato fondato, sembra, in questo modo: Nel 1933 la RVC, le ferrovie dello stato del Ceará, imposero ai propri operai di fare i turni di notte per la riparazione di locomotive, carri merci e vagoni nell'officina di Urubu. Gli operai più giovani che abitavano lontano non potevano tornare a casa tra i due turni di quell'alienante giornata di lavoro; per passare il tempo si misero a giocare a calcio, formando due squadre che presero nome dalle piante che erano state strappate a mano per fare un campo di gioco: "Matapasto" e "Jurubeba".

E furono anni di lotte durissime, di scioperi, di repressione, di lavoro massacrante. E di calcio nel mezzo. Le due squadre si unificarono formando un club unico che prese il nome di "Ferroviário"; e così ancora si chiama. Una squadra proletaria, così come proletari e operai sono tuttora i suoi tifosi. E' bene andare a vedere il sito del gruppo ultras Resistência Coral per rendersene conto; nei "Textos" si possono trovare articoli come Futebol e Anarquia, che fanno capire perfettamente perché la maglia della squadra sia rossa e nera; e anche foto come quella qui riportata. Che dice: "Né guerra fra le tifoserie, né pace fra le classi". Uno striscione che i torcedores del Ferroviário portano a ogni partita, a giudicare anche dalle altre foto.

Tra gli inni del Ferroviário, c'è persino A las barricadas. In una "versione modificata", o adattata, cantata ovviamente in portoghese e non in spagnolo:

Bandeiras corais agitam nos ares
Nosso time em campo dá orgulho de ver
Ainda que nos espere a vitória ou a derrota
apoiar o Ferrão é o nosso dever

O bem mais precioso é o Ferroviário
temos que defendê-lo com fé e valor
Ergue a bandeira do Ferroviário
que o triunfo virá logo depois

Ergue a bandeira revolucionária
que o triunfo virá logo depois
De pé operários à batalha
temos que derrotar a reação

Às arquibancadas, às arquibancadas
pelo triunfo do nosso Ferrão
Às barricadas às barricadas
pelo triunfo da revolução!