giovedì 21 giugno 2007

Destini ridicoli



Molti anni fa, quando ero studente universitario, un illustre docente (che allora era un semplice assistente), un pomeriggio, mi raccontò una storia. Avevo con quella persona, allora, quello che credevo un buon rapporto; così, a volte, capitava di fare delle chiacchierate, discretamente lunghe, nella biblioteca dell'istituto di linguistica. Quel pomeriggio il discorso era caduto sul "mistero" della lingua etrusca e sugli innumerevoli "decifratori" che essa aveva avuto –e continua ad avere-. Ridendo, il professore (per uno studentello di vent'anni non esistono assistenti, associati o liberi docenti; sono tutti professori) mi aveva detto di avere una volta effettuato, non so quanto per scherzo, quella che lui chiamava la "Statistica generale dei decifratori dell'etrusco" dal 1900 fino all'anno allora corrente (era il 1983).

Ne nacque una divertente discussione sul termine "decifratore"; se, infatti, per "decifrare" si intende dare un esatto valore fonemico a dei determinati segni grafici, l'etrusco è già bell'è decifrato da almeno due secoli e mezzo: si serve, infatti, di un semplicissimo alfabeto greco di derivazione cumana. Autentici decifratori sono stati il celeberrimo Champollion coi geroglifici egiziani e l'architetto Michael Ventris con la "Lineare B". Ma non c'è nulla da fare: la lingua etrusca, ancora, deve essere "decifrata". La statistica fatta da quel professore, su basi che egli garantiva rigorosamente aritmetiche, aveva dato il risultato di 1,75 decifratori all'anno. E giù risate, specialmente sul "virgola settantacinque"; fu proprio allora che, all'improvviso, mi raccontò questa storia. Si avvicinò a uno scaffale, cavò fuori un grosso libro e cominciò a parlarmene; ed è da allora che non mi vuole andar via dalla testa. Non andrà mai via.

Nel 1930, un professore di greco e latino presso un liceo napoletano, tale F.P., appassionato di etruscologia, dopo anni di preparazione riuscì a pubblicare un volume assai corposo dove, a suo dire, veniva irrefutabilmente dimostrato che l'etrusco era un dialetto greco. Come la maggior parte dei « decifratori » di quell'antica lingua, il prof. P. si basò quasi esclusivamente su delle assonanze di parole; questo, naturalmente, non esclude che nell'etrusco siano stati effettivamente individuati numerosi prestiti greci, particolarmente nell'onomastica, ma anche nella terminologia comune (ad es., patna « scodella, patera », gr. patáne, lat. patina; purthne «magistrato, dittatore», gr. prýtanis – ma si tratta di una parola quasi sicuramente di origine preindoeuropea – ; cupe « vaso; capanna », gr. kýpe ecc.; tutti i termini, etimologie comprese, sono ripresi dal Dizionario della lingua Etrusca di Arnaldo d'Aversa, Paideia Editrice, Brescia 1994).

Il prof. P. riempì quasi cinquecento pagine di elucubrazioni e di esempi, fino ad « interpretare » sulla base del greco praticamente tutte le iscrizioni allora note; quelle la cui interpretazione era oramai assodata (non bisogna scordarsi che l'etrusco ci è noto quasi esclusivamente da iscrizioni funerarie, come se un ipotetico archeologo marziano del 40° secolo dovesse ricostruire la lingua italiana con a disposizione solo una ventina di cimiteri) furono, per così dire, « rivoltate » con la ricerca di termini greci dialettali, glosse di Esichio ed altre testimonianze che potessero adattarsi al significato già appurato. Al termine dell'opera, direi quasi ovviamente, il prof. P. inserì una "grammatica della lingua etrusca": anche qui è doveroso dire che certi fatti morfologici dell'etrusco sono stati abbastanza ben chiariti, come la celebre « rideterminazione del genitivo » o « genitivo del genitivo »: Larth-al « di Larth » > Larth-al-s, forse « di quello di Larth ».

Il volume fu accolto con enorme entusiasmo. Il professore aveva alcuni agganci altolocati, particolarmente in Vaticano; naturalmente, visto anche il periodo, alcuni giornali cominciarono immediatamente a parlare dell' "italico genio" che aveva finalmente squarciato le tenebre dalle quali l'etrusco era avvolto. Negli ambienti accademici, invece, il volume del professor P. fu accolto con ovvio scetticismo; ma tutto sarebbe rimasto forse lì, come era già accaduto e come sarebbe più volte accaduto in futuro, se colui che era allora la massima autorità italiana in campo linguistico non fosse "sceso in campo".

Si trattava del celebre professor C.B., una figura invero piuttosto controversa. Trentino di nascita, le sue benemerenze nel campo della ricerca linguistica erano state –e sono tuttora considerate- indubbie; però è anche uno dei principali autori, su precise istruzioni del regime fascista, dell'italianizzazione forzata dei toponimi e dei nomi di persona delle "terre redente". Come è lecito attendersi data la sua origine, infierì particolarmente nell'Alto Adige, o Sud Tirolo; ma non mancò di far sentire la sua "autorevolezza" anche nella Venezia Giulia. E così Brixen diventò Bressanone, Sterzing diventò Vipiteno, Glurns diventò Glorenza, Ajdovsčina diventò Aidussina; e i Mittempergher e i Vodopivec diventarono Mezzomonti e Bevilacqua. Nel dopoguerra, invece, quando già era in età più che avanzata, fu notato –si dice per puro caso- da un famosissimo regista cinematografico che era alla ricerca di un attore non professionista che interpretasse la parte di un pover'uomo licenziato dopo aver preso parte a una manifestazione, ridotto in miseria e costretto infine a chiedere l'elemosina (famosissima la scena in cui, con disperazione e vergogna, si ritrova a tendere la mano ai passanti). Fu subito scritturato. Ancora oggi, la sua foto nel ruolo di quel pensionato campeggia nell'istituto di linguistica dell'università dove aveva insegnato.

Ma torniamo alla storia del professor P. e della sua decifrazione dell'etrusco. Dopo un "battage" notevole in suo favore da parte della stampa, il professor C.B decise di attaccarlo pesantemente. Lo fece dalle colonne della più importante rivista linguistica italiana, e con argomenti irrefutabili dal punto di vista scientifico (sebbene espressi in modo decisamente sarcastico e violento). Ne nacque la solita diatriba sulla « scienza ufficiale » che non riconosce il « genio alternativo », un po' come alcuni anni fa –in altro ambito- accadde con la miracolosa "cura Di Bella"; se il professor P. aveva dalla sua il Vaticano, l'intervento di C.B. fece immediatamente cessare il favore accordatogli dai giornali del regime fascista. C.B. non era uno qualsiasi, la sua "opera di italianizzazione" gli aveva guadagnato le lodi e la gratitudine pubblica di Mussolini, ed un signor nessuno non poteva metterglisi contro.

La storia andò comunque avanti per un bel po'; C.B. attaccava periodicamente, sostenuto dalla « glottologia ufficiale », mentre il professor P. ribatteva con quello che aveva a disposizione; finita la manna dei giornali nazionali, gli rimanevano soltanto pubblicazioni di ambiente ecclesiastico. Ad un certo punto la cosa si trasformò in un vero e proprio massacro, tanto che del caso ebbe ad occuparsi addirittura l'Osservatore Romano, con un articolo in cui si invitava ovviamente alla moderazione e a fare la pace. Ma C.B. insistette, infierendo e strocando definitivamente le ipotesi del professor P. Un'autentica sbugiardatura, della quale, forse, non c'era eccessivo bisogno; le elucubrazioni del professore napoletano erano talmente prive di fondamento che anche un liceale avrebbe potuto controbatterle con efficacia. Il volume del professor P. fu comunque ritirato dal commercio, e sulla vicenda cadde il silenzio più totale; solo poche copie vennero conservate nelle biblioteche nazionali e universitarie.

Silenzio; termine quantomai appropriato in questo caso. Perché questa storia ha una sua conclusione inaspettata e terribile. Nel 1935, dopo la stroncatura definitiva di C.B., il prof. P. si ritrovò completamente squalificato. Letteralmente dagli altari nella polvere. Dovette dimettersi dall'insegnamento a poco tempo dalla pensione, e si deve comunque tenere presente che era un buon classicista impastoiatosi per passione nelle sabbie mobili dell'etrusco e del suo "mistero".

Un giorno di quello stesso anno, il professor P. si chiuse a chiave nel suo studio e si impiccò. Non aveva saputo sopravvivere alla vergogna di essere stato distrutto in una cosa alla quale aveva comunque dedicato una parte importante della sua vita. Non è nota la reazione del professor C.B.; e così il professore napoletano entrò nel novero dei dimenticati, categoria sbugiardati.

Fin qui la storia come la avevo raccontata originariamente sul newsgroup it.cultura.linguistica, seppure con lievi modifiche e integrazioni. Ma c'è una cosa che non ho mai raccontato. Una cosa che è venuta dopo.

Il post originale aveva girato un po' per Internet. In particolare, era stato ripreso da alcune pagine linguistiche di alcuni frequentatori di quel newsgroup. Nell'autunno del 2002, quando abitavo in Francia, una sera ricevetti una strana mail.

Una signora mi scriveva dal Canada, dicendomi di aver letto proprio una di quelle pagine e chiedendomi dove mai avessi sentito quella storia. Si trattava della nipote del professor P. Le risposi con una lunga mail. La signora ne rimase addolorata, e commossa; nella sua famiglia, la vera fine di suo nonno era sempre stata messa a tacere, e a lei stessa, sebbene avesse sempre avuto dei sospetti, le era stato detto che era morto per una malattia incurabile.

Evidentemente la signora, dopo aver letto la storia che avevo scritto, aveva fatto delle ricerche ed era riuscita a risalire al mio indirizzo di posta elettronica (cosa assai facile, dato che non l'ho mai tenuto minimamente nascosto). Le dissi che tutto mi era stato raccontato, molti anni prima, da un mio professore universitario che mi aveva anche mostrato il libro di suo nonno sulla decifrazione dell'etrusco; del resto, di quel professore facevo il nome, ben preciso, nel post originale. Mi chiese se poteva scrivergli per avere conferma e, eventualmente, per saperne qualcosa di più; le risposi tranquillamente di sì, fidandomi del buon ricordo che avevo di quella persona.

Qualche giorno dopo, ricevetti una nuova mail dalla signora P, dove mi diceva che era riuscita a trovare l'indirizzo del professore (nel frattempo divenuto libero docente). Costui le aveva risposto, ma palesemente infastidito; per di più "condendo" la sua mail con considerazioni sul mio conto non propriamente belle. Rimasi sorpreso. Avevo di quella persona, lo ripeto, un ricordo più che positivo; le sue considerazioni su di me mi ferirono. Gli scrissi, quindi, per chiedergli qualche spiegazione; e mi rispose con una mail sarcastica e piena di livore. Al che, in preda alla rabbia, gli spedii qualche riga non propriamente cortese ricordandogli, tra le altre cose, alcune "perle" che aveva infilato in una sua pubblicazione, e pigliandolo neanche tanto leggermente per i fondelli. Lo scambio continuò così per un altro paio di mail; poi, più niente. Dopo qualche tempo ho perso i contatti anche con la signora P.

E' così che va. Nessun'altra considerazione. Il tempo passa e quel che sembrava prima si rivela poi sbagliato. Cancellato il buon ricordo di una persona, senza saperne il perché e senza la coscienza di avergli fatto alcunché di male. Resta solo una storia del quale forse sono stato il tramite, e una vicenda umana dimenticata.


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